Shelter in place (l’Italia in una stanza)

di Sara Marinelli

Nove ore di fuso non sono niente.
Se dormo di giorno e sto sveglia di notte, sono in sincronia perfetta. Con lei. Con l’Italia, dove non vivo più da 13 anni, e che ora vive dentro la mia stanza.
Nelle settimane di distanziamento sociale, nel confino del mio appartamento, la città fuori — San Francisco — si dissolve, se ne sta sospesa dietro la porta di casa. E se la città fuori per molti giorni non esiste e non mi staglia davanti le sue strade, le sue insegne, e la sua gente, ricordandomi dove sono, la geografia pure scompare, e nel tempo capovolto, posso vivermi il sogno e l’incubo di essere in Italia, adesso, nei giorni della pandemia e del dolore. La mia stanza non ha più pareti, ma non ha alberi infiniti come dice la canzone — di quelli ne abbiamo più che mai bisogno — piuttosto squarci di vicoli e strade, piazze e balconi, chiese e gradini, sanpietrini e mare, che si aprono nitidi e chiari davanti a me in ogni dormiveglia, in ogni visione, quasi da poterli odorare.

Abito da sola, e ora che la città non mi chiama più alla sua routine quotidiana, e non mi impone di risponderle in inglese, nel silenzio del mio isolamento irrompono le voci della radio, il cinema, i notiziari, i video italiani, assieme alle sue canzoni, che ascolto e canto senza balcone, e così mi sembra di non essere più qui, negli Stati Uniti. Ciò che riguarda la quarantena americana, con i suoi decreti, i divieti, le precauzioni, i numeri e le cifre del contagio, non mi scuote come tutto ciò che riguarda lei. Lei mi è dentro, mentre il resto è fuori, mi attraversa e non si radica. Apprendo le notizie locali quasi meccanicamente, rispetto le ordinanze e le regole, ma è come se non mi riguardassero, come se, appunto, io fossi altrove, o da nessuna parte.

Vivo il paradosso di una vita sdoppiata tra qui e lì, di trovarmi in ambedue i luoghi ma in nessuno. Annaspo tra due piani di realtà paralleli, non so a quale saldarmi: alla realtà vicina e fisica dove il mio corpo abita e deve tutelarsi e isolarsi; o alla realtà lontana ed emotiva per la quale tuttavia anche il mio corpo teme e freme fin dentro alle viscere, fin dentro alle ossa. Sospetto che sto cercando di fare l’impossibile: far coincidere dentro di me i due piani, condannandomi a vivermi una vita non soltanto sdoppiata ma doppia. Eccoci, due settimane dopo la vita a San Francisco è un deja vu imperfetto, il riflesso dell’altra realtà, e mi dona una falsa immunità. Il linguaggio e le emozioni della pandemia si ripetono due volte, le reazioni della gente, lo sconcerto, il panico, l’incertezza, e poi la responsabilità individuale e collettiva, il distanziamento, i divieti ufficiali, gli scaffali vuoti ai supermercati, le file ad aspettare il proprio turno.

Tutto si è duplicato. Anche la quarantena. Vado sommando i giorni italiani a quelli americani e ho perso il conto effettivo. Ho cominciato almeno una settimana prima dell’ordinanza statale del 17 marzo. Le notizie sul dramma italiano avevano allertato il mio istinto di salvaguardia ancor prima che qui fosse percepito il rischio. La città si godeva i suoi ultimi giorni di libertà senza saperlo, io me ne privavo. Avevo incassato troppi pugni nello stomaco guardando l’Italia sui giornali e sugli schermi per riuscire a reggermi in piedi davanti ai ristoranti pieni, i dive bar con le partite di baseball, la spensieratezza e le risate della gente di questa città giovane, città tech, città produttiva, città temeraria, che ha imparato a scansare imperturbata i senzatetto sui suoi marciapiedi. Non avevo bisogno di incassare un altro pugno, di alimentare il mio tormento, e sentirmi di colpo più straniera di prima. Ho preferito ritirarmi anzitempo. La mia casa è divenuta doppio riparo: dal Covid-19 e dall’inconsapevolezza, dalla normalità, dalla troppa salute presunta e presuntuosa.

Scomparso il mondo fuori, me ne sto rintanata nel mio “shelter in place.” Questo è il nome del decreto d’emergenza adottato per arginare la pandemia. Il decreto che in molti paesi utilizza la parola “casa,” qui accuratamente la evita. Qui in migliaia la casa non ce l’hanno. E chi il tetto ce l’ha ma è un espatriato, un immigrato in regola o meno, continua ancora a chiedersi quale sia davvero la sua casa. Ancor più adesso. Ancor più in un paese come l’America che sa accoglierti e respingerti con la stessa facilità; che non sai se sarà in grado di proteggerti e curarti, o se ti lascerà soccombere.

