La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (prima parte)

 

NOTA INTRODUTTIVA

 

Magdalo Mussio, In pratica

 

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

 

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

SOGLIA

 

«It is all very well to keep silence, but one has

also to consider the kind of silence one keeps.»

 

Samuel Beckett, The Unnamable

 

 

«A rigor di termini non credo che la sua posizione offra nessun futuro,

né remoto né prossimo, né politico né poetico: ma questo è altro discorso[…]»

 

Franco Fortini, Lettera a Corrado Costa

 

 

«Glossators and their kind are incessantly in search

of the animating element in their textual objects that bears no name. 

[…] They knew how to find the secret source

of incompletion sealed in every work of thought.»

 

Daniel Heller-Roazen, The inner touch

 

 

TAVOLA DEGLI INTERVENTI

PRIMA PARTE

 

Giulia MartiniAldo TagliaferriDavide Brullo / Polisemie (Mattia Caponi, Costantino Turchi) / Francesco Iannone / Giovanna Frene / Carlo Selan / Marco Giovenale / Mattia Tarantino / Carlo RaglianiMarilina CiacoSergio Rotino

 

SECONDA PARTE

(in uscita il 29 marzo)

 

Matteo Meschiari / Andrea Inglese / Davide Nota / Renata Morresi / Riccardo Canaletti / Bianca Battilocchi / Anterem (Flavio Ermini, Ranieri Teti) / Mariangela Guatteri / Mario Famularo / Fabio Orecchini / Giovanni Prosperi

 

TERZA PARTE

(uscita il 31 maggio)

 

 

 

GIULIA MARTINI

 

Firenze, 6 gennaio 2020

Caro Giorgiomaria,

la domanda di partenza del tuo questionario, se ho ben capito, è se sia «ancora legittima la radice dell’inchiostro». Ti domando, a mia volta, se e in quale epoca non lo sia stata, recente o lontana nel tempo. Parli dello «scrivere stesso, malgrado le storture» – ma non si scrive proprio perché le storture?

E quanto più le storture perdurano, tanto più la radice della scrittura ne sarà legittimata.

Se c’è, come dice Quinzio, una «fine […] decretata» per il gesto poetico e più in generale per la letteratura, questa fine coinciderà necessariamente con la nostra fine tout court, proprio in virtù di quella che sembra essere la particolarità del gesto poetico: renderci la realtà interessante con l’additivo della finzione (ma leggi anche duttile, digeribile, benevola rispetto al tempo). In questo senso, quella radice mi sembra non solo legittima ma anche auto-legittimante.

Rispetto invece al rapporto tra scrittura e conoscenza, la rinuncia a questo gesto, cioè la rinuncia al dire, potrebbe venire da quel senso di essere «citati in giudizio» di cui scrivi: sempre se ho capito bene, sarebbe lo sconcerto di essere chiamati a testimonianza di qualcosa, per esempio di un delitto, senza la memoria di avervi assistito.

Ma perché Omero è cieco? Se qualcuno può testimoniare il non-conosciuto, questi sarà proprio il poeta, in quanto scriba, scriptor, scrivente di un dettato che per larga parte lo trascende, quindi dotato della capacità di antivedere.

Occorre quindi, forse, distinguere, quando si parla di rinuncia al dire, a cosa si stia effettivamente rinunciando: perché se il poeta può esimersi dal dire il dicibile, passando inosservato, non altrettanto impunemente potrà dissociarsi dal tentativo di dire l’indicibile, che è la sua vera missione, come Dante ci mostra bene.

Farsi tramite, cioè, di quelle cose che solo la poesia può dire, con il suo linguaggio preciso, che ha a che fare sostanzialmente con il pre-linguistico della materia e del mondo. Mi sembra questo, per chiudere con parole di nuovo tue, «il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare».

 

Con un caro saluto,

Giulia Martini

 

 

ALDO TAGLIAFERRI

 

Sulla scia di Emilio Villa molti suoi amici, contagiati da una tentazione diffusa tra poeti e artisti dopo Rimbaud, si sporsero sull’abisso di un silenzio senza ritorno, ma infine tornarono sui loro passi, a differenza di altri poeti, anche tra i maggiori, che incalzati da eventi insopportabili e pressanti erano stati risucchiati nel vortice mortifero. Nella prospettiva nazionale cui Cornelio si riferisce, la denuncia dell’insufficienza del linguaggio coincide, in Villa come in Beckett, con la caduta in uno stato di depressione dal quale il poeta non rinuncerà a uscire, mentre Costa, più flessibile dell’amico e socialmente accorto, non cessò di misurarsi con le difficoltà che incontrava, o aggirava, cercando un varco sul confine tra la parola e il segno. Diverso fu il caso di Spatola,  che aveva colto la tendenza delle arti a contaminarsi tra loro nella ricerca di una via del ritorno a uno stato aurorale. Un incombente “finale di partita” costituiva lo sfondo storico entro il quale questi poeti si mossero e tuttavia il “fatto accertato” della morte della poesia, per ciascuno dei poeti citati, Villa compreso, si tramutò in interrogazione, in indagine volta, se mai, ad accertare se non si trattasse di assistere al funerale di una idea di poesia tramontata insieme con l’idea di una cultura europea vincente e dispensatrice di civilizzazione. A fini del tutto diversi mirava la riflessione di Sergio Quinzio, indotto dal proprio nichilismo a giustificare la fede eludendo la filologia e introiettando la verità assoluta della lettera, come dimostra al di là di ogni dubbio la sua schermaglia con Guido Ceronetti, amichevole ma divisoria.

