Mauro Santini: di tutto il trucco, solo una lacrima
in collaborazione con La Camera Ardente
Incrinare la sistemazione dello sguardo, ma come chi non se ne accorge. Farlo magari passeggiando, con sottilissima furia d’anfratto, oppure con trasognata, “neghittosa” indolenza (lo insegna Walser). Porgere cerniera tra tremore e tremore. Coltivare guizzi vegetali per tramutarli nell’involucro di un nuovo cinema. Venire incontro a un volteggio di tempo. Raccoglierlo nella stessa lente dove frena il bacio della mano che la copre. Vedere con la mano, con le mani: lasciarle andare attraverso. Mostrare il mondo ancora sconcluso. Mostrare il mondo organismo senziente: questo nostro senziente battere un colpo per sentire se le cose attorno rispondono. Concepire solo il leggerissimo spostarsi delle cose, cioè vederne la commozione, che è anche parabola: «per istaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza o quest’arboscello o quella pietra, e cosi tutto quanto». Stare alle stelle come rasoterra. Progettare un levarsi di passi accordati con la neve. Seguire l’intreccio delle rondini. Annodare le palpebre alla lacrima. Riversare il non manifesto, l’arrotolato. Dare l’oscurità, perché trattenga limpidezza. Non rimettere i debiti che si dovranno scontare con l’invisibile. Dire soltanto che vi è ancora dell’invisibile.
Questo, per me, il cinema di Mauro Santini.
A distanza di due anni, ripropongo qui una conversazione che abbiamo avuto all’inizio del progetto Le passeggiate, accompagnata da una mia riflessione (a chiusura).
Ciao Mauro. Vorrei iniziare questa conversazione da un tuo precedente rifiuto, da una tua ritrosia a prendere parte a questa serie di ritratti. Perché tradire ora questo silenzio?
Il motivo per cui ho accettato la tua proposta, a distanza di un anno, è perché ora so che in questa conversazione parleremo dei miei lavori del decennio precedente solo come una traccia o come un indizio per parlare di altro, di questo “altro” che sono i miei nuovi film e cioè “Qualcosa nei passi e nello sguardo” (che va a concludere una ipotetica trilogia sulle vacanze iniziata con “Attesa di un’estate” e “Fine d’agosto”) e gli altri due progetti ancora in itinere: “Le passeggiate” e “Vaghe Stelle”. Per tornare a dialogare sul mio lavoro era necessario che il mio sguardo elaborasse un’evoluzione rispetto ai “videodiari” ed ora che è avvenuta, o che comunque sta avvenendo, eccomi qua…
Una delle questioni che abbiamo già avuto modo di discutere insieme è congiunta alle modalità di presentazione di questi lavori, che tu stesso continui a definire come minuti, “piccoli film” (c’è, in questo attributo, non tanto una dichiarazione di distanza dal gigantismo straparlato di certe opere sperimentali, ma piuttosto un tentativo di custodia di quella dimensione taciuta della realtà dove spesso il tuo sguardo si trova ad indugiare). Ti chiedo: c’è vita fuori dai festival?
La mia generazione si è formata, se così posso dire, anche attraverso la dimensione dei festival, luoghi nei quali crescere e coltivare la propria idea di cinema, per ritornarvi poi come autori con i propri film. È dunque innegabile l’affetto nei confronti delle tante rassegne cui ho preso parte in questi anni. La domanda che oggi potremmo porre è: c’è ancora spazio per questo tipo di “piccole” opere nei festival più o meno grandi? Da alcune difficoltà riscontrate negli ultimi anni risponderei con un certo pessimismo; una riflessione autocritica mi porta però a chiedermi se non sia invece stato io incapace di fare il salto verso quel cinema considerato “maggiore” e ospitato nelle rassegne a cui facevi riferimento (o se abbia volutamente evitato di farlo…). Certo è che il cinema fragile e non narrativo che pratico richiede una diversa attenzione, un grado maggiore di percezione e di ascolto: sono film che chiedono allo spettatore di specchiarsi nelle immagini e nei suoni, di interiorizzare sensazioni e memorie per arrivare a superare il mio biografico, facendo divenire “la mia famiglia, i miei ricordi” qualcosa di collettivo. Vivono della partecipazione emotiva e sono come “completati” da chi guarda: ecco allora che la condivisione in sala rende a volte il film diverso rispetto alla visione “in solitario” nel buio della propria abitazione.
