La paura della normalità. Sui Diari di Susan Sontag

di Angela Galloro

Nell’intervista fiume a Jonathan Cott per Rolling Stone, ripresa in due parti e pubblicata nel 2013, Susan Sontag dà quella che potrebbe essere la sua non dichiarata definizione di curiosità: dal momento che mi piace ciò che non sono, amo cercare di imparare ciò che non sono o quello che non so.

Su questa chiave di lettura, della più vivace voracità intellettuale, della curiosità instancabile si possono studiare i diari, pubblicati di recente da Nottetempo (Rinata. Diari e taccuini 1947-1963 e La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980) raccolti dal figlio David sulla base di quaderni e appunti.

A puntellare ogni pagina l’ossessione della scrittura a tutti i costi: tra le note di intensa intimità che ci si aspetta da un diario fanno la loro comparsa complesse critiche letterarie, sociali, cinematografiche, prodromiche a quelli che sarebbero stati (o che contemporaneamente venivano pubblicati) i romanzi e i saggi critici. Annotazioni centrifughe che solo una volta – e solo verso la fine dei quaderni – trovano pace in due colonne dal tono infantile: quello che mi piace / quello che non mi piace.

Sempre nell’intervista a Cott, il giornalista fa notare a Susan Sontag l’immagine di Hercules alle prese con l’Idra sulla copertina del saggio La malattia come metafora, pubblicato nel 1978 dopo la sua – infinita – lotta contro il cancro. Nonostante questo possa far pensare che il mostro sia la malattia, le teste del mostro rappresentano invece per Susan Sontag le false convinzioni, il pensiero demagogico, l’ossessione della scrittura, del tempo, delle convenzioni sull’età, sul genere, la misoginia, l’ambivalenza del potere.

La formazione intellettuale della giovane Sontag comincia molto presto, a giudicare dalla sconcertante maturità dei diari di Rinata, quella di una quindicenne combattiva e insieme di una giovane donna colta e dalle idee chiare, studentessa prodigio diplomata in anticipo. Ho intenzione di fare tutto… di avere un solo modo di valutare l’esperienza – mi procura piacere o dolore? E mi premurerò di rifiutare ciò che è doloroso – pregusterò il mio piacere ovunque, e per giunta lo troverò, perché è ovunque!

Una passionalità che lascia spazio a mille dubbi, e che rimane così intatta nel tempo come rimangono, cambiando ed evolvendo, alcune incertezze. Ogni posizione estetica è oggi una sorta di radicalismo. La mia domanda è: qual è il mio radicalismo, quello prodotto dal mio carattere?
I diari sono una corsa all’inseguimento di questa definizione di personalità. Eppure non vi si troverà alcun atteggiamento radicale o categorico. La delicatezza del dubbio, la femminilità della soluzione sono le strade che la scrittrice percorre, a volte in preda a confusione consapevole, altre con chiarezza e convinzione disarmanti.

Si ha sempre paura di interpretare Susan Sontag, dal momento che gran parte della sua speculazione critica si è concentrata sul contestare l’interpretazione. Gli aspetti di cui Sontag parla nei diari, vita, scrittura, amore e tempo, sono gli stessi che nei saggi vengono studiati nelle personalità di altri intellettuali (si leggano le note su Benjamin o Barthes in “Sotto il segno di Saturno”) e che nei romanzi si risolvono e prendono le forme di un personaggio (Diddy l’ignavo ne “Il kit della morte”, Emma in “L’amante del vulcano”).

Sembra quasi che i diari servissero a sparigliare le carte di un ordine creativo mai completo.

Come si tengono insieme le mie varie identità – donna, madre, insegnante, amante, ecc.? Ci riuscirò tra un quarto d’ora? Sarò capace di mettermi nei panni della persona che devo essere, di abitarla? È solo una delle riflessioni sull’io, nelle quali però concima un fine più alto, un’idea dell’esistenza che non si chiude nella propria vita, nei limiti dell’ego e del successo (L’attrito del successo: dispersione di energie e ancora Chi ha il diritto di dire “io”? è un diritto che ci si deve guadagnare?) ma che trascende il momento e lo spazio e diventa meditazione sulla coscienza: un progetto spirituale – ma legato alla creazione di un oggetto, così come la coscienza è imbrigliata al corpo, è la frase che dà il titolo alla raccolta e che tradisce un’ambizione più alta in cui l’amore, il successo, l’esperienza, la maternità, l’arte si fanno strumenti dichiarati di un raggiungimento spirituale. All’inizio del ’66, dopo anni di insegnamento in accademia e dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, “Il benefattore”, Susan dubita ancora di sé: so di avere una buona mente, una mente persino potente. Sono brava a comprendere le cose + a dare loro un ordine + a usarle. Ma non sono un genio. L’ho sempre saputo.

L’ossessione della mediocrità, della non-genialità, messa più di una volta in connessione con le aspettative genitoriali tutte al femminile – dopo la morte del padre quando era appena bambina le figure affettive di riferimento erano la madre e la sorella – ricorre più di una volta nel percorso di formazione della scrittrice, ma meno in quello della donna che si risolve molto presto in una percezione del mondo più elevata.

Per poter scrivere l’ego deve sparire o si deve ingrossare?

Vive appollaiato su ogni pagina il gigantesco contrasto tra ego e abbandono del desiderio, tra l’individualità, il genio creativo, e l’umanità profonda in contrasto, l’amore e l’ambizione: preferisco essere cortese che giusta, è il proposito che la muove già dalla prima giovinezza. Nei diari il distacco dell’individuo dal proprio sistema è al centro della riflessione: di fondo anche l’estetica fascista nei saggi di Sotto il segno di Saturno viene definita come esasperazione dell’individualità, celebrazione del genio a tutti i costi, dove il costo principale è la perdita dell’amore e della solidarietà del pensiero.

