Come stai? La cura ai tempi del coronavirus
di Eleonora Cugini
Come stai? La cura ai tempi del coronavirus
In questa situazione di emergenza da contagio da coronavirus covid-19 sto vivendo molte esperienze e sensazioni simili a quando ci fu il terremoto, quattro anni fa, nel Centro Italia. Le reazioni di condanna reciproca, i moralismi, le soluzioni semplici e veloci, i si sarebbe potuto o dovuto, la corsa all’accaparramento, la richiesta di misure di sostegno economico, le riflessioni sul sistema economico politico sociale, sui tagli, sugli investimenti, i “non sono, ma…”, i “non disprezzo nessuno, ma…”, la richiesta di regole rigide e dell’uomo forte, la ricerca del colpevole, l’isolamento, l’ironia, la derisione, la chiamata responsabile alla serietà del momento, le dietrologie, le cospirazioni, le zone rosse, la richiesta di documenti per circolare per strada a piedi o in auto, i lutti e la loro conta, il panico, le citazioni, l’automotivazione al coraggio, al darsi da fare, la spontaneità della solidarietà, la razionalizzazione, l’esposizione dirompente dell’emotività, la ricerca del colpevole, le teorie scientifiche.
Mi pare tutto uguale identico ad allora ma oggi, nel contesto dell’emergenza dovuta al contagio da coronavirus, si aggiunge la distanza fisica tra le persone e l’allargamento dell’emergenza a tutte e tutti nessuno escluso, non limitato cioè a un territorio o un settore circoscritto.
E come allora vedo di nuovo la preoccupante assenza di informazione sul trauma.
Non mi riferisco solo a un’adeguata informazione sulle misure di sostegno psicologico e psichiatrico che già esistono o che verranno – mi auguro – prese o implementate. Mi riferisco proprio a un’adeguata informazione e riflessione sul trauma stesso, perché questo che stiamo vivendo sembra averne tutte le sembianze.
Lo dico non da un punto di vista psicologico o psichiatrico, che non mi compete di certo in quanto non sono una professionista di questi settori.
- a) Lo dico partendo da una riflessione filosofica sul trauma e quindi da un punto di vista umano, sociale, politico. Lo dico dal punto di vista che mi compete, cioè quello di una scienza che si interroga fin dai suoi albori attorno alla domanda più vessata e dimenticata (in favore delle risposte semplici) e che suona all’incirca così: “chi o cosa siamo noi esseri umani?” e sugli innumerevoli piani che questa domanda implica e spalanca.
- b) Ma lo dico anche purtroppo, o per fortuna, lo dico anche da chi ha vissuto un evento traumatico, quello del terremoto del 2016 del Centro Italia.
Purtroppo – perché chiaramente non avrei voluto vivere il terremoto e chiaramente vorrei che nessuno lo viva o l’abbia vissuto mai.
Per fortuna – lo dico perché posso parlare in prima persona di qualcosa che conosco e che mi sono sforzata di conoscere e capire con i principali strumenti che ho a disposizione: la riflessione filosofica e l’aiuto di persone che amo e che mi amano.
Due elementi questi che per me hanno una connotazione che vorrei definire politica. Con ‘politico’ intendo tutte quelle categorie in grado di non limitarsi alla manifestazione contingente e privata della dimensione presente ma capaci di cogliere e incidere sulla struttura di questa contingenza, cioè tutto quel nesso di relazioni che la fanno essere quello che è.
Questa struttura spesso i filosofi la chiamano anche “universale”. ‘Universale’ è una parola scivolosa fuori dalle aule accademiche (ma anche dentro).
Preferisco quindi qui chiamarla “struttura” per evitare il più possibile il fraintendimento con qualcosa che non può cambiare, che non è molteplice, che non è fatto di relazioni e che sia in un al di là da raggiungere.
Il trauma
Ecco perché penso che quello che stiamo vivendo abbia tutte le sembianze del trauma.
Il trauma è una cosa che ti colpisce e che una volta che lo ha fatto continua a lavorarti dentro – ma anche fuori – insistentemente e inesorabilmente, lasciandoti con un disturbo noto come “disturbo da stress post-traumatico”. Non è necessario che sia tu la vittima dell’evento: il trauma colpisce anche chi assiste o è testimone di quell’evento.
Su Wikipedia è definito così:«Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD, post-traumatic stress disorder), in psicologia e psichiatria è l’insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento […] Questo disturbo rappresenta dunque la possibile risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme (terremoti, incendi, nubifragi, incidenti stradali, abusi sessuali, atti di violenza subiti o di cui si è stati testimoni, attentati, azioni belliche, etc.)».
Nell’elenco riportato non si trova il contagio o l’isolamento ma per le loro caratteristiche sembrerebbe possibile aggiungerli alla lista che termina con etc.
Sembrerebbe che il trauma che ha come risultato il disturbo da stress post-traumatico sia un evento abnorme (= anormale) che ha messo in pericolo la vita o l’integrità fisica tua o di altri.
La situazione che stiamo vivendo sembrerebbe quindi rientrarci a pieno titolo: è abnorme, cioè anormale, eccezionale e mette in pericolo la vita o l’integrità fisica tua o degli altri.
Più che sull’eccezionalità o sulla ‘normalità’, vorrei richiamare l’attenzione sul significato di ‘prevenzione’: se si può prevenire il contagio mettendo in pratica comportamenti responsabili e misure contenitive tuttavia ciò non sembra significare che queste forme di prevenzione siano anche sufficienti a evitare o prevenire il trauma della situazione eccezionale o abnorme che stiamo vivendo.
È proprio qui, a questo livello della domanda sulla prevenzione dell’evento traumatico o sulla comprensione delle sue motivazioni, che emergono il problema e la questione su cui vorrei riflettere e che vorrei mettere in luce.
Dal momento che il testo è lungo anticipo l’ipotesi che vorrei avanzare: penso che sia possibile prendersi cura del trauma – vissuto o se e quando lo vivremo – se riflettiamo sulla vita, se ci domandiamo chi siamo rimescolando le carte delle risposte semplici, se siamo sempre pronti a rimettere in discussione l’abitudine delle norme sociali e comunicative in cui viviamo e abbiamo sempre vissuto. Se continuiamo a interrogarci sulla vulnerabilità e non solo nei momenti della sua emergenza.
Nell’elenco degli eventi che provocano un trauma troviamo eventi collettivi, cioè non esclusivi di un vissuto privato e personale ma eventi che sono sottoposti a comprensione e giudizio collettivi, che sono pubblici, che hanno implicazioni sociali, politiche ed economiche. La lista quindi è potenzialmente infinita, considerando come le nostre vite sono sempre più pubbliche e esposte sui social network.
Dagli stupri ai terremoti – eventi traumatici – assistiamo per lo più a giudizi, condanne, riflessioni e lotte su ciò che li ha provocati: da come si veste una donna, a come sono costruite le case, agli investimenti sui centri anti-violenza, agli investimenti sulla messa in sicurezza degli edifici, alle misure di assistenza e supporto economico e/o di inserimento nel mondo del lavoro e così via.
Da una parte ci si chiede come prevenire o evitare che altre persone vivano quell’evento e dall’altra ci si domanda e si riflette sul perché è avvenuto quell’evento.
È un po’ imbarazzante assistere a come due traumi così diversi tra loro – uno stupro e un terremoto ma se ne possono aggiungere altri – possano essere accomunati da effetti e reazioni simili nella società e come, in entrambi i casi, la riflessione sul trauma della perdita della vita o di lesioni irreparabili sia del tutto assente o rara.
Una simile riflessione sul trauma stesso sembra essere quasi sempre afona e incapace di richiamare l’attenzione su di sé di cui sono in grado invece le riflessioni e le opinioni su come poteva essere evitato o sul perché sia successo quell’evento.
