Pandemia: Angelo Vannini
La possibilità di provare ciò che non è possibile provare. Una riflessione sulla situazione presente
di Angelo Vannini
Il quotidiano Il manifesto ha pubblicato ieri (29 marzo 2020) una riflessione di Donatella Di Cesare intitolata Il rischio adesso è la pandemia della mente. L’autrice fa riferimento a un’altra emergenza che dovremo presto affrontare, e di cui ancora si parla poco, ovvero le conseguenze mentali prodotte dall’isolamento: una «epidemia psichica» di proporzioni imponderabili. A concludere l’intervento è una frase che si distanzia dal registro diagnostico delle parole che la precedono: «Per i neosegregati sarà forse questa la chance per riflettere sulla condizione dei detenuti nelle carceri». A nutrire questo auspicio è la consapevolezza della fenditura che si è prodotta nelle nostre vite, proiettandoci in un’altra area di esistenza, esperienzialmente più vicina a quella della detenzione, sia essa carceraria o domiciliare. Dico «più vicina» perché le due esperienze, l’isolamento sanitario e la pena detentiva, non sono sovrapponibili e non devono essere confuse. Vorrei aggiungere, rispetto a quanto espresso dalla filosofa italiana, che questa potrebbe essere un’opportunità per i cittadini europei di riflettere sulla condizione non solo dei detenuti nelle nostre carceri, ma anche della maggior parte degli abitanti di questo pianeta.
Quello che è cambiato in questi giorni è che i cittadini europei si sono visti catapultare nella polarità opposta rispetto a quella in cui sono abitualmente situati. Mi riferisco alle due polarità secondo cui è governata la circolazione degli esseri umani a livello globale. Il governo della mobilità è operato secondo un modello segregazionista, il quale fa sì che io, cittadino italiano, possa circolare per la maggior parte dei paesi del mondo senza neanche il bisogno di chiedere un visto, mentre ai miei amici e amiche dell’Africa subsahariana questo non è possibile – non solo non è possibile, ma neanche rientra nell’orizzonte di ciò che è immaginabile. Da una parte vi è il diritto pressoché incondizionato di circolazione, riservato solo ad alcuni, e dall’altra l’esclusione da questo privilegio, cui sono condannati gli altri. Questi «altri» sono sottoposti a complesse procedure di immobilizzazione, realizzate attraverso tecniche ora militari e poliziesche ora di tipo burocratico e amministrativo. È lo stesso apparato di tecniche, anche se secondo modalità e finalità diverse, ad essere stato mobilitato per attuare quello che Donatella Di Cesare giustamente chiama arresti domiciliari di massa. Si tratta di procedure che dal punto di vista psichico producono, a vario grado, dissuasione, scoraggiamento e intimidazione.
Servono qui due precisazioni. La prima è che quello che sto dicendo sulla circolazione va inteso non soltanto a livello della mobilità interstatale, ma anche per quanto riguarda l’investimento degli spazi urbani. Magari in questi giorni ci sarà capitato, in uno dei nostri tragitti per andare a fare la spesa o portando fuori il cane, di trovarci in presenza delle forze dell’ordine e di provare un certo malessere. Dubbi del tipo chissà come gli gira se mi controllano. Chissà se ho riempito per bene l’autocertificazione, o stampato la versione giusta. Ebbene questa angoscia non è che un millesimo (e qui posso solo provare a immaginare) di quella che potrebbe avvertire, al passare di una volante, un ragazzo di colore se passeggia nella banlieue di una capitale occidentale.
La seconda precisazione riguarda l’opposizione che ho tratteggiato tra «alcuni» e gli «altri». Come la circolazione cui faccio riferimento non è solo quella internazionale, così gli «altri» non sono semplicemente o soltanto i non-europei. Il dispositivo escludente è molto più articolato: nel mondo in cui abitiamo la possibilità di un pieno sviluppo delle capacità umane è condizionata, e sappiamo bene per quali categorie passa la sfaldatura (classe, sesso, genere, razza, religione, ricchezza, origine, età, lingua, abilità, condizioni di salute, ecc.).