La normalità terrorizza Susan Sontag anche nella scrittura: nei diari vi è in controluce una consapevolezza per cui il genio egoico sia più portato allo scrivere, in particolare alla narrativa, una prova che l’autrice sentiva sempre molto ardua e che affrontava con più ansia rispetto al lavoro critico o cinematografico. Il mio “io” è gracile, cauto, troppo sano di mente. Gli uomini sani di mente, i critici, li correggono – ma la loro sanità mentale è parassitaria e vive della facoltà creativa del genio.

Coscienza e corpo fanno a botte in molti passi, in altri si parlano e spesso si abbracciano: è evidente nel rapporto con il sesso, un atto sempre pronto ad ammettere sé stesso come errore. Susan cerca la risposta a questa dualità creativa, tra questo corpo “basso”, mortale, voglioso e – da un certo momento, purtroppo – malato e una mente che divora l’esperienza tutta, in modo “siddhartiano”, per elevarsi. La scrittrice esemplifica molto bene il contrasto purezza – saggezza impersonandoli rispettivamente in Simone Weil e Flaubert. Rimanere puri precludendosi l’esperienza o rinunciare alla purezza, preferire la lucidità e così l’esperienza? L’origine più profonda della mia mediocrità: volevo essere pura e saggia allo stesso tempo.

Il prezzo da pagare è una profonda e dolorosa solitudine, quella che si manifesta durante l’atto creativo. Scrivere annullava tutto della vita di Susan Sontag: mangiare, dormire, uscire, vedere gli amici: ho trasformato la mia vita in un’officina. Amministro me stessa.

Il lavoro che inonda progressivamente ogni aspetto della realtà della scrittrice non fa che aumentare la fame insaziabile della mente, che diventa quasi una malattia e che Susan aveva preannunciato nei primi diari al tempo della passionalità sfrenata, annotando convintamente: il bisogno intellettuale simile al bisogno sessuale.

L’amore, anche nei suoi momenti di tenerezza e/o passione, è trattato come un esperimento sociale. Con incredibile lucidità Susan Sontag si guarda dall’esterno e da fuori guarda la coppia, l’omosessualità, la perversione, il matrimonio. Pur amando, sinceramente e follemente.

Le sette teste dell’Idra con cui inizia l’intervista di Cott, alla fine dei diari, sembrano diventare i grandi dualismi con cui la Sontag combatte ogni giorno. Alla ricerca disperata di un assoluto che li contenesse tutti, proprio come una “posizione estetica” ai tempi molto richiesta.

Ma al radicalismo, Susan preferiva la libertà e l’intolleranza verso gli stereotipi giovane / vecchio, uomo / donna, sui quali – sosteneva  – si tiene in piedi la società e che prevedono, com’è naturale, un vincitore e un vinto per poter convivere. Contrapposizioni e manicheismi inaccettabili per una personalità affamata di vita, per le infinite possibilità che Susan Sontag dava all’arte, al libro, al film, alla letteratura, al sesso, alla fotografia, all’umanità.

“Contro l’interpretazione”, il saggio del 1966, si fonda proprio sulla lotta alle categorizzazioni e ai limiti che queste impongono, impoverendo così il mondo e l’arte. Nel tempo dell’interpretazione a ogni costo, non stupisce che l’autrice sentisse mancare, e lo esprimesse nei suoi scritti più intimi, l’autostima data da una corrente, da una linea da seguire, come molti suoi colleghi (per giunta strutturalisti). Scrive spesso e in diverse forme di mancare di “audacia” e di “carattere”. La sua posizione umana e umanista, completamente priva di pregiudizio, passionale e vogliosa di vita non doveva sembrare a sé stessa completa, come si addiceva e si richiedeva all’approccio critico del tempo, ed è forse questo il grande aspetto del tutto nuovo che rende preziosi i diari.

I due volumi (che precedono un terzo di prossima pubblicazione) sono fondamentali per tracciare le mille strade interiori e quotidiane e sembrano diventare l’esemplificazione immaginativa e potente del pensiero di Susan Sontag, di un corpo indebolito da troppa coscienza.

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

  1. Grazie all’autrice per questa recensione, che ho letto con molto interesse; fra l’altro ho iniziato da poco il secondo volume dei Diari.
    Due domande: che cosa intende con “la femminilità della soluzione”?
    La seconda: siamo sicure che il corpo sia indebolito dalla troppa coscienza, e non rafforzato? Nel caso di Sontag, mi sembra che l’esperienza fisica illumini la riflessione intellettuale.
    Ricordo inoltre che questi volumi, e moltissimo altro di Sontag, è tradotto splendidamente da Paolo Dilonardo

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

“Dear Peaches, dear Pie”. La corrispondenza privata tra Carlos e Veronica Kleiber

di Roberto Lana
Ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare Veronica, la sorella di Carlos Kleiber. Nel corso di uno dei nostri incontri, Veronica mi ha consegnato l’intera corrispondenza con il fratello, dal 1948 al 2003

Funghi neri

di Delfina Fortis
Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario

di Anna Toscano
Osservare, ascoltare, guardare la vita degli altri, assistervi, parteciparvi, lottare. Grace Paley, della quale ricorre oggi il giorno della nascita, era una donna fuori luogo, una scrittrice fuori luogo, una che non amava stare dove la mettessero

Dente da latte

di Valeria Zangaro
A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso

“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno

di Francesca Lazzarato
È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista.

Il Dimidiato

di Astronauta Tagliaferri
È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: