Polifonia dell’esserci: Bruno di Pietro, Colpa del mare e altri poemetti

Di Giuseppe Martella

I.

Colpa del mare di Bruno di Pietro (Oèdipus, 2018), è una composizione in dieci quadri, per cinque voci narranti, su due linee melodiche che spesso si intersecano o talora si corrispondono a distanza per antifone. Fuori dalla metafora musicale, in essa si realizza una continua dialettica di epica, lirica e dramma, in cui domina talora la dimensione speculativa, talaltra quella storico-narrativa o infine quella erotico-elegiaca. Dividerò questa disamina in tre parti e nella prima mi limiterò all’esame delle prime tre sezioni, che costituiscono la cornice ontologica dei percorsi storici e biografici delle sezioni seguenti.

L’elusivo inizio delle cose e delle parole rimane sempre sospeso tra differenza e ripetizione, tra caso e necessità. E’ in questa epoca (epoché) trascendentale che si annidano la colpa e la sua coscienza, la mancanza e la sua ombra, il prolungamento dell’esserci nel mare dell’inconscio (individuale e storico) nel fondo indistinto di tutte le figure. Questa è la colpa originaria: la colpa allo stato fluido, inerente all’inafferrabile principium individuationis. Questo è il peccato d’origine, impeccabilmente enunciato nella prima sezione “Eleatiche”, di Colpa del mare. E insieme all’oggetto del discorso, si profila in questa prima sezione il suo margine di gioco: il teatro dell’azione, nello spazio del testo. Perché è qui, credo, fra l’evocazione di un orizzonte archetipico e la misura formulare o epigrammatica che lo traccia, che sta la cifra del dire (Dichtung) di Bruno Di Pietro, cioè l’orientamento caratteristico della sua ontologia poetica: fra l’ipotesi dell’“indisciplina degli eventi” e la constatazione che “non c’è altra via che del ritorno” (I), cioè fra il presentimento e la definizione di uno stato di cose o per dirla con Hegel fra la Stimmung naturale e la Bestimmung filosofica, dove si svolge l’intera storia dello spirito (Geistgeschichte), qui contratta in uno stile e in una firma, e così sottratta alla volubilità del mare e risolta nelle sue tracce saline: le sapide e abrasive figure della poesia di Bruno di Pietro.

Poiché in questo esordio chiarissimo, in questo perimetro esatto del campo di gioco o theatrum mundi, si manifestano insieme l’intenzione artistica e il rilievo (ritmico, semantico e figurativo) della sua versificazione, val la pena citare per intero: “forse l’indisciplina degli eventi/forse l’incerto dire inesistenti/l’identico la trama la ragione/concedono alle volte un’occasione/ ma com’è disadorno il divenire:/gettati alle correnti senz’appiglio/nei rumori dell’acqua sempre al ciglio/dell’essere del dire del non dire/ cosa accadrebbe poi se il maestrale/venisse a dirti al termine del giorno/che il sentiero in fondo è sempre uguale/e non c’è altra via che del ritorno”. (I) La prima lirica dunque fissa già il prospetto dell’opera, ne costituisce l’abbozzo e il messaggio, la sua fondazione e donazione di senso (Stiftung) nel primo inconfondibile tratto di penna (Stift), se vogliamo trastullarci con un minimo di de-costruzione del testo. Perché qui, nella poesia prismatica di Di Pietro, l’esercizio ora un po’ desueto del close reading risulta proficuo se non indispensabile, per la poesia di Di Pietro che è intrinsecamente esatta e luminosa anche quando evoca l’incertezza dei fatti o il buio dell’anima, poiché riflette la luce intensa di un cielo mediterraneo dove il manifestarsi del reale agli esordi della filosofia aveva le connotazioni di quello stupore e terrore (thaumastòn) che ci consegna all’alterità del mondo. Questa è il concetto greco della verità, in quanto rivelazione abbagliante (alétheia), piuttosto che quello suggerito dalla Licthung di Heidegger, il gioco fatuo di luce ed ombra, il chiaroscuro occiduo di una radura nella foresta nera, l’incanto nibelungico così già perfettamente reso peraltro dalla snervante modulazione wagneriana. E’ proprio questa abbacinante luce mediterranea che attraversa le figure poetiche di Di Pietro, traendole a forza alla superficie, nel momento stesso in rischiano di sprofondare nella nostalgia del non esserci, nella dimensione del ricordo o dell’attesa. Tutto ciò si ritrova nel suo discorso “eleatico”, pieno di paradossi quanto si vuole ma tendente alla luce, alla chiarezza del dire, alla definizione della forma e del gesto – come nella felice congiunzione di sguardo e voce dell’antico rapsodo che, nel suo asciutto stile formulare, sa come prendere e darsi il tempo giusto per trarre gesta e parole dalla memoria, catturare l’attenzione degli astanti e mantenerla viva con la sua sapienza mimica prima ancora che mimetica, con la smorfia istrionesca di chi è pronto a far “bruciare lo stoppino della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto” (Benjamin). In questo spazio arcaico, in cui la narrazione in versi precede e fonda la storia, si colloca la poesia di Bruno di Pietro: poesia dell’origine e della luce, eleatica certo, dove forma e contenuto, dettaglio e disegno, segreto e rivelazione si integrano perfettamente nel rauco, andante ostinato di una voce inconfondibile.

Così spianato e misurato il terreno, non sarà poi difficile scorgere le forme del dire e dell’abitare che già vi si profilano. E così infatti nella seconda eleatica il dramma metafisco di cui qui si tratta, prende corpo gradatamente nel passaggio dall’essenza ai fenomeni, in una sorta di apprensione esistenziale che domina anche le cose inanimate: “inclinano all’esistere anche i sassi/…. fra mormorio e silenzio nella cura” (II) Come se da questo conato primordiale, piuttosto che dall’uno di Parmenide, emanasse la intrattabile molteplicità fenomenica, le sue diverse angolazioni e incipienti spigolosità che solo attendono di incarnarsi nel vissuto e di divenire spine nella coscienza, in quel divario sempre aperto come una ferita che è lo spazio tensorio fra sentimento e forma. E quasi si può cogliere con mano, miracolo della poesia, questo clinamen atomico, squisitamente epicureo, per cui sui mattoni della materia già spira un vento primordiale e acosmico che li torce, li svia dalla ortodossia del padre, dall’essere che è uno, dalla visione statica è perfetta di Parmenide, facendoli collidere l’un l’altro, gettandoli nel dramma del divenire e nella corrente della storia, che sarà poi il teatro delle successive sezioni di Colpa del mare. Ma l’incipit qui decide di tutto, apre un mondo possibile con i suoi profili in attesa di riempimento, come in una epoché trascendentale che attenda nel giro dello sguardo il manifestarsi delle cose stesse, sottratte all’abitudine e al pregiudizio.