E allora in queste settimane si fa più acuto il desiderio di “tornare,” si fa più vivo che in mille altri momenti di tutti questi anni quando l’hai lasciato scemare davanti ad altrettanti mille ragionamenti che ti hanno convinta che non era ancora tempo, che non eri ancora pronta. Ora il desiderio si fa necessità dolente, forse insensata, dettata dalla nostalgia, dalla pena per il dolore della gente, l’ansia per i familiari, il lutto collettivo, il senso di colpa per essertene andata, e la voglia di stare più vicino a chi hai lasciato. O scatenata dal dileguarsi di un’illusione che in fondo non hai mai smesso di nutrire.
Ogni espatriato italiano ha nella testa un chiodo fisso, anche quando non ne è pienamente consapevole, anche quando non lo ammette chiaramente a se stesso: quello di un giorno tornare. Non sa né quando né come, sa soltanto che ha un luogo perduto da ritrovare, seppure fosse soltanto per andarci a morire, per finire i giorni là dove sono cominciati.

Ma nelle settimane del contagio e del bollettino nefasto delle sue vittime, non è soltanto la nostalgia che spinge a considerare il ritorno improvviso e provvisorio, ma il terrore della perdita dei cari, e l’impossibilita del saluto. È il timore del pericolo per l’altro, non per se stessi, che spinge a cercare voli, a calcolare le date, a tracciare la mappa delle restrizioni, dei divieti di entrata e di uscita.
L’Italia è oramai irraggiungibile. Isolata, blindata.
Le frontiere sono chiuse, come chiuse sono quelle interne agli Stati Uniti e in altri scali europei. L’impossibilità del ritorno ti sbatte chiaro in faccia la tua appartenenza, rivendicata ancor più quando ti è sottratta. Seppure riuscissi mai ad arrivarci, resta il problema di dove stare, cosa fare, e poi come e quando rientrare. L’Italia è divenuto un paese da scartare, da temere. L’Italia, tua casa, dove per adesso non hai casa.

Forse “Shelter in place” è davvero il nome giusto in un paese come gli Stati Uniti, un paese che un italiano non riesce mai fino in fondo a chiamare casa, nemmeno dopo tredici anni, o anche più. Ma al quale riconosce l’opportunità di rifugio da qualunque cosa si sia scappati o si sia lasciati alle spalle in cerca di qualcos’altro.
Rifugiarsi sul posto. Rendere qualsiasi luogo il proprio riparo, persino un parcheggio del centro commerciale, un sottopassaggio di autostrada, un campo sportivo, che dispone brandine e cartoni per i senzatetto a sei piedi di distanza gli uni dagli altri (6 feet è la misura ufficiale di distanza).
Ripararsi come si può, dove si sta.
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, scriveva Ungaretti durante la Grande Guerra. Questo verso si insinua improvviso nella mente a chiusura dei miei pensieri, come il verso di una canzone si è insinuato a principio. Si sta sospesi in attesa. Nel suo caso, poeta soldato, in attesa di poter cadere da un momento all’altro. Nel nostro, in attesa di rialzarci. In attesa di tutto ciò che sarebbe troppo da elencare: la fine della pandemia, delle morti, della reclusione, della paura, dell’incertezza.
Ma davanti a ogni altra cosa adesso si antepone l’attesa di tornare. Di sostituire quel piano di realtà affettiva lontana a quello fittizio e immaginario ricreato dentro la mia stanza, che seppur mi dona conforto e una parvenza di vicinanza, acuisce il mio spaesamento.

Nove ore di fuso non sono niente — ho detto; invece lo so che sono tanto, che fanno la differenza tra oggi e domani. La notte di qui è il giorno in Italia. Quando riesco ad addormentarmi nella mia notte, perdo la sincronia e recupero la giornata italiana in differita. E proprio come una partita o una puntata in differita non voglio sapere come va a finire prima del tempo. Devo prima assaporare il piacere di pronosticare un buon risultato, di immaginare un buon finale. Insomma, devo prima imbottirmi di speranza, augurandomi che il suo oggi sia stato meno doloroso di ieri; augurandomi che quando domani sarà veramente domani per entrambi, lei, con nove ore di luce e di giorno in più, avrà contato meno vittime e meno contagi, che i suoi numeri siano forieri di una svolta, che le cifre incitino al coraggio, che la vita non si sia arresa alla morte.
È soltanto dopo aver vissuto tutte le ore che posso del suo giorno, che procedo poi a occuparmi del mio. E ad accusare tutta la sua solitudine.