Per quanto mi riguarda, una parte del problema è quello della concezione del film come opera chiusa, come compartimento stagno incapace di confrontarsi e di reagire, di volta in volta, agli spazi che si trova ad incontrare (l’idea stessa di “anteprima” andrebbe quanto meno ridiscussa). Forse la rete, a differenza dei festival, può essere uno strumento per affrontare la “geografia vivente” di un film…
Non ho alcuna preclusione alla diffusione dei film in spazi alternativi come la rete, che anzi può essere uno strumento importante per superare certe gerarchie rigide dei festival e che ritengo particolarmente adatta ad accogliere questi lavori che possiamo definire “minori” (anche se, ripeto, non ritengo sufficiente questa sola dimensione…). Rispetto poi alla concezione del film come opera chiusa sono d’accordo nel tentare di superarla, al punto che i due progetti in realizzazione sono concepiti proprio come lavori aperti: “Vaghe Stelle” è un film in sette movimenti (dal numero delle stelle che compongono l’Orsa Maggiore) che possono però essere proiettati anche singolarmente (come puoi ascoltare le canzoni di un album musicale) o addirittura mostrati insieme ma in un ordine di volta in volta diverso, modulato a piacimento da un curatore; “Le passeggiate” sono invece potenzialmente infinite, non avendo un numero prestabilito, e sarebbe bello se il gesto del passeggiare si tramutasse in qualcosa di fisico, in una carovana di proiezioni sparse per il mondo.
Tutto il mio cinema è poi un cinema di piccole epifanie dello sguardo che si trova a sorprendersi dei propri deragliamenti e per quanto io possa tentare di dare una struttura, la componente del caso è parte fondamentale del mio modo di girare.
Una delle indicazioni fondamentali del tuo cinema l’ho trovata quasi nascosta in “Qualcosa nei passi e nello sguardo”, dove con tenera austerità rimproveri Giacomo, tuo figlio (il film è girato nel 2004), esortandolo a fare silenzio per ascoltare i suoni dei Monti Sibillini. Quanto è importante per te questa dimensione dell’ascolto?
Quella sequenza che tu citi racconta molto del mio cinema, dell’attenzione che ripongo in ogni ripresa, perché è fondamentale raccontare con la maggiore intensità possibile quell’istante che sto cercando di restituire. Non c’è set né messa in scena, non c’è retake: ho sempre girato affidandomi a questa partecipazione totale e sincera al momento filmato. Luce naturale e camera a mano, capace di deviare ad ogni istante.
“Qualcosa nei passi e nello sguardo” è un film nel quale i passi e gli sguardi di un figlio e di un padre si sovrappongono ed incrociano e ad oggi mi sembra il mio film più sincero, quello dove metto in campo una visione indisciplinata, quella di Giacomo, che nonostante il mio continuo guidarlo dal fuoricampo (“riprendi il campanile, la montagna, fai stop…”) procede di testa propria, con la sua telecamera e con quella naturale individualità che un figlio ha rispetto al padre. E allora il film racconta proprio di questa distanza e di questa verità che il girato in qualche modo già custodiva in sé e che sono tornato a comprendere solo ora. Che poi questo sguardo quasi anarchico di Giacomo è a ben vedere il mio modo di intendere il cinema, nella sua totale libertà (non è un caso: sono autodidatta e non vengo da alcuna scuola di cinema, bensì da studi pittorici…). Forse il punto è che lo sguardo non si insegna? non so… Credo però che si possa svelare un metodo, un’attitudine: all’attesa, all’attenzione verso ciò che sta davanti a noi e che dovremmo reimparare a vedere ogni volta con occhi vergini. E all’ascolto: perché quando in questo caso dico a Giacomo di fare silenzio, sto in qualche modo sottolineando un altro aspetto importante, cioè che non mi è sufficiente registrare immagini, ma che l’atto della ripresa debba includere anche i suoni. In questa ricerca quasi ossessiva dell’eliminazione della menzogna, è importante che il suono appartenga integralmente alla verità di quel momento; ricrearlo in seguito sarebbe già finzione. Qualcuno potrebbe obiettare che il cinema è altro e non mi sentirei neppure di contraddirlo; ma ciò che a me interessa è testimoniare un vissuto, il tempo che ho passato e che passerò ancora su questa terra ed il suo fuggire via: forse è troppo poco, ma a me poco importa. Se non sentissi l’urgenza di restituire questa verità non farei cinema e tornerei probabilmente alla fotografia, o alla pittura dei miei vent’anni.
Mi piace poi l’idea che questo “frammento di vita trascorsa” chiuda quella trilogia de “Le vacanze” di cui parlavo prima, dove la perdita materna di “Attesa di un’estate” e la ricerca paterna di “Fine d’agosto” incontrano questo passaggio di ruolo figlio/padre, nella sospensione della stagione estiva che qui diventa anche una stagione di sparizioni, di essere “vacanti”, appunto. Ma già mi sto intristendo…
Pure, questa solo apparente nitidezza viene tradita, nel tuo ultimo film (Prima passeggiata), da un aereo che taglia il cielo, proprio come una lacrima, un velo celeste che ridiscute i bordi del fotogramma: non nitidezza allora, ma velo di lacrime che trasfigurano il mondo?
Ecco, mi hai smascherato… [ride, n.d.r.] Sì, è proprio così: di tutto il trucco (i videodiari) rimane oggi solo la lacrima. E la trasfigurazione non è più esteriore, bensì rivolta verso l’interno.