Dico che è imbarazzante perché è imbarazzante per me scriverlo.
La sensazione che provo è quella di stabilire cinicamente un paragone senza curarmi del vissuto delle vittime e questo mi mette a disagio.
Purtroppo è quello che sto facendo: sto mettendo sullo stesso piano gli eventi traumatici per farne emergere la struttura e le sue patologie non però per appiattirli e sminuirli. Anzi.
Quello che voglio portare in luce è che riflettere sull’evento che ha provocato il trauma spesso si separa dalla riflessione sul trauma stesso. Così la riflessione finisce per concentrarsi sulla società, sulla politica, sull’economia, sulla morale e la religione, dimenticandosi che quell’evento ha provocato un trauma e che non è ‘solo’ un evento abnorme, eccezionale ma soprattutto un evento traumatico.
La cura del trauma finisce così per essere un percorso individuale di terapia psicologica o psichiatrica: se l’evento che lo ha provocato è collettivo e pubblico, il suo percorso di cura diviene ‘solo’ privato e individuale. (E meno male che si può fare e che si può curare il trauma con questi percorsi).
Perché avviene questa spaccatura e questa fuga dalla domanda e dalla riflessione collettiva sul trauma?
Riflettere sul trauma e prendersi cura del trauma in fondo sembra voler dire recuperare la domanda “chi siamo?” e farlo a partire da un evento eccezionale che ha messo, cioè, in pericolo la nostra vita o di cui siamo stati testimoni. Il trauma sembra ridurre tutto me stesso alla mia vita nel momento in cui scopro che posso perderla. L’eccezionalità sembra stare tutta in questo.
La vita
Ecco, scrivere della vita per me è complicato perché la mia tesi di dottorato parla di questo, della vita (e del rapporto tra vita e libertà). Quindi è complicato come è complicato ogni volta per quasi chiunque riassumere brevemente e in modo comprensibile per qualcun altro un argomento che ha approfondito in verticale in ogni suo pezzettino e su cui ha gettato una visione d’insieme potenzialmente inesauribile (fatta di tante domande e sempre troppo poche risposte).
Ci provo. Sento che ci devo provare.
Ci ho provato mentre cercavo di capire il terremoto. Non posso non provarci adesso che il terremoto è di tutti.
In questi giorni si leggono riferimenti a Giorgio Agamben, un filosofo contemporaneo che ha scritto della ‘nuda vita’ (riprendendo questa nozione da un altro filosofo, Walter Benjamin, vissuto nella prima metà del 1900). Si leggono anche riferimenti al biopotere e alla biopolitica, nozioni che soprattutto a partire da Michel Foucault, un filosofo della fine del 1900, si sono fatte strada nella riflessione filosofica fino a oggi.
Provo a sintetizzare di seguito il profilo di questi concetti inesauribili.
La nuda vita indica lo spazio di separazione tra due nozioni di vita, la vita biologica e la vita socio-politica. La nuda vita non sarebbe quindi né la vita biologica né la vita sociale.
Il biopotere consisterebbe in quel potere non tanto o non solo che mantiene la separazione tra vita biologica e socio-politica ma soprattutto che mantiene quello spazio, quella zona d’ombra della nuda vita che è né l’una né l’altra. In ciò sta la violenza del biopotere.
Il biopotere si distingue dalla biopolitica, la quale oggi nel dibattito viene invece recuperata come quell’insieme di prassi volte non a tenere scisse le due dimensioni della vita biologica e della vita socio-politica ma anzi a metterne in evidenza l’inscindibilità. C’è quindi un recupero ‘positivo’ di questa nozione contro la valenza ‘negativa’ che viene data alla nozione di ‘biopotere’. (Fosse così facile identificare cosa è positivo e negativo!).
Anche Hegel è stato un grande filosofo della vita, con una certa malcelata circospezione per l’utilizzo di questa parola (ma non così tanto come invece Kant) perché il rischio di parlare della vita, soprattutto nel 1800, era quello di farti finire nel circolo dei vitalisti o degli ilozoisti o degli animisti.