Si avverte così il trapasso dall’inerte al movimento, dalla pietra all’animale e all’umano: un presentimento drammaticamente vissuto nella materia, perché di un dramma infraumano qui si tratta, squisitamente minimalista, appunto, dove la forma breve e il tema atomico si sposano perfettamente. Nell’attesa della luce del primo mattino, il “chiaro arancio negli ori” e poi i “canti del risveglio responsori” con cui il regno animale dà il suo benvenuto ai cicli cosmici, inserendovisi come primo innocente testimone. Siamo di fronte a un oracolo senza bocca o parola, a un buon auspicio che viene dalle cose, rese da sé stesse effabili, prese, per dirla ancora con Heidegger, nella quadratura di mondo e terra, dei divini e dei mortali, o più sobriamente nello spazio misurato dell’artificio poetico, nella cura delle consonanze e degli stacchi, delle pause e degli accenti, dei ritmi e delle figure, che assorbono il passaggio delle ere nella misura dei versi. Ancora una volta la lettura dell’intera strofa può venirci in aiuto: “inclinano all’esistere anche i sassi/lucidi per il tempo per i passi/che sono consueti sostenere/ inclinano all’esistere le sere/d’estate e il fresco spandersi del timo/c’è un conato di vita nel primo/ mattino nel chiaro arancio negli ori/nei canti del risveglio responsori/fra mormorio e silenzio nella cura/ dell’albero a sfogliarsi per paura/(cospirano le cose a un solo scopo/dirti che non sei aquila ma topo)” (II). Non potremo fermarci certo in seguito sui dettagli come abbiamo fatto finora, ma era importante definire il campo di gioco, le misure del dire, i tagli prospettici di questa genesi miniata e mirabilmente pagana: eleatica appunto.

Una struttura ontologica che si disegna passo a passo, come si diceva, con una progressiva determinazione assai di rado riscontrabile in poesia quanto piuttosto in filosofia: nel procedere misurato di un logos che eracliteamente si consuma producendo un mondo nella molteplicità di spunti, nei meandri della foné che esso stesso genera e che ne costituiscono insieme i vincoli e le opportunità. Calibrato, certo, ma con i suoi scarti strategici e i suoi grumi, le aporie e i nodi, le smagliature e ricuciture di un tessuto fitto, di una rapsodia sempre in fieri. Ci sono qui degli snodi, infatti, che in qualche modo riassumono e rilanciano l’intero sviluppo tematico, fungendo da cornici interne, miniature, firme e paraffi, dell’intero quadro. Come per esempio la mirabile eleatica VIII, dove, “la semplice struttura del reale” ci illude talvolta di essere vicini allo “sciogliersi del nodo”, rivelandosi infine però come ciò che, per gli stessi vincoli del dis/amore cosmico, richiede di rimanere segreto: “il reale si ama se è segreto”. Così le classiche aporie del tempo causticamente si risolvono nella scandalosa clausola della IX: “il passato non passa ma è indecente/che qui non passi nemmeno il presente”. Oppure, nella sapida quartina finale della X e ultima eleatica, dove il tema del fondamento mobile della rappresentazione e la sua metafora marina si incontrano lasciando orme saline nel terreno poroso e infido tra percezione e concetto: “forse infine il nulla è il mare aperto/di cui non sarai mai del tutto esperto/(la via dell’essere è acquitrinosa/al posto del nulla c’è sempre qualcosa).”

Così, evocando l’irrisolvibile complementarità tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito, si chiude il disegno nitido delle dieci Eleatiche. Un’esplorazione a cielo aperto delle aporie del reale tenute in forma dalle pieghe del verso, in un rimando continuo, deliberato e puntuale fra parole e cose, in uno scandaglio ritmico preciso delle figure variabili dell’esperienza che affondano nel mare primordiale dell’inconscio, della violenza ottusa dei gesti e delle passioni elementari, dove non si distingue fra agire e patire, dove l’apprendere non è mai disgiunto dal senso di colpa e il sapere è intriso del sapore del primo morso proibito – sia esso alla mela o forse anche alla mano del fratello rivale. Non foss’altro che per questa misura e chiarezza, cioè per il rigore della ricerca poetico-esistenziale qui condotta, mi pare che Eleatiche meriti maggiore attenzione di quanta forse ne abbia ricevuta. Questo testo, nella sua brevità, è infatti mirabilmente conchiuso in sé stesso, benché costituisca nel contempo il vestibolo della più ampia raccolta in cui è venuto a confluire: Colpa del mare e altri poemetti.

Nella seconda sezione, Colpa del mare, il carattere storico gradualmente emerge dalla voce impersonale. Quanto a dire che l’io poetico si incarna in una maschera, che qui è quella del pitagorico Ippaso, annegato per aver rivelato il segreto della scoperta dell’irrazionale nel cuore della matematica, trasgredendo così al divieto del maestro. Con questa rivelazione la mistica dell’esattezza cede il passo alla pratica dell’approssimazione infinitesima, con cui la matematica diverrà nei secoli davvero la cifratura dell’universo. Il dogma della calcolabilità di ogni rapporto fu sconfessato dalla scoperta della incommensurabilità fra l’ipotenusa e il lato del triangolo rettangolo isoscele, sicché l’eretico Ippaso (morto per acqua) appare come uno dei grandi martiri della verità nella storia. Ippaso annega, la verità affiora: nel movimento orizzontale fra dentro e fuori, vicino e lontano, di Eleatiche, si inserisce ora quello verticale di superficie e fondo, e con il delinearsi del primo ritratto parlante, l’ontologia fa luogo alla fenomenologia della storia. Ippaso è qui il tipo del ricercatore universale (matematico, fisico, astronomo, storico), lo scettico e il testimone del vero a rischio della vita: la sua voce si annuncia in questo canto ma già in contrappunto con una voce anonima, di tenore erotico-elegiaco. Si rivela così anche il pattern dialogico che reggerà l’intero poema: fra il tenore storico dominante e quello biografico sotteso. A questo punto possiamo già comprendere che la de-costruzione eretica della civiltà che il poeta ci consegna, non sarà affidata ad un unico ethos, ma quanto meno a un antifonale costante, che presiederà alla composizione dei singoli mottetti in un vero e proprio oratorio, affidato al succedersi dei cinque eteronimi, portavoce del poeta. In questi termini nel contempo il quadro si precisa e si allarga, tanto da poter contenere tutte le varianti dell’antitesi fra inchiesta e confessione che caratterizzeranno i successivi episodi.