Sto scrivendo queste righe comodamente seduto alla mia scrivania, in un meublé nel ventesimo arrondissement di Parigi. Alcuni amici in questi giorni mi hanno fatto riflettere sull’eventualità di tornare nelle Marche, dove vive la mia famiglia. È dell’altro ieri (28 marzo) un’ordinanza che definisce le nuove modalità del rientro in Italia. Tra queste, è necessaria un’autocertificazione da consegnare al vettore – che si tratti di trasporto aereo, marittimo, ferroviario o terrestre – la quale specifichi il motivo del viaggio, l’indirizzo dell’abitazione in cui verrà effettuato l’isolamento assoluto per un periodo di 14 giorni, il recapito telefonico. I vettori acquisiscono la documentazione e misurano la temperatura dei passeggeri, cui è vietato l’imbarco se sono in stato febbrile. Chiunque faccia ingresso in Italia, anche se asintomatico, è poi sottoposto all’isolamento e alla sorveglianza sanitaria. A questo proposito, è significativo il comma 4 dell’ordinanza, che qui riporto quasi integralmente:
ove dal luogo di sbarco del mezzo di trasporto di linea utilizzato per fare ingresso in Italia non sia possibile per una o più persone raggiungere effettivamente l’abitazione o la dimora indicata alla partenza come luogo di effettuazione del periodo di sorveglianza sanitaria e di isolamento fiduciario, fermo restando l’accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria sull’eventuale falsità della dichiarazione resa all’atto dell’imbarco, ai sensi della citata lettera b) del comma 1, l’Autorità sanitaria competente per territorio informa immediatamente la Protezione Civile Regionale che, in coordinamento con il Dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, determina le modalità e il luogo dove svolgere la sorveglianza sanitaria e l’isolamento fiduciario, con spese a carico esclusivo delle persone sottoposte alla predetta misura.
Se volessi tornare a casa, non esistendo un volo diretto da Parigi ad Ancona, dovrei probabilmente passare per Roma. Che cosa significa non poter raggiungere effettivamente l’abitazione indicata come luogo di isolamento? Di quale fattualità è qui questione? Non riuscire a trovare un taxi che da Fiumicino mi porti a Termini? Il treno da Roma ad Ancona è soppresso? La carta di credito non mi funziona e non ho di che comprare il biglietto? Quali sono gli eventi che possono essere giudicati (e da chi?) come sufficienti a produrre un’impossibilità di fatto di raggiungere (ed entro quanto tempo?) l’abitazione indicata?
È chiaro come opera questo dispositivo: se da una parte produce, come ho già detto, scoraggiamento e intimidazione, dall’altra crea uno spazio di indeterminazione giuridica che permette all’arbitrio degli organi polizieschi di punire individui, che oramai non somigliano più a cittadini ma a sospettati. Detto questo, io so benissimo che rischierei poco o nulla a voler tornare in Italia: perché europeo, perché italiano e perché bianco. Diversamente andrebbe se il mio cognome non suonasse d’origine toscana, ma africana o asiatica, o se il mio viso avesse un pigmento più scuro, o se la copertina del mio passaporto fosse di un altro colore. Ancora una volta, la mia esperienza di immobilizzazione non è neanche lontanamente comparabile a quella che vivono persone in fuga – o che vorrebbero fuggire – da fame, guerra e povertà; ma le procedure che la mettono in atto da un lato afferiscono, pur secondo modalità e finalità diverse, alle stesse tecniche di controllo, e dall’altro producono effetti psichici che, per quanto incomparabili, possono aiutarmi a riflettere sui miei privilegi e a metterli in questione. Aiutarmi cioè ad aprire la possibilità di provare ciò che comunque non mi è possibile provare.
La condizione di disagio che alcuni stanno vivendo è tale soltanto rispetto ai privilegi di cui godevano prima. Sottolineo «alcuni» perché l’impatto del virus sulla nostra società mi sembra essere duplice. Se da un lato le popolazioni europee si trovano ad esperire una condizione cui il loro privilegio le aveva finora mantenute estranee, d’altro lato le misure di emergenza adottate per la gestione della crisi esasperano le ineguaglianze che sono alla base della nostra società.
L’esperienza cui siamo confrontati – e in particolare quella dell’immobilizzazione – può allora diventare un’opportunità per riflettere sulle dinamiche che, contrariamente a ogni idea di giustizia, regolano le condizioni dell’esistenza umana a livello tanto locale quanto planetario. Si parla spesso di Europa in questi giorni. C’è o non c’è? Sopravvivrà oppure no a tutto questo? Non dobbiamo però dimenticare che se c’è un’Europa, quale che essa sia, è soltanto perché ci siamo noi. Se c’è una cosa che questo virus insegna, è che il destino dell’umanità si gioca ormai a livello planetario, in un orizzonte relazionale che va dalla sfera umana a quella ben più ampia del vivente. Se la parola democrazia ha ancora un senso, ogni abitante d’Europa dovrà assumersi la responsabilità, non del proprio giardino come si è fatto finora, ma del proprio posto e ruolo nel mondo in relazione al posto e ruolo di altri. Questo significa che ogni abitante d’Europa si trova di fronte a un bivio, e dovrà scegliere se continuare a collaborare con quelle forze che hanno finora dominato il mondo come lo hanno dominato, oppure se esigere che un altro ordine, fondato su altre basi, venga finalmente, e per davvero, negoziato.
Parigi, 30 marzo 2020