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9 Commenti

  1. tra le altre cose mi sembra interessantissimo il fatto che una volta che le frontiere reali sono ristabilite, anche quelle mentali/affettive ritrovano forza e realtà; nell’ubriacatura di “globabilizzazione” (spesso appunto più apparente che reale) nella quale siamo vissuti, solo pochissimi, e penso naturalmente a Régis Debray, dicevano che le frontiere continuavano a esistere, e che era importante esserne coscienti e non dimenticarle;

  2. È proprio vero. Il tuo commento offre un’altra angolatura alla condizione che descrivo. Passi una vita a buttare giù muri e a valicare certi confini identitari, e poi ecco che alcune frontiere affettive risorgono dentro di te. Grazie del commento.

  3. bello!
    Mi ha fatto pensare al lavoro che, insieme ad alcuni colleghi, abbiamo chiesto quest’anno agli studenti di architettura al Politecnico di Milano: raccontare in immagini, parole e disegni la propria casa. La propria condizione di “confinati”. Ed è emersa una geografia di luoghi nient’affatto scontata con case piccole e grandi, con persone sole o con famiglie numerose, con luoghi difficili da “raccontare”, con persone che si sono trovate – nel momento del lockdown – in luoghi altri rispetto alla propria casa, ecc. Una complessità, quella della casa e del sentirsi a casa, che accende riflessioni e cortocircuiti anche per chi non è un espatriato. Perché “avere una casa”, uno “shelter in place” non è affatto così scontato come appare. Neppure per una popolazione privilegiata di studenti universitari. I loro racconti iniziali appaiono un po’ come frammenti dei pensieri di questo articolo: puzzle di una vita che improvvisamente prende una strada inaspettata sovvertendo il senso delle cose e dei luoghi, delle relazioni e degli affetti.

    • Verissimo, il discorso sulla casa dà sempre vita a meditazioni complesse, talvolta suscitando emozioni contraddittorie, e certo, anche in chi non è espatriato. In effetti, ci troviamo un po’ tutti a fare i conti con lo spazio reale e affettivo nel quale ci troviamo per adeguarci alle prescrizioni e restrizioni di questo tempo, nonché per renderlo anch’esso vita, e non soltanto tempo che non si vede l’ora che passi.

  4. ‘Vivo altrove’. Era un libro che mi tornava in mente spesso, quando il mio altrove era solo svasato di un’ora dall’Italia. In Inghilterra. Questa tua inversione spazio-temporale è un’immagine molto bella del vivere altrove. Si rimane sempre un po’ doppi (tripli, quadrupli), si leggono i giornali di qua come di là, si ricevono messaggi in lingue doppie (triple e quadruple). Ma quello che fino a poco tempo fa ci faceva sentire cittadini del mondo, oggi ci intrappola nella lontananza. Quella fisica, dove un abbraccio con chi ci sta a cuore o con chi ha perso una persona cara non è possibile. Quella di testa, dove ci chiediamo se e quando abbiamo sbagliato a scegliere di stare altrove. Ma, Sara, torneranno stanze senza pareti e alberi infiniti. Dobbiamo crederci. Anche se in quelle stanze aperte verso il cielo non saremo più gli stessi. Abbiamo già iniziato a non essere più gli stessi. A non sentirci più liberi di girare su una mappa del mondo dove ci eravamo abituati a non percepire più confini. Saltare su un aereo la mattina e trovarsi la sera con un vecchio amico, in un bar all’aperto, sotto una A rossa dove, per caso, c’ero anch’io. C’ero, ma come sempre da quando sono tornata in Italia, credimi, ero anche altrove.

    • Grazie delle sue osservazioni, Paola. Ha ragione, posso immaginare che un espatriato che “ritorna” al proprio paese di origine si troverà sempre a vivere altrove ovunque sia, e a essere un individuo doppio. O a metà? Mi viene da fare una riflessione personale che offro qui: e cioè che forse viversi questa realtà doppia, sebbene spaesante, non sia meglio che sentirsi scissi, a metà fra l’uno e l’altro posto. Sono due facce della stessa medaglia, ma stranamente questa “doppia” vita che mi sto vivendo adesso ha qualcosa di affettivamente più valido rispetto alla normalità che mi fa vivere una vita sola e separata dall’altra. Grazie per gli spunti di riflessione.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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