Vediamo dunque qualche esempio di questo contrappunto strutturale, a partire dalla VIII stanza, che giustifica il titolo dell’intero poemetto, mettendo a tema esattamente proprio la tensione tra inquisizione e confessione, tra scienza ed eros, tra forma e vita: “Colpa del mare/del pendolare dubbioso/tra il frutteto in rigoglio/e l’orgoglio della scienza.” Ma si consideri anche, a questo proposito, lo squisito aforisma della X: “Ma quale infida ragnatela d’oro/convince api ubriache di dolcezza/a farsi poi partecipi del coro/di unanime condanna dell’ebbrezza.” E infine, il caustico giro di vite autobiografico della XII: “Contro di me ti ho detto/quanto di me sapevo./In tanto scrivo/ bevo.”

Se Eleatiche ha costituito una sorta di prologo in cielo dell’intera quest metastorica, questa seconda sezione eponima del poema, costituisce il primo tempo del suo svolgimento: la storicizzazione dell’ontologia greca antica. Essa segna dunque il passaggio dall’essenza alla manifestazione, dalla metafisica alla fenomenologia e dall’inconscio alla coscienza culturale dell’occidente mediterraneo, mare nostrum, aperto e misurato tra Efeso ed Elea, fra l’Egeo e lo Ionio. Esplorato, vissuto, frequentato e trasfigurato dagli eteronimi dell’io poetico, tutti sempre a rischio di naufragio. Ma ora che nel teatro metafisico fa ingresso la storia, il metro, la rima e le strofe si fanno più irregolari rispetto a Eleatiche, come a volere adeguarsi all’intrattabile varietà degli eventi che sempre eccedono gli schemi precostituiti, riuscendo invariabilmente a sorprenderci. Pare insomma che i versi vogliano mimare ritmicamente la prepotenza delle res gestae che non si lasciano mai ridurre a un’unica versione della historia rerum gestarum, lasciando così aperta l’alternativa poetica. E sull’asse ideale già tracciato, tra Elea ed Efeso, ora appare, quasi per inciso, una svolta verso Eleusi, nell’Attica, luogo di culto di Demetra, la madre terra che custodisce il segreto del rapporto fra essere e divenire, uno e molteplice, e perciò anche il rischio perenne di ogni episteme di risolversi nel misticismo o nel dogma. In questa prospettiva si può allora comprendere il senso oracolare dell’inciso: “Penso Demetra conservi eterno/il dono chiesto prima che la mente/volgesse sguardo e legno a occidente.” (III) Liside, protagonista della terza parte, è anch’egli un pitagorico, (ma di epoca più tarda, il terzo secolo a.c.) che dopo la sconfitta della sua fazione a Crotone, decide di lasciare la scienza e la politica, migrando a Tebe, dove viene iniziato ai misteri di Demetra, in una sorta di contromovimento dall’essoterico all’esoterico e dalla rivelazione al segreto. In questo senso egli costituisce l’inverso speculare di Ippaso, incarnando il ripiegamento della matematica sulla mistica, del pubblico sul privato e della politica sull’etica. Convinto com’è dell’insanabile aporia fra parole e fatti: “Anche il silenzio/fa troppo chiasso./Vi sarà pure un passo/un sasso nel lago/la cruna di un ago (II), e dell’inutilità del martirio perché la storia in fondo è “il racconto del fumo” nelle cui volute la verità si dissolve. Comunque anche questa maschera parlante declina il controcanto tra storia e biografia e tra inchiesta e confessione: “Ho molti peccati…/Ho peccato d’orgoglio…/Ho peccato di superbia/…Ho peccato perché ho creduto/speciale l’uguale/a se stesso sempre uguale.” (III) Qui dunque in particolare si tratta dell’abiura alla propria vocazione matematica, basata sulla fede che ogni fenomeno possa essere rappresentato da funzioni numeriche, perché convinto ora che il confine fra l’opinione e la scienza, “quella ruga che divide/dalla sapienza i molti”, (VI) non possa essere tracciato con certezza. Questo Canto di Liside è una sezione che possiamo definire già “metapoetica”, perché qui la messa a fuoco si sposta decisamente dalla cosa alla persona, cioè alla maschera parlante che disegna l’intreccio degli eventi: un possibile, controfattuale svolgimento della vicenda, nelle sue svariate declinazioni fra autobiografia e storia ideale eterna. Dentro questa polarità, la storia si profila infatti ora come “racconto/del fumo” a partire dalla domanda “dimmi ieri/dov’eri/maestro” che nella finzione dialogica risulta come una eco del “dove sono”. E qui tocca rimarcare il punto di attacco in levare, primo indizio di quella pervasività dell’anacrusi che va dalla anomia del singolo verso, alla ricucitura eccentrica di strofe e poemetti, caratterizzando così l’intero poema. Dove la progressiva varietà della versificazione, rispetto al rigoroso schema iniziale di tre quartine in Eleatiche, pare ripetere lo sviluppo della musica moderna, con l’assorbimento graduale del mottetto nella polifonia dall’ars antiqua alla ars nova, e fin quasi al barocco, tra sacro e profano, tra oratorio e madrigale, in quel modo minore, liminale e obliquo che coinvolge il dettato di Di Pietro e i suoi correlativi oggettivi: cioè l’intera onto-logia del suo verso.

Dopo la quadratura terrestre di Eleatiche e l’anamorfosi marina di Colpa del mare, ora l’orientamento del discorso poetico pare definirsi in una sorta di Aufhebung fenomenologica, dove la requisitoria e la sentenza si eludono a vicenda come il soggetto e la maschera, come il pieno della parola e il cavo della sua risonanza, dando luogo a una implicita dichiarazione di poetica, a uno spaesamento storico esistenziale, geometricamente trattenuto nella minima dismisura dei versi e nel leggero tremito della voce. Cioè nella peculiarità timbrica di componimenti che, in fin dei conti, si possono definire essenzialmente manieristi, nel senso che ricapitolano e rilanciano (fuori tempo e luogo) la tradizione della poesia in versi e rima, così come per esempio Ravel o Stravinskj hanno fatto con la grande musica tonale dell’Ottocento. Se riconsideriamo per esempio la II strofa dal punto di vista formale, possiamo constatare come l’anacrusi si esercita a livello di un intero mottetto: “anche il silenzio/fa troppo chiasso./Vi sarà pure un passo/un sasso nel lago/la cruna di un ago.” (II) Dove l’anomalia metrica del primo verso rafforza l’ossimoro del silenzio chiassoso, mentre l’alternarsi dei pieni e dei vuoti annuncia quell’accumulo di tessere a mosaico che all’improvviso rivelano una nuova figura di questa micro-fenomenologia della storia in versi. Ossimori, aporie, sottili modulazioni e slittamenti (di prospettiva, distanza e voce) fanno di questa sezione una vera e propria messa in scena della poetica dell’autore, rivelando così la sua idea della storia e l’impianto generale della sua indagine, in quello che possiamo chiamare dialogo fra comprimari o dialettica marginale.