Oggi questo rischio c’è ancora e si aggiungono anche la cerchia dei buonisti e dei Pro-life.
Complicatissimo insomma.
Domandarsi della vita è come domandarsi dell’essere umano: le due cose coincidono.
E esattamente come avviene per il trauma il nocciolo della domanda viene fuggito e sommerso dalla polpa che gli sta intorno: domande morali, giudizi, pratiche istituzionali, lotte e condanne.
Come per il trauma anche la domanda sulla vita, in quanto domanda su chi è l’essere umano, ruota attorno alla morte.
La morte è la fine. Ma questa fine è soprattutto ciò che permette di chiamare vita la vita: senza la morte non c’è la vita.
Sia che intendiamo la vita come due aspetti separati, quella naturale e quella socio-politica, sia che la intendiamo come l’unità inseparabile di questi due aspetti, sia che la consideriamo come quell’interstizio che non è né l’uno né l’altro aspetto, sembra che la vita non sia separabile dalla morte, dalla dimensione della sua finitezza, che la fa essere ciò che è.
Quindi anche la morte è una cosa che riguarda tutta la problematica tra biologico e socio-politico, la loro separazione, inscindibilità o interstizio.
Le cose si complicano.
La vulnerabilità
Sempre in questi giorni si sente parlare di vulnerabilità, di fragilità, di immunodepressione. Questa sfera ha condotto a un derby tra giovani e anziani ma anche all’identificazione con categorie più deboli economicamente (genitori con figli, lavoratrici e lavoratori autonomi o al nero, persone che si occupano della cura della casa senza stipendio) o più emarginate, come i senza tetto o le persone private della libertà (i detenuti nelle carceri).
L’emergere di queste debolezze espone in modo lampante le contraddizioni del sistema socio-economico in cui viviamo e che in molte e molti subiamo.
L’isolamento in casa ha anche messo in luce come per molte donne la casa sia un luogo di violenza e non certo un focolare.
La vulnerabilità dell’isolamento in casa fa emergere in questi giorni come le persone anziane o le persone disabili siano private non solo della socialità ma anche dei mezzi primari per vivere come il cibo o le cure di assistenza domestica.
La vulnerabilità è tutto questo e molto altro.
Se non ci fermiamo all’elenco della casistica e osserviamo come ognuno di noi in questo momento si sente vulnerabile o invulnerabile, sembra la vulnerabilità sia ciò che esibisce la dimensione di finitezza e il bisogno di relazioni degli esseri umani.
Da cui il mito dell’invincibilità – ancora più potente rispetto a quello dell’immortalità in cui si radica (e da cui forse le critiche ai ‘giovani’ o le critiche a chi ‘esce lo stesso di casa’ incurante del contagio per sé e per gli altri).
Parlare di vulnerabilità quindi non sembra soltanto avere a che fare con la determinazione di categorie sociali più deboli rispetto ad altre, sebbene spesso venga trattata in questo modo, cioè come inadeguatezza rispetto a un modello di completezza e perfezione, di salute e normalità.
Parlare di vulnerabilità, insomma, ha a che fare con la morte o con il pericolo di morte. E proprio per questo ha a che fare con la finitezza e quindi con la vita. Non riguarda alcuni, riguarda tutti.
Non siamo vulnerabili perché moriamo, siamo vulnerabili perché viviamo.
E che cambia? Cambia.
Gli altri (ovvero L’amore)
Gli altri sei tu. Sì, sei tu. Non c’è un Io e un Tu. Le relazioni sono tali perché non vanno in una direzione sola e questo significa che tu sei il tu di qualcun altro.
Potrebbe suonare un po’ arzigogolato ma basta pensare a una discussione tipo “Tu come stai?” “Bene, e tu?”: siamo due tu che parliamo l’uno all’altro.
