Radio days: Alone III

Immagini di Marco Cazzato

Anime Stanche

di Mirco Salvadori

 

LEI: Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche.

 

Chissà perché ricordo questa frase di Primo Levi proprio ora, pensava lei tra il follemente divertito e il torpore confusionale che le impediva qualsiasi movimento. Ricordava, ma alla rinfusa. Ricordava quel suo primo e ultimo anno di alberghiero, il professore di Italiano, le sue poesie e la speranza che riuscivano ad infonderle: speranza, bella parola. Ora, supina sull’orlo dell’abisso, sentiva un oggetto estraneo accanire dentro il suo corpo, come una bestia che la divorava dal di dentro. Le sembrava di essere distesa sul ponte di una nave in balia della tempesta, scaraventata contro la balaustra di acciaio, dura, spigolosa, maledettamente tagliente. Ecco l’onda! Pensava terrorizzata tra sé e sé, eccola che affonda e mi invade. Affogo, mi manca l’aria ma questo non basta, ora so che arriva anche il colpo, eccolo arriva! Questa volta sul viso, direttamente contro quella balaustra che provoca tagli profondi e tumefazioni. Qualcosa le stava squarciando l’anima, lo faceva in modo scientifico, cadenzato, in un crescendo di follia che trasformava i suoi intestini in carne da macello. Non vedeva né sentiva più nulla se non il feroce canto della violenza che pestava e bestemmiava e malediva mentre lei si rifugiava nel ricordo di quel primo e ultimo anno di scuola vissuto nella meraviglia di una materia sconosciuta che le donava la pace mai trovata e ora le permetteva di comprendere quanto, quanto stanche fossero le bestie di quella poesia.

 

Sono i maledetti mattoni con i quali hanno costruito questi palazzi! Quei cosi rosso cupo tutti bucherellati fanno filtrare il freddo, l’umidità e il rumore. Entri in casa ed è come se fossi ancora per strada, nel pieno centro di questa sciagurata periferia che non ti molla con il suo sguaiato dialetto fatto di rifiuti, grigiore, muffe alle pareti, graffiti e quell’insostenibile rumore di porte sbattute. È come se questo universo di vita grama fosse un immenso stagno e si vivesse immersi nella fanghiglia che ne ricopre il fondale impedendo la vista del fatiscente palazzo, decrepita torre di controllo sopra una palude che non sa darsi pace e non vuole fare i conti con la sua incapacità di amare o di farlo nel modo orribile a cui è da sempre abituata, sbattendo una porta alle proprie spalle, una mano sulla cinta e l’altra sulla nuca di chi gli sta di fronte.

 

I ricordi si sovrappongono, la fuga necessaria dall’insondabile profondità del male si trasforma in delirio: le porte del vecchio ascensore si aprono, lei e sua figlia entrano nello stretto abitacolo sommerso di sporcizia e scritte altrettanto insopportabili. Lo specchio, andato in frantumi da anni, sopravvive grazie al triangolo che ancora riesce a riflettere le miserie di quel luogo e il viso tumefatto di una madre che stringe la propria creatura in seno. Indossa gli occhiali da sole che tanto le piacevano, quelli che suo marito le aveva regalato per il compleanno, comprati in qualche bancarella dove vendevano le copie degli originali con lenti in pura plastica. A lei però non importava, quella giornata se la ricordava bene. Si riflette in quel triangolo di specchio e rivede la festa, la torta, lei che apriva il pacchetto, suo marito che sorrideva ancora sobrio, Clara che giocava vicino al tavolo e il tintinnio di un messaggio che giungeva sul suo cellulare. Continua a scendere e riflette davanti quel residuo di specchio, ripensa a lei a suo marito ma ciò che vede sono solo due paia di lenti di plastica nera che riescono a coprire quello che mai avrebbe voluto guardare: le grida di lui che chiedeva spiegazioni per un innocuo messaggio di auguri, la sua mano che lanciava la figlia contro il muro e giungeva ad artigliarle i capelli. Era lo strappo, la caduta sul duro pavimento, il primo calcio ricevuto, il dolore atroce, i capelli usati come si usa una corda per trascinare la bestia al macello, erano le bestemmie seguite dal rumore sordo della porta che sbatteva dietro le sue spalle per una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, diecimila volte! Era la tenebra della disperazione nella quale riecheggiava il rumore sordo di un primo pugno allo stomaco.