II.

La costruzione procede per accumulo di quadri in una serie virtualmente aperta ma inserita in una cornice onto/logica esattamente delineata nelle prime tre sezioni ed eseguita con una versificazione in cui la pervasività dell’anacrusi, cioè delle sillabe fuori battuta a inizio verso, dà all’intero dettato una vocazione “eretica” che ne annuncia i contenuti, prefigurando insieme lo sviluppo dell’intreccio, dei caratteri e delle figure del discorso. Insomma l’eresia si può considerare come l’isotopia portante dell’intero poema: non è un caso infatti che il primo e l’ultimo portavoce dell’autore siano entrambi degli eretici. Se per eresia si intende la messa in questione di una dottrina a partire dai suoi assiomi o dogmi, il matematico greco Ippaso, scopritore e divulgatore dello scandalo dei numeri irrazionali, fu infatti altrettanto eretico nei confronti della dottrina pitagorica (per cui tutto è numero, ossia tutto è esattamente calcolabile), quanto il fiorentino Francesco Pucci, libero pensatore, mercante fattosi letterato e teologo, con la sua negazione del dogma del peccato originale e la sua difesa a oltranza del libero arbitrio, lo fu nei confronti della dottrina della chiesa cattolica. Per la loro eterodossia, Ippaso venne annegato in mare di fronte a Crotone intorno all’inizio del V secolo a.c. e Francesco Pucci venne giustiziato e messo al rogo da morto, in un mercato di Firenze verso la fine del Cinquecento. Le loro due vicende costituiscono pertanto non solo la cornice temporale ma anche la polarità tematico-strutturale di fondo tra scienza e fede, nel loro ripiegarsi reciprocamente a specchio, nella loro convergenza nell’atto della speculazione. Quest’ultima è una delle due sirene che abitano il mediterraneo di Bruno di Pietro, l’altra essendo il richiamo erotico, ed entrambe costituiscono due irresistibili poli di attrazione per l’io poetico, i nuclei fervidi della sua invenzione ma anche i gorghi per il possibile naufragio della sua testimonianza. Essi sono i suoi Scilla e Cariddi e il poeta deve navigarvi in mezzo, perché nel suo imaginario storico-metafisico assumono il valore ideale di limiti e soglie dell’odissea del sapere occidentale, nell’orizzonte del suo possibile naufragio. Il ben noto topos del naufragio con spettatore può costituire infatti un ottimo strumento per leggere questa esplorazione zigzagante nel labirinto marino, nello spazio e nel tempo, da oriente a occidente e viceversa, dall’urbe all’esilio, con vari sprofondamenti e affioramenti più o meno letterali o metaforici. Ma non possiamo addentraci qui in un’analisi di semiotica culturale che richiederebbe un saggio a sé stante. Val la pena soltanto evidenziare alcuni nodi salienti della tessitura globale, rimarcando anzitutto che la figura di Ippaso non è a pieno titolo un portavoce dell’autore, poiché non risulta chiaro se e quando egli sia il soggetto o solo un personaggio della evocazione poetica della seconda sezione, “Colpa del mare”, che si caratterizza fra l’altro proprio per questa sua ambiguità nell’enunciazione. La colpa del mare infatti si può leggere in molti modi, ma in generale è certo che l’arcisema della liquidità è quello che assorbe e contiene in partenza tutte le figure liminali disseminate per l’intero poema, a partire dai vari portavoce di cui ho detto all’inizio.

Si giustifica così il rilievo eminente concesso dall’autore alla seconda sezione, nel dare il titolo all’intero poema. Nel mare sprofonda Ippaso ma il suo sacrificio fa sì che affiori la verità. Nell’episodio seguente, Il canto di Liside, il protagonista eponimo, un tardo pitagorico la cui fazione è reduce da una sconfitta, sceglie invece di abbandonare la propria professione e l’agone politico, migrando verso oriente, a Tebe, dove diviene un seguace dei misteri di Demetra. Quanto a dire che salva la vita al prezzo dell’abbandono della scienza per la mistica, in una sorta di contro movimento, rispetto alla vicenda di Ippaso, nella dialettica del sapere. Questo è solo un esempio della tessitura intricata e della densità feconda e perigliosa di questo labirinto marino. Col canto di Liside si chiude la prima terna di episodi, di argomento prevalentemente speculativo, di cui ho discusso altrove per esteso . Ad essa fa da contraltare l’ultima terna, di argomento prevalentemente storiografico, affidata alle tre maschere, rispettivamente di Massiminiano Etrusco, poeta latino del tardo impero, Ovidio, ben noto poeta augusteo e Francesco Pucci teologo del tardo rinascimento. In questa sequenza si nota l’unica inversione nell’ordine dell’intreccio rispetto a quello temporale, dal momento che la vicenda di un poeta del VI secolo viene anteposta a quella di un poeta del I. Per il resto l’ordine di apparizione e quello storico coincidono nell’intero poema.
Dell’ultima terna e dei suoi tre portavoce, discuterò in seguito. Ora voglio soffermarmi sulle quattro sezioni centrali del testo, in cui l’io poetico parla in prima persona e che (a parte Amari fiori), nel complesso riflettono su qualche genere o forma di poesia, costituendo così un ponte metapoetico fra la terna iniziale di argomento ontologico e quella finale di argomento storiografico. L’architettura generale del poema dovrebbe a questo punto risultare sufficientemente chiara. Possiamo dunque passare ad occuparci di Amari fiori che ha un posto speciale nella raccolta, dal momento che ne costituisce, insieme ad Eleatiche, il nucleo più antico, fungendo, rispetto a quelle, da antifonale erotico-confessionale a distanza e introducendo nell’intero spartito quella che chiamo la chiave minore, la vox organalis, che si insinuerà poi in tutte le sezioni, facendo da contrasto al cantus firmus di tenore speculativo o storiografico. Vale a dire che l’intero poema si sviluppa fra i poli complementari della inchiesta (istorìa) e della confessione. Uno schema che non dovrebbe sorprendere più di tanto se solo si rammenta l’esercizio dell’avvocatura da parte del suo autore. Lo schema retorico comunque rinvia costantemente a quello musicale, a riprova della complessità degli interessi e della vocazione di Di Pietro.