Oppure potrebbe suonare a prima vista un po’ come “non volere che sia fatto agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” o come un “porgi l’altra guancia” o anche “cerca di essere il cambiamento che vorresti nel mondo”.
Invece anche qui quello che vorrei proporre è l’elaborazione di una domanda, di un problema e non l’offerta benefica di una soluzione più o meno valida per vivere bene e serenamente con se stessi e con gli altri.
Il punto di questa breve riflessione sull’amore è la consapevolezza e non l’indulgenza (che implica colpa).
La consapevolezza per come la penso può arrabbiarsi tantissimo: quindi non intendo trattarla neppure come una pratica meditativa.
Vorrei mettere in luce come l’amore nel senso comune sia stato svuotato spesso di complessità o ridotto al dolore ma soprattutto come sia stato svuotato del suo significato politico per essere ridotto a un non ben identificato sentimento di dedizione incondizionata più o meno da sognatori più o meno da eroi o più o meno da succubi.
L’amore è la consapevolezza, non la paura, che la vita è questa gigantesca contraddizione di avere a che fare inesorabilmente con la morte per essere vita.
Questa contraddizione è insostenibile per il pensiero che per capire le cose tende a separarle e tassonomizzarle e identificarle. E poi rimetterle insieme.
L’amore invece è il processo che prende consapevolezza della contraddizione insostenibile della vita, che tiene due cose che sembra impossibile da tenere insieme, e della capacità di sostenerla.
Non separare la vita dalla morte infatti non significa svegliarsi tutti i giorni pensando che moriremo – quello più o meno è il trauma – ma significa prima di tutto non separare la propria vita dalla vita degli altri o non incolpare qualcun altro del proprio essere esposti alla morte.
Infatti essere consapevoli della propria vita passa principalmente dalla consapevolezza della morte dell’altro (visto che della propria non se ne può essere consapevoli). E quindi della vita dell’altro.
L’amore è la consapevolezza che siamo tutti ‘tu’ senza nessun ‘io’.
Il trauma, l’eccezione, fanno emergere la patologia dell’identità dell’io contro il tu, della separazione tra una dimensione naturale e una socio-politica, e questa patologia – che è la patologia della società in cui viviamo – prende il sopravvento sul suo mostrarsi come patologia.
Il trauma esibisce la vita. Lo fa spietatamente. L’amore è la consapevolezza che questa spietatezza è solo la contraddizione della vita.
E quindi?
Quindi stiamo attenti al trauma. Prendiamocene cura.
La vita ridotta a mero processo biologico è un inganno del pensiero: anche la vita biologica, quella che non sa di sé, muore ma è comunque vita.
La vita che sa di sé, l’essere umano, si inventa mille stratagemmi per sfuggire alla sua consapevolezza fingendo addirittura di potersi ridurre a ‘mera vita biologica’, a ‘natura’, per evitare di sostenere la contraddizione della contraddizione di sapere che sei vivo perché muori. Mi gira la testa.
‘È naturale’ lo usiamo al posto di ‘è giusto’ mentre diciamo che siamo diversi dagli animali e ci appelliamo a linee biologiche per stabilire cosa, appunto, è giusto per esempio mangiare o chi amare, in quanto naturale, ma siamo diversi dagli animali.
E quindi?
E quindi non la vita è un trauma, non lo è la sua consapevolezza. Il trauma è fare di tutto per dimenticarsi che tu sei quella consapevolezza. Il trauma è pensare che non morirai mai, che a te non succede e che succede solo agli altri. O che succede solo a te.
Il trauma ce l’hai quando la tua vita è in pericolo e viene preservata nel tentativo di non esporla alla morte, al fallimento, al giudizio, all’isolamento.
Il trauma ce l’hai quando la tua vita diventa la morte che vivi ogni giorno mentre gli altri ti sembrano così vivi e così sicuri che non moriranno mai. Il trauma ce l’hai quando pensi che non morirai mai. Che non finirà mai e invece finisce.
O cambia. È anormale, eccezionale.
Ma rispetto a cosa?