[“Aspetta, ti mando un’immagine ripresa stamattina”, mi dice a questo punto Mauro]
Questa mattina sono uscito per una nuova “passeggiata”, tra la neve, sperando di registrare cose prive di interesse, come scrive Georges Perec. Ad un tratto ho notato questo merlo che cercava del cibo. Ho iniziato a riprenderlo, ma non avendo un obiettivo tele avevo la necessità di avvicinarmi. Naturalmente, più mi avvicinavo più lui si allontanava. Il racconto che avrei voluto fare della sua ricerca del cibo era subito diventato altro, ovvero il racconto della relazione tra me e lui, della nostra distanza, impossibile da colmare, fino al suo inevitabile volo. Non ho mai concepito i miei film sulla base di verità precostituite ed irremovibili, poiché per me la teoria è sempre la conseguenza di una ricerca pratica. In passato ho sperimentato il tele per avvicinarmi a cose e persone rimanendo a distanza, per cogliere quelle verità che la prossimità non mi avrebbe permesso di raccontare, perché non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine*. Oggi invece preferisco usare ottiche brevi e possibilmente fisse, che mi costringano ad un altro rapporto con l’ambiente: l’ottica dunque diventa strumento per stabilire una relazione, un dialogo (o un dialogo mancato, come nel caso del merlo…).
Luigi Ghirri, un pensatore di soglie che a tratti sento molto vicino a te, ha scritto dello sguardo come “un sentire etico, la modalità possibile per indagare e raccontare luoghi che sembravano avere perso ogni riconoscibilità.” Quanto, nel tuo cinema tutto abitato di sparizioni e di zone dal quale sporgersi sul mondo, è possibile avvertire questo sentire etico, questa possibilità di restituire allo sguardo una verità possibile su quei luoghi divenuti estranei?
È tutto lì, in questo sentire etico, e nell’attivare un campo di attenzione diverso**. Che per me diviene anche un sentire empatico, aptico (come ha definito Nicole Brenez i Videodiari), quasi tattile. Amo molto lo sguardo di Ghirri, così come quello di Guido Guidi, il loro tentativo di ridare una dignità a luoghi divenuti anonimi ai più. E quando si riesce in questo, poi quell’immagine ‘raccolta’ va tutelata, protetta ad esempio da narrazioni capaci di comprometterla, perché la sua dignità riconquistata è sufficiente a sostenere il film. Ritornando al discorso da cui siamo partiti, ho quasi l’impressione che alcuni film debbano essere protetti da un eccesso di visibilità: fare questi piccoli film significa anche tornare a custodire certi gesti, serbarli, meditarli, registrarne la presenza.
Torniamo una volta ancora ai luoghi dove non siamo stati. Prendendo in prestito da Eric Pauwels (un autore che entrambi amiamo molto) uno dei suoi titoli, ti chiedo: quali sono i tuoi “film sognati”?
Sì, amo molto quel film come l’intera sua trilogia… Mi ha sempre affascinato lavorare su immagini girate da altri. Sto pensando allora di chiedere ad amici di inviarmi materiali girati in luoghi “dove non sono mai stato” e che magari non visiterò mai.
Un altro progetto è quello che sto rimandando ed elaborando da ormai quasi dieci anni: già “Dove non siamo stati” ne era testimone, con la figura assente di Corso Salani e la sua voce che vagava su terre di confine e di migranti, tra la Francia e la Liguria (o sulla costa adriatica ed il suo confine slavo, altra ipotesi di location). Un film che mi porti ad una riflessione nuova, diventando straniero a me stesso e battendo un sentiero che mi porterebbe a riappropriarmi della parola, non più solo taciuta ma anche parlata.
prima passeggiata : trailer from mauro santini on Vimeo.
[Qualche ora dopo la nostra conversazione, torno a visitare la “Prima Passeggiata“ di Mauro, opera chiusa nella sua nitidezza digitale fino a che un aereo non piange (e non più solo taglia) il cielo nella sua obliquità di lacrima: neanche più come divagazione celeste, ma come profondità di superficie, come modo di guardare attraverso il velo degli occhi e negli occhi, facendo così del bordo fertile il luogo eletto del (suo) cinema da dove le immagini dipartono -limo e limite dello sguardo-, e insieme destituendo la cornice come demarcazione tra campo e fuori campo, come separazione netta tra film e vita.
Il cinema continua allora a respirare nello splendore breve di questa cecità che per vedere non ha più bisogno soltanto di pupille tagliate di luna, ma di lacrime come destinazione dello sguardo: “Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso di questa stessa esperienza, un’essenza dell’occhio. (…) In fondo, in fondo all’occhio, questo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio.***” Il proprio del cinema?]
NOTE
*Roland Barthes, La Camera Chiara.
**Luigi Ghirri, Lezioni di Fotografia.
***Jacques Derrida, Memorie di cieco (l’autoritratto e altre rovine)
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domanda stupida: dove si possono vedere i lavori? (a parte i frammenti su Vimeo)
(comunque parole giustissime, bravi entrambi)
(ah, no, su Vimeo c’è molto di più di quanto avessi trovato/arguito tramite il link qui sopra, bene!)