 

LUI: E poi son solo. Resta la dolce compagnia di luminose ingenue bugie.

 

Sua moglie la recitava ogni tanto sottovoce, questa strana incomprensibile frase. Erano parole che riuscivano a scatenare un delirio di rabbia nei suoi confusi pensieri. Non sapeva chi ne fosse l’autore, un vip della tivù forse ma conteneva due parole per lui insopportabili: Solo e Bugie.

 

ULTIMA ORA: I corpi di madre e figlia sono stati ritrovati nello scantinato del palazzo dove abitavano. La morte risale alle prime luci dell’alba. Una valigia è stata rinvenuta vicino all’ascensore ed è all’attenzione degli inquirenti. Sembra che la donna cercasse di fuggire con la figlia dal marito, noto nel quartiere per il suo comportamento violento. L’uomo è ricercato per duplice omicidio.

 

 

“Alone – Vol. III”
17 dicembre 2019

di

Gianni Maroccolo

“Non possiedo nome eppure m’invadono tutti.”

Terzo appuntamento con il disco perpetuo di Gianni Maroccolo: il Volume III di Alone (sottotitolo:Palude)  pubblicato da Contempo Records. La collana si avvale del contributo delle illustrazioni e dell’artwork di Marco Cazzato e dei racconti di Mirco Salvadori. A Lorenzo “moka” Tommasini sono stati affidati post-produzione sonora e mastering. La supervisione è di Alessandro “Tozzo” Nannucci.

Il Volume III affronta il tema della violenza contro i più deboli, in particolare donne e bambini. L’animale scelto per questo capitolo è la libellula, figura dal forte significato simbolico. Questo insetto leggiadro ed elegante porta con sé significati profondi.

Nella cultura occidentale, è simbolo di equilibrio, pace e libertà. La palude è l’habitat naturale della libellula. L’insetto ha origini umili: nasce nel fondo fangoso di uno stagno, dal quale evade trasformandosi in un animale alato in grado di staccarsi da terra.

La libellula rappresenta la trasformazione, la ricerca della verità e la transizione dall’infanzia all’età adulta. La sua vita è caratterizzata da due stadi distinti, ancorché connessi tra loro. Per questo il Volume III è suddiviso in due parti, come due atti di un’opera. Vari temi identificano le scene, che suscitano emozioni contrastanti. Dopo una breve ouverture, si dipanano i due movimenti.

La violenza si manifesta in vari modi: fisica, sessuale, psicologica, economica. Chi commette volontariamente atrocità inimmaginabili verso chi non è in grado di difendersi è facilmente assimilabile a una larva intrappolata in un’oscurità profonda.

Difficilmente riesce a fuggire da quell’abisso, talvolta non lo vuole neppure. Comprensibile l’impulso di raggiungere gli aguzzini nel loro stesso fango e commettere altrettante o peggiori atrocità su di loro. La vendetta non può però farci superare i nostri limiti di larve umane. Il Mahatma Gandhi affermava: “occhio per occhio, e tutto il mondo diventa cieco.” Il nostro destino, invece, dovrebbe essere quello di Vedere. Siamo purtroppo imprigionati in noi stessi, bloccati come i corpi in fondo al mare narrati nel Volume II e il solitario bue muschiato perso nella tormenta del Volume I: questo è il tratto che lega i tre volumi pubblicati fin qui. Come Marok ha già avuto modo di ribadire, la sua musica canta il negativo come un inno alla Vita, non alla sua negazione.

Due gli artisti ospiti del Volume III: Luca Swanz Andriolo recita il testo di Nina Maroccolo “Non possiedo nome eppure m’invadono tutti”. Ne scaturisce una meditazione introspettiva e caratterizzata da momenti di rara emotività. Il Volume III verrà inviato a tutti gli iscritti alla campagna abbonamenti ideata nel 2018 da Contempo Records, ma sarà disponibile per chiunque nei formaticlassici: LP, CD e download digitale.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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