In Avari fiori, come si diceva, il soggetto del discorso è direttamente l’io poetico, che si rivolge a un tu generico che poi assume diversi nomi femminili, in uno schema allocutorio ampiamente collaudato nella tradizione dell’elegia d’amore europea. Che viene declinata però ora in chiave ironico-meditativa sull’esempio del Canto d’amore di J.F. Prufrock, di T.S. Eliot. Così dunque come in Eleatiche gli spettri muti dei grandi presocratici orientavano il discorso poetico, qui la voce del giovane Eliot costituisce come un basso continuo, conferendo all’elegia una lieve intonazione parodistica. Già la prima terzina del testo infatti esprime la nostalgia e il rimpianto per l’assenza dell’amata come Stimmung fondamentale del dettato poetico, contenendo il programma cifrato dell’intera sezione. Ma il tono elegiaco-risentito è però subito temperato di bonario umorismo: “il tuo leggero gemito in amore/le labbra appena aperte nel sorriso/avari fiori, come l’elicriso” (I) – “ma te li immagini i sofisti antichi/gravi pensosi sgranocchiare chele/senza quest’uva dolce questi fichi/traboccanti di resina, di miele” (ii) Certo qui si tratta di una disposizione d’animo e di un umore opposti e complementari rispetto alla spassionata inchiesta di Eleatiche. Alla indagine epistemica di quelle ora corrisponde quella emotiva, ovviamente più instabile, di Avari Fiori, che risulta mirabilmente condensata nell’apparizione di una silhouette di donna seduta sulla riva, spalle al mare, baciata con gli occhi, riflessa nel cristallo di un bicchiere, in una delle più belle stanze del poema: “distesa sulla riva spalle al mare/l’attesa di qualcuno dissolvevi/dietro le frange dei capelli neri:/quante volte con gli occhi t’ho baciata/riflessa nel cristallo del bicchiere/(traghettava l’estate il battelliere) (III)
L’esperienza d’amore pare costituire dunque una interferenza e un intermezzo nella ricerca, come un “tempo bevuto d’un fiato al pensiero” e una pausa nel respiro diegetico del macrotesto: una “estrema esitazione in questo viaggio/di gesti mai compiuti e fughe”. (V) La donna come si diceva poi assume tanti nomi, si diversifica come in una epifania ricorrente, con echi della reticenza montaliana a scandire l’eterno ritardo del pensiero sull’essere: “non possiamo Nietta che spremere/poco succo dai limoni rari…/strade deserte polverosi cardi/(il pensiero arriva sempre tardi)”. (IX) Nel tono ironico-riflessivo del Prufrock eliotiano: “errare fra volere e non volere…/ma quale arcano sbaglio mi costringe/solo a sognarti quando il giorno è breve” (XII), mentre “segnano il tempo, stanche meridiane/filari di occasioni e di rimpianti (XVI). Una anamnesi in sottotono dunque, accorata e fragile fra le pieghe della luce: “cercarmi, cercarti nei segni labili/fra le pieghe instabili della luce/che mi nasconde e a nasconderti induce (XX), con le svolte del verso che tentano ostinatamente di catturare le innumerevoli ed elusive pieghe fra il vissuto e l’idea, tra la vita e la forma. Così Avari Fiori fin dall’inizio introduce e custodisce la voce alternativa, il contrappunto confessionale alla inchiesta epistemica, nella poesia di Bruno di Pietro.
Avari fiori, s’è detto, costituisce una sorta di antifona a distanza rispetto ad Eleatiche, come il rovescio esistenziale di una inchiesta ontologica. Ma questa tonalità minore del poema è stata già introdotta nella breve sezione precedente, Velieri in Bottiglia che è la prima delle quattro centrali che ho definito metapoetiche, poiché trattano della tradizione della lirica europea dai latini ai giorni nostri. Qui il genere di riferimento è ancora l’elegia e la voce di fondo è sempre quella del Prufrock eliotiano, in cui l’inerzia psichica si coniuga col disagio sociale e il cui tagliente disincanto domina l’intera sezione fino a meritare una esplicito omaggio: “non è per niente questo/non è per niente questo che volevo dire” (IV) Finitudine dell’esserci e sfinimento del senso del dire si compenetrano dunque nella deriva sul posto di questi velieri in bottiglia, veicoli e tenori della metafora, messaggi e messaggeri insieme dei “tempi incalcolabili di cura”, in “un gioco di rimbalzo senza fine” che ti “affossa al confine” con le sue “ombre spesse/dove c’è il filo ma non c’è chi tesse”. (II)
Non è necessario soffermarsi in dettaglio sulla seguente, brevissima sezione “Iscrizioni” che, come recita lo stesso titolo, mette in scena una meditata fenomenologia dell’epigramma e del mottetto, in quanto mattoni basilari della composizione a incastri di Colpa del Mare.
Piccola suite accenna invece alle possibili trasposizioni e complicazioni musicali del mottetto nello sviluppo del contrappunto e della polifonia nella musica europea dal Gregoriano al Barocco. La sezione qui è infatti opportunamente scandita da indicazioni agogiche: (Largo) “tu conduci al fondo delle cose/al nome inaugurale, al suono/al silenzio che segue il tuono/”, aggiungendo un ulteriore saggio della ricerca, in quell’andare a fondo congiunto di parole e cose che coincide col gioco di suono e pausa nel verso, e con la virtuale versione musicale del mottetto. Poi ci sorprende però, la sinestesia improvvisa e fugace, l’odore pungente nell’apparizione della donna, e il logos brucia nell’immagine, il senso annega nei sensi. Basta infatti il profilarsi della figura femminile per incrinare la cornice epistemica: (Allegro) “ti passa a volte accanto, ti sfiora/una ragazza col suo odore intenso/la brezza adolescente ti divora/brucia in un niente la ragione il senso”. La ricerca verbale ora non sembra più bastare a sé stessa e perciò si appoggia alla analogia musicale, spinta ai limiti della dissonanza: (Andante) “le parole non trovano la strada/per dire quest’esilio, lontananza /dalla luce che subito digrada/come evolve il suono in dissonanza”. E infine, prepotente, trionfa la nota erotica, la firma in calce della “mano sensuale” e “nervosa” che scompiglia lo schema metrico, nel tempo dello scherzo, in una sestina squilibrata, dove il verso sembra precipitare sull’aggettivazione finale che ne riassume tutto il senso. Una sestina eccentrica, atonale, eppure assolutamente efficace, che racchiude il classicismo elaborato e raschiato dall’interno, la maschera cava della versificazione tradizionale, l’intero sapiente manierismo di Bruno Di Pietro: (Scherzo) “io ti direi invernale/mano sensuale che riscalda/mano nervosa che rinsalda/il serto di mimosa tra i capelli/impazienti/ribelli”. A parte Avari Fiori, il cui tono è espressamente elegiaco, le sezioni centrali di Colpa del Mare, in cui l’io poetico si esprime in presa diretta (IV, VI, VII), sono tutte brevi e metapoetiche: la IV verte sull’elegia, la VI sul mottetto e la VII sulle sue trasposizioni musicali. Il ponte di raccordo fra la prima terna speculativa e l’ultima storiografica è stato così elegantemente costruito.

III.

Per la costruzione dell’intreccio, mi sembra utile individuare due grandi modelli di riferimento: anzitutto le Metamorfosi di Ovidio, che fra l’altro è uno dei portavoce del nostro e che si caratterizza anch’egli per essere un autore dalla duplice vena: epica ed elegiaca, per quanto ritagli figure ed eventi mitici piuttosto che storici. Il secondo modello rilevante è quello dei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, che invece, sulle orme del Boccaccio, ci offre un vivace e ironico spaccato storico-sociale dell’Inghilterra della seconda metà del Quattrocento. Fra questi due poli opposti, può collocarsi l’inchiesta storico-biografica di Bruno Di Pietro.
In tale prospettiva vengono anche in luce due questioni importanti, sollevate dalla sua poesia: in primo luogo l’ambivalenza costitutiva del concetto di storia, in quanto intreccio inseparabile di azioni (res gestae) e di narrazioni (historia rerum gestarum); e, in secondo luogo, poiché le versioni dei fatti possono risultare radicalmente diverse tra di loro, anche la questione del rapporto fra storia e fiction. Di Pietro insomma interroga lo statuto del documento, sia come inscrizione che come traccia dell’evento, ponendo in evidenza la riscrittura poetica della storia come mezzo di rinnovamento dei costumi e in fin dei conti nell’ottica di un’utopia politica. D’altra parte, dal punto di vista strutturale, Colpa del Mare drammatizza il processo di composizione di forme brevi (dal verso, alla strofa, al singolo poemetto) per accumulo e montaggio, nell’alternanza di schemi ritmici e di portavoci marginali che realizzano una figura a mosaico. E poiché gli eteronimi del poeta spesso riflettono sui propri sentimenti e azioni, si può definire da un lato una rapsodia elegiaca e dall’altro una meta-finzione storiografica che attraversa e ricompone in controcanto i generi lirico, epico e drammatico, sfruttando la marginalità delle maschere storiche rispetto agli eventi evocati. Noteremo che questa eccentricità si estende dalla costruzione del carattere a quella dell’intreccio, e deforma l’usuale circolarità dell’interpretazione imprimendole un moto d’ellisse o di spirale. Infatti a mio avviso qui si tratta di un’opera aperta e polifonica che, piuttosto che un ritorno alla tonica, prevede una trasposizione seriale di temi e accordi, reggendosi su un contrappunto costante fra il tenore storiografico dominante e la vox organalis erotico-elegiaca.

Colpa del Mare ci trasporta a zig-zag nello spazio e nel tempo, attraversando il mediterraneo da oriente a occidente e la storia dai presocratici al tardo rinascimento italiano, mettendone in scena tangenzialmente alcuni snodi e figure. Tutte le personae evocate, da Ippaso a Francesco Pucci, risultano infatti funzionali a questa decostruzione obliqua della ortodossia storica. Dunque, per comprendere adeguatamente l’impianto del testo, conviene anzitutto considerare l’intera area semantica del termine “persona”, dall’uso comune a quelli teatrale, giuridico, teologico e filosofico in generale. Così facendo si farà per-sonare la maschera storica, restituendo questo strumento teatrale alla funzione originaria di amplificazione e deformazione della voce che aveva nel dramma greco antico e latino. Funzione che fa il paio con quella di celare il volto dell’attore, spersonalizzandolo e facendone un tipo psichico e sociale o addirittura un archetipo, cioè proiettandolo su una fabula più universale e metastorica. La maschera (hypòstasis) nel teatro greco antico costituisce infatti una sorta di introiezione del coro dentro il carattere e dentro l’azione. Il coro è la comunione collettiva di danza e voce che segna i limiti mobili dell’interazione, la pellicola trasparente che divide attori e spettatori, nell’ambiguità fra agire e patire, costituendo come la trasposizione scenica dell’inconscio collettivo della polis. Il coro avvolge l’azione come la sua aura e oscuramente presagisce il destino della comunità; la maschera, che ri/vela l’éthos individuale sollevandolo al livello del typos, ne risulta invece avvolta e circoscritta, costituendo così il rovesciarsi dell’inconscio collettivo nella coscienza e nella voce singolari. Se nel pensiero greco, carattere e destino sono come due facce della stessa medaglia, la maschera teatrale segna il luogo del loro interfacciarsi, lo spazio ambiguo della rivelazione. La maschera è d’altronde uno strumento sinestesico: essa dal lato esterno copre il volto dell’attore e da quello interno ne amplifica la voce e perciò modifica sia la visione che l’ascolto dello spettatore. Essa è lo spazio cavo dove la visione interdetta si rovescia nella parola articolata, divenendo logos, espressione di esperienze condivisibili. La maschera è dunque lo strumento in cui il destino di un popolo si traspone in un carattere e in un intreccio, divenendo la sua storia. Queste considerazioni risultano rilevanti per comprendere l’uso che Antonio di Pietro fa delle sue personae loquentes come altrettanti strumenti per scavare nelle pieghe della storia ereditata, decostruirla per punti e dai margini, facendo così passare il dato di fatto al vaglio della finzione e restituendo l’érgon storico alla sua énergeia poetica.

