Attendiamo il dopoguerra
di Alessandra Spallarossa
Forse complice la memoria che sbiadisce dopo una certa età, forse anche il processo di rimozione dei ricordi dolorosi per salvaguardare la propria salute mentale, mia nonna al telefono mi spiega che la guerra fu meno pesante per loro rispetto a questa reclusione forzata e a questo dramma epidemiologico.
La sua dichiarazione arriva in risposta al pensiero che ho condiviso con lei pochi secondi prima: “certo è dura ma per voi la guerra dev’esser stata molto peggio”. “No”, mi dice, lasciandomi sorpresa.
Mia nonna ha 87 anni, la sua giovinezza è stata segnata dal grande conflitto mondiale che ha tracimato tutta l’Europa, proprio come sta facendo ora il Covid-19, di cui il vecchio continente è diventato il nuovo epicentro.
“Intanto noi sapevamo chi era il nemico e da dove arrivava” continua mia nonna con la sua voce traballante “e poi potevamo riunirci, anzi, ci riunivano tutte le sere, trovavamo conforto nella socialità” quelle parole mi procurano una strana sensazione allo stomaco, ma la voce di mia nonna al telefono continua “certo, poteva cascarti la casa addosso sotto i colpi dei bombardieri, ma io ero una bambina, mi sedevo sulle ginocchia di mio padre e mi sembrava che nulla di male potesse accadermi finché lui mi stringeva”.
Non credo mia nonna intenda davvero sostenere la tesi che la guerra sia meglio di questa situazione, come non credo sia interessante cercare di assegnare premi agli eventi più traumatici della storia umana, eppure un pensiero emerge prepotentemente: la necessità umana del rapporto sociale e del contatto coi suoi simili.
Sono trascorse ormai più di due settimane da quando il Presidente Conte ha messo tutto il paese in quarantena, e pochi giorni in meno da quando l’OMS ha dichiarato il Covid-19 pandemia mondiale. Siamo ogni giorno testimoni di una tragedia che segnerà la storia, che sta mettendo in ginocchio i nostri sistemi; il mondo pare essersi fermato, e mentre noi ci affacciamo alle finestre come carcerati, la natura là fuori si riappropria dei suoi spazi usurpati, dandoci un’amara lezione su cosa possa essere la vita sul pianeta senza l’uomo.
Siamo tutti preoccupati, smarriti, provati, e chi non lo è non ha forse ben afferrato la situazione.
I contagi in tutto il mondo continuano a salire e i morti ad aumentare, la cantilena del telegiornale impregna i nostri salotti senza sosta, ricordandoci continuamente che bisogna restare a casa e che solo così finirà presto. “Presto”, questa parola sembra ormai aver abbandonato il suo significato reale, sembra piuttosto voglia rivestirsi di speranza, perché la verità è che non sappiamo quanto ancora andrà avanti questa reclusione coatta e necessaria. I dubbi sono tanti, ma risposte non ce ne sono.
Mentre aumenta il numero delle anime che si spengono, mentre il nostro paese barcolla sotto i colpi di tosse del coronavirus, qualcosa si aggrappa al nostro cuore ridandoci speranza: la prospettiva di poterci riabbracciare tutti “presto”.
Quando mia nonna mi spiega perché la guerra era diversa si sofferma sul contatto umano, sulla speranza e la forza che scaturiscono da un semplice abbraccio, dall’ancestrale conforto che ci da e che oggi ci è negato. Per la nostra e altrui sicurezza siamo chiamati a reprimere alcune delle più forti connotazioni umane: la socialità, l’aggregazione, l’affetto, il senso di comunità. Allora usciamo sui balconi, tentando di accorciare un po’ quella distanza fisica, cantiamo insieme per sentirci di nuovo vicini.
Mia nonna si sofferma anche sulla forma di questo nemico infido che ci ha costretti a fermarci e nasconderci, che è invisibile e che attecchisce all’interno dei nostri corpi in silenzio, sorprendendoci completamente disarmati.
Sebbene siano giorni delicati e confusi il telegiornale e i media non fanno altro che ripetere che siamo in guerra; voglio credere che ricorrano a quest’espressione col solo scopo di farci mantenere la massima cautela, e non di spargere il panico. Eppure il paragone viene naturale, non serve il giornalista con la sua dialettica a farci sentire come se ci stessero bombardando. Non cascano i palazzi, il nemico si insinua nelle nostre cellule, non ci sono frontiere da difendere, la trincea è nelle corsie d’ospedale, non ci sparano addosso, il virus aleggia tra le strade cittadine, non perdiamo valorosi soldati che combattono per la patria, vediamo i nostri cari spegnersi ineluttabilmente, e a volte neanche possiamo vederli. Il Covid-19 ci ha privati anche del più sacro avamposto umano: l’ultimo saluto ai nostri cari perduti.
Ebbene, nonostante tutto, non perdiamo la speranza, da questi giorni funesti si leva la tenace bellezza umana che non sembra volersi affievolire: l’inestimabile valore del vero contatto, che nessuna tecnologia può surrogare e nessuna tragedia può cancellare.
Nonostante tutto ricordiamoci che il dopoguerra è stato un periodo florido, di rinascita economica, un boom demografico con un miglioramento nello stile di vita, allora anche questa “guerra” un giorno finirà e noi faremo tesoro delle lezioni imparate, apprezzando profondamente le cose più semplici, daremo vita ad un nuovo splendido mondo. Voglio credere che sarà così.
Sull’uso del lessico bellico “illness as a metaphor” della Sontag.
lo aggiungo alla mia lista di libri da leggere, grazie per lo spunto
… “ricordiamoci che il dopoguerra è stato un periodo florido, di rinascita economica, un boom demografico con un miglioramento nello stile di vita, allora anche questa “guerra” un giorno finirà e noi faremo tesoro delle lezioni imparate”… Così si chiude questo articolo molto bello e chiaro su quello che ci sta accadendo a tutti noi, in tutto il mondo. Ma le lezioni da imparare in parte sono già state scritte (tra i tanti penso a Michel Serres); in buona parte quello che oggi accade è figlio della turbo-economia e del boom demografico.
Cerchiamo adesso di capire cosa si intende per miglioramento dello stile di vita, per rinascita economica. Io personalmente ad un ennesimo boom demografico preferirei famiglie allargate e nuove forme di parentela, diciamo intercontinentali.
concordo con entrambi i commenti (e devo confessare che c’è qualcosa che mi urta e ferisce, ancora prima di qualsiasi “intellettualizzazione” della parola guerra per qualcosa che guerra non è; uso peraltro come vediamo usato molto strumentalmente da chi detiene il potere, per rafforzare la propria posizione e appunto il proprio… potere);
e, come dicevo all’autrice, per quanto riguarda l’uscita dalle guerre non possiamo non avere presente cosa dice James Hilman (Un terribile amore per la guerra), a proposito della rimozione (quindi le cose sono sempre molto più complicate di come appaiono) che sempre si accompagna a questa;
L’espressione “nuovo splendido mondo”, che io ho usato per riferirmi a ciò che sarà, ha il chiaro intento di lasciare aperta ogni possibilità, e non invoca assolutamente una ripetizione dei contenuti della storia, quanto piuttosto la reiterazione di uno schema, che si verifica a prescindere dalla nostra volontà.
Invero ognuno ha in cuor suo la speranza che il futuro porti quello che ritiene più giusto, la sua idea di famiglie allargate e legami più ampi è una bella immagine, che trasmette calore, ma cosa accadrà realmente? Non ci è dato saperlo. Io stessa tento di dissipare la nebbia con un po’ di speranza, tuttavia non basta essere positivi per plasmare un mondo migliore. Mia nonna sostiene di aver imparato a godere delle piccole cose grazie alla guerra, ma mi ricorda anche che si dimentica in fretta.
ma mi sembra molto interessante il dialogo tra la nonna che ha vissuto la guerra e l’autrice;
La perdita della socialita’ e’ la cosa piu’ terribile di questo periodo. I nuclei familiari coesi e le coppie ancora sopravvivono, ma chi e’ solo o in situazioni di crisi, o semplicemente adolescente o molto giovane portera’ a lungo i segni di questo.
Ne porteremo tutti i segni, ma certamente chi oggi può riunirsi intorno alla tavola con la propria famiglia è fortunato, gli anziani soli a casa si trovano relegati in una prigione dorata.