Veniamo ora alle personae effettivamente messe in scena dal nostro autore nello spazio trans-storico dei flussi della parola rigenerata (logos égeneto), con le sue connotazioni filosofiche e teologiche. Si tratta di uno spazio perimetrato dall’inizio (nei primi tre episodi) dal gioco dei tre grandi archetipi presocratici, Parmenide, Eraclito e Pitagora: l’essere, il divenire e la loro co-funzione; l’uno, il molteplice e il numero. In ordine di apparizione, che coincide grosso modo con l’ordine storico, la prima persona loquens è Ippaso: illustre ricercatore, traditore e martire pitagorico, affogato in mare per aver scoperto e divulgato, contravvenendo al divieto del maestro, lo scandalo dei numeri irrazionali. Scoperta inaccettabile per quella che è stata forse l’unica mistica basata interamente sulla ragione (ratio, logos, “rapporto”) cioè sul principio di commensurabilità fra grandezze qualsiasi, per cui ogni fenomeno fisico risulta spiegabile attraverso la matematica. Proprio questo significa il “tutto è numero” di Pitagora: quando si scoprì che nel rapporto tra le parti di figure geometriche semplici (come il triangolo, il cerchio, il quadrato) si annidava l’irrazionale (cioè l’approssimazione tuttavia calcolabile), fu come scoprire l’anima o il respiro (psyché, anémos) nascosto dell’esattezza: allora morì la mistica e nacque la matematica. Ippaso è il traditore dell’ortodossia pitagorica, con i suoi dogmi e i suoi divieti: dunque la prima maschera del theatrum mundi di Di Pietro è quella di un eretico, esattamente come quella di Francesco Pucci che, alla fine del poema, mette in questione un dogma fondante della chiesa cattolica, quello del peccato originale, insistendo sul libero arbitrio e, implicitamente, liberando il Figlio dal dover fare il volere del Padre per la salvezza del genere umano. Si può già sospettare perciò che l’eresia costituisca il filo conduttore di questa messa in scena drammatica della storia, sbirciata da maschere periferiche, nascoste dietro le quinte del teatrus mundi di Antonio di Pietro. In questa prospettiva si possono per esempio interpretare i versi della strofa VII di Colpa del Mare, sia che li si voglia attribuire ad Ippaso o piuttosto all’io poetico stesso: “Io rifiuto la questione trita/per cui una cosa deve avere inizio./Ti aspetto sul ciglio della vita/…Ti aspetto ai margini nell’interstizio/nel vento inquieto della via d’uscita/dalla paura di cui sei l’indizio.”

La seconda persona del poema, Liside, è invece un pitagorico minore del IV secolo a.c., scampato a Crotone a un incendio provocato da una fazione politica avversa alla sua, in seguito al quale molti pitagorici smisero di occuparsi di affari pubblici, delusi dall’inerzia del popolo che mancò di punire gli autori di tale misfatto. Liside stesso decise allora di rifugiarsi a Tebe, dove venne infine iniziato ai misteri di Demetra. Egli rappresenta dunque una figura speculare rispetto a quella di Ippaso, incarnando una sorta di ripiegamento della matematica sulla mistica, del pubblico sul privato e della politica sull’etica. La maschera di Liside introduce dunque un nuovo filo conduttore e un nuovo movimento nella minuta fenomenologia dello spirito del nostro autore: quello dell’espropriazione reciproca tra ethos e polis. Ovvero anche di quella progressiva scoperta della loro incommensurabilità, che sarebbe in seguito divenuta oggetto della dottrina cristiana e parte integrante della civiltà occidentale. I versi della IV strofa riassumono il dramma della scelta fra pensiero e azione, e fra etica e politica: “Amici morti per il fuoco/se l’acqua è inizio/ora interrogate il dopo/conoscete lo scopo/del pensare./La cenere ha confuso il mare/deluso il cielo./Il nostro era un viaggio terreno/e questa è terra di ulivi/di tramonto/terra di sale/da Elea a Metaponto.” Quella di Liside è comunque una voce prevalentemente confessionale ed elegiaca che esprime il ritrarsi del pensiero per amore della vita.

Il Massimiano Etrusco della sezione Acque-dotti, (490 circa – 560 circa d.c.) è un poeta latino, tardo epigono dei grandi poeti elegiaci augustei, che ci ha lasciato sei elegie sulla vecchiezza. Nella III di queste dichiara di avere incontrato il filosofo Boezio cui, alle prese con un dilemma amoroso, chiede consiglio: Boezio gli suggerisce di seguire l’istinto passionale. Poi, per intercessione dello stesso filosofo, Massimiano ottiene il consenso dei genitori della ragazza, ma l’uscita dalla clandestinità toglie al poeta ogni entusiasmo sicché egli perde l’occasione buona che rimpiangerà poi per il resto dei suoi giorni. Non è neanche del tutto certo però che il Boezio citato sia il celebre filosofo o semplicemente un omonimo, né se quest’incontro sia avvenuto realmente o se piuttosto si tratti di una finzione letteraria. Massimiano Etrusco insomma, essendo un poeta che mescola le carte fra storia, autobiografia e invenzione, risulta un perfetto alter ego del nostro autore, anch’egli peraltro costantemente dedito al culto e alla “consolazione della filosofia”. Attraverso questa figura, vengono pertanto al proscenio altri due motivi importanti nella composizione di Bruno di Pietro: quello della condizione di epigoni e perciò anche della quasi inevitabile parodia dei modelli classici che tocca ai poeti odierni, e quello della interferenza di storia e finzione che abbiamo visto essere un’asse portante dell’opera del nostro. Inoltre, e soprattutto, Massimiano canta prevalentemente nella voce minore, quella erotico-elegiaca, che abbiamo già individuato e che costituisce a detta dello stesso autore come il basso continuo della voce dominante che è quella speculativo-storiografica. Seguendo l’analogia musicale, ho preferito però identificare questa seconda voce con la vox organalis che nel canto gregoriano talvolta accompagna il cantus firmus, costituendo così il primo rudimento di contrappunto all’origine della musica europea moderna. L’identificazione di questa seconda voce consente la lettura polifonica della composizione di Antonio Di Pietro, che è quella che mi pare più consona al temperamento e all’intenzione dell’autore. La messa in rilievo della seconda voce, erotico-elegiaca, consente inoltre di trasportare l’eccentricità delle maschere nel cuore stesso dell’intreccio, sdoppiandone così la messa a fuoco e orientando l’ascolto sul contrappunto patetico-confessionale che decostruisce e complica dall’interno lo sviluppo del cantus firmus, cioè del tenore storico-epistemico della ricerca.

Massiminiano è un poeta di fine impero, un uomo “al colmo di una ruota che non gira” è dunque il testimone di una fase terminale della civiltà che ha diverse analogie con la nostra attuale. Egli infatti, già nella prima stanza della sezione, esprime l’amarezza di chi sa di essere all’inizio di una transizione epocale di cui non vedrà la fine: “massimiano. poeta./alba del secolo sesto./anticipo la storia/senza saperne il resto” (I) Le sue sei elegie, riguardando perciò anche e soprattutto la vecchiezza dei tempi, e devono essere lette sul doppio registro storico/confessionale che sempre più si precisa nell’oratorio di Di Pietro. La seconda stanza del resto chiarisce e riassume perfettamente la Stimmung storico-esistenziale dell’intera sezione: “all’improvviso il passato non parla/vento di mare che cala al tramonto/e a farla breve non mi sento pronto/ad affrontare questa transizione/sopravvivo oramai per distrazione/alla pioggia che ogni sedimento tarla/nell’incerto il futuro non respira/gettato come sono a dare il conto/al colmo di una ruota che non gira”. (II)

L’Ovidio, che incontriamo nella sezione seguente, Il fiore del Danubio, è quello oramai caduto in disgrazia e relegato da Augusto a Tomi sul Mar Nero, a causa dei suoi versi libertini e per un non meglio precisato “errore” nei confronti dell’élite imperiale. L’Ovidio che a Tomi scrive le Tristia, ultime elegie che mescolano rimpianto ed ironia, incarna dunque il tipo del poeta antagonista al potere senza volerlo. Tuttavia egli è pur sempre il grande maestro della poesia erotica, nonché il cantore del mito come matrice della morfologia e delle metamorfosi di una civiltà. La sua ars amatoria, costituendo inoltre una sapiente mescolanza dei generi epico, elegiaco e precettistico, rappresenta uno spaccato sociale del suo tempo. Nelle Metamorfosi si ritrova poi tutta la storia mitica del mondo, riorganizzata dal poeta in una sequenza alquanto arbitraria e artificiosa di episodi dove i personaggi “narrati” si trasformano spesso in personae “narranti”, esattamente come accade nell’opera di Bruno di Pietro. Le analogie non possono sfuggire, dal momento che diversi aspetti della carriera di Ovidio risultano utili a farne un portavoce del nostro autore. L’evocazione di Ovidio, pone inoltre nel complesso la più grande questione che ci assilla (dai tempi di Platone in avanti) sulla funzione e il valore della poesia, sempre in bilico fra finzione e testimonianza, rispetto alla comunità in cui opera. Chi conosce i Dialoghi piuttosto che la vulgata, sa bene che Platone ha impeccabilmente posto tale questione e che, quando bandisce i poeti dalla città, lo fa per amore della vera poesia, che era l’epica orale, quando i poeti fungevano da veicoli e i custodi della memoria culturale e dell’ethos greco. Con la diffusione della scrittura questa funzione basilare venne meno e i poeti scrittori si trasformarono per lo più in sofisti: ecco perché Platone li espelle dalla città. Ad ogni passaggio tecnologico epocale, alla poesia tocca infatti una sempre nuova rifunzionalizzazione, e proprio questo può essere un messaggio implicito nella messa in scena delle maschere parlanti di Massimiano Etrusco e di Ovidio. Per il primo, ci basta ricordare il mottetto conclusivo della sezione a lui dedicata, Acque-dotti: “in crepuscoli di stile senza brezza/faccio versi in elogio di vecchiezza/così tutti mi ricorderanno vecchio/e nessuno dirà di Massimiano Etrusco/che della storia avea compreso il salto/brusco”. (XXI) Dove l’anomalia metrica dell’ultimo verso connota perfettamente la perentorietà del salto epocale evocato. Per Ovidio, basta riportare la prima strofa de Il fiore del Danubio, che caratterizza epigrammaticamente la sua posizione, storica e ideale, di poeta non solo antagonista al potere ma disfunzionale all’intera economia della polis: “maestro Nasone/morì relegato /forse per la poesia/forse per la politica/forse per peccato” (I) Anche ovviamente se dal suo punto di vista privato, l’esilio appare come il risultato di un errore occasionale, cioè di una contingenza piuttosto che di una necessità storica: “passerò alla storia/come il primo poeta antagonista:/sarà stata certo una svista/un evidente errore/(mi occupavo soltanto d’amore)” (II). Il rapporto fra caso e necessità, viene qui perciò in sottotraccia a costituire parte della questione storiografica e dell’intreccio rapsodico che la rappresenta.
Benché questo poemetto non sia forse fra i più noti dell’autore, traspare qui, nel consueto tono caustico, un dolore profondo, universale, che attraversa i topoi e i generi del discorso, come quella coloritura emotiva di fondo che sottende l’intero suo orizzonte poetico, venendo squisitamente riassunta nel mottetto conclusivo di questa sezione: “tanta era/la sua sopportazione del dolore/che il dolore un giorno/si stancò di lui/(lo consegnò pertanto/al dolore altrui) (XXIV)
L’ultima persona loquens del poema è quella di Francesco Pucci, mercante fiorentino, fattosi politico e teologo, giustiziato e messo al rogo dall’Inquisizione il 5 di luglio del 1597, dopo aver peregrinato per mezza Europa per diffondere, anche con vari scritti, la propria versione libertaria e cosmopolita della confessione di fede cattolica. Nella sezione a lui dedicata, “Della stessa sostanza del figlio” , egli appare come un inquisitore-inquisito, un intellettuale-pellegrino e un eterodosso per vocazione. Nella sua persona dunque convergono i temi della peregrinazione e dell’attraversamento di confini (geografici, disciplinari, ideologici), nonché della distinzione e ibridazione dei generi della scrittura sacra e profana, e insomma implode l’intero dramma ontologico e storiografico messo in scena da Di Pietro nell’intera sua opera. Sicché nell’eresia di Pucci si può intravvedere il nucleo portante dell’intreccio di Colpa del Mare, di quel contrappunto costitutivo fra inchiesta e confessione, nella serialità aperta delle scene e nella distribuzione calibrata tra prospettive e voci liminali della nostra storia culturale. Di quel mondo alla rovescia, cioè, che è il riflesso della violenza delle azioni nella ricostruzione ideologica delle storie. Nella confessione di Pucci si cala infatti la denuncia del nostro autore e si distilla la sua testimonianza poetica: “ho visto massacrare gli ugonotti/ho visto l’inverno in agosto/il biancospino fuori stagione /fuori posto/fiorire nel cimitero degli innocenti” (III) L’ultima ripetuta ribellione al volere del Padre, pronunciata dal mercante fiorentino in punto di morte, costituisce poi un inno all’eresia come principio etico e poetico, cioè come diritto-dovere della scelta e come obbligo di sopportarne le conseguenze: “l’alba è sensuale/l’eresia la vita/il pensiero l’orgoglio/Signore non voglio/Signore non voglio /Signore non ti voglio”. E con questa apostasia si ribadisce anche la dimensione filiale della poesia, in quanto parola essenzialmente antitetica, avveniente, rigenerata nella storia, logos égeneto, principio del rinnovamento del linguaggio e perno su cui lo stesso dato di fatto può puntare verso una sua utopica alternativa.
Francesco Pucci è nel contempo un martire-testimone, con connotati cristologici, della storia reale, e un poeta di quella possibile: è parte maledetta, capro espiatorio, sguardo e voce eretici, ultima comprensiva maschera dell’io poetico: pietra angolare, su cui si regge l’intera de-costruzione della storia cui abbiamo assistito in Colpa del mare.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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