Non credo che si possa introdurre una esigenza di legittimità senza rischiare di offuscare i presupposti della questione, dato che, soprattutto a partire dalle avanguardie, la poesia si è ribellata alle pretese del simbolico di legiferare sui poteri del linguaggio. La contestazione dell’autorità del linguaggio come strumento di dominio discende direttamente dalla ricusazione del “come è”, di come stanno le cose e dell’uso corretto e ad esse correlato delle parole. La maledizione che ci viene “dall’alto” è quella della castrazione operata dal simbolico che, nella accezione lacaniana, costituisce la gabbia nella quale nasciamo e dalla quale cerchiamo di uscire. La maledizione ha un’origine teologica, nel senso che è scaturita da una Legge prestabilita, punto di riferimento di letture “ortodosse”, ma ha avuto una continuazione laica ancora più soffocante dopo aver trovato ospitalità in istituzioni accademiche spesso ridotte a allevamenti di flabellanti a cui traffici è consustanziale la tendenza a sminuzzare la poesia secondo prospettive disciplinari a loro volta governate dalle specifiche leggi richieste da insularità scientifiche. Nel creare un humus favorevole alla crescita delle arti si era dimostrato più produttivo ascoltare la voce di una divinità primitiva, ora loquace ora provocatoriamente taciturna, che seguire le istruzioni sempre aggiornate di istituzioni progressive.

L’operazione di rigetto messa in opera da Villa e dai suoi interlocutori prediletti, poeti e artisti, per quanto convulsa, nutrita di perplessità e ostacolata dai tecnocrati della parola, non fu affatto una opzione meramente dissipativa se non nella prospettiva avanzata da Nietzsche secondo la quale l’azione creatrice non va disgiunta da una distruttiva. Essi non dimenticavano che, dopo la morte di Dio annunciata dal filosofo e con l’avvento su scala globale dell’informazione tele-comandata e manipolata, era iniziata la serie negativa comprendente la morte dell’Autore, la fine della Storia e la crisi del Soggetto, eventi culturali concorrenti nel marginalizzare la rilevanza dell’arte in genere intesa come pratica culturale extra-sistemica, “controcorrente” (Lacan), “arrischiante” (Heidegger), e nell’acuire tra i poeti quel senso di estraneità ed esilio, rispetto ai discorsi e ai rituali ufficiali, già esperito da Baudelaire.

Se ci si propone di abbozzare una risposta plausibile ai quesiti posti da Cornelio, è comunque sconsigliabile prescindere dalla duplicità dell’atto di nominare, che da una parte è vivificante, nato dalla nostra corporeità e dalla nostra capacità di progettare, ma dall’altra comporta un aspetto mortifero teorizzato sia dalla tradizione filosofica che, messa in moto da Hegel, tramite Kojève arriva fino ad Agamben, sia dalla tradizione artistica accolta, e soprattutto praticata, da poeti e artisti diversi tra di loro ma reattivi nei confronti del quoziente di violenza implicito nella nominazione, come Gherasim Luca e Artaud. Al poeta della tarda modernità, consapevole di assumere, con l’atto di nominare, un potere che gli viene dalla partecipazione alla mitica uccisione del padre, e che è inscindibile dalla mitica colpa indagata da Freud, spetta ancora contrastare la castrazione simbolica ritorcendo il linguaggio contro se stesso. Questo è il compito perseguito da rappresentanti esemplari della letteratura novecentesca, coerentemente antifascisti, come Beckett, Celan e Villa, in esplicita ribellione contro le ingiunzioni oppressive di una “lingua madre” istituzionalizzata, ridotta a informazione devitalizzata e pubblicitaria, i cui custodi sono a loro volta consapevoli della valenza politica acquistata da una parola trasgressiva, sovvertitrice del funzionamento dello stato esistente. Gli effetti della sovversione non sono immediati, né pratici, come tutti sanno, ma indicano una via che può trasmettere, per contagio, speranze ed entusiasmi giudicati pericolosi: trasmettono vitalità, come aveva rilevato Leopardi e ribadito con tenacissima determinazione, nella incipiente modernità, Joyce.

Nel campo delle arti, data la insopprimibile natura relazionale della parola, risulta disfattista e velleitaria la decisione di togliere l’iniziativa alle parole per attribuirla alle cose confidando in un superiore stato di realtà di queste ultime (che ultime non sono, giungendoci elaborate attraverso le parole). Tradizionalmente incline a situarsi sul confine tra opposti che non si escludono tra di loro (cfr. l’infinito irrompente nel rapporto tra la siepe e l’orizzonte leopardiani), in area di tra-passo, e a far traballare ogni rigido confine tra parole e cose, il poeta si trova alle prese con parole scivolose e impoverite dai tipi alternativi di discorso che Lacan, sensibile alle sorti delle arti, aveva individuato e distinto.  Non si limita a proporre ibridazioni o connubi tra lingue diverse, spazializzazioni inedite, livelli di realtà eterogenei, stati depressivi e deliri di onnipotenza, tutti artifici che gli permettono di rapportarsi a una totalità sempre perseguita e sempre inconclusa, ma cerca la fruizione di un frère et semblable disposto a partecipare alla costruzione di un rebus in divenire (la stessa impresa in cui si erano impegnati i nostri avi più antichi inventandosi un linguaggio e, più precisamente, passando dal calcolo amministrativo al rapporto tra concreto stabile e astratto dinamico). Proponendo un ritorno alle origini, cioè alla enigmatica sequela di pittogrammi e icone tracciata dall’”uomo primordiale”, e sapendo, dopo Nietzsche, che a rigore tale meta è inattingibile, e dunque che l’impresa è destinata a un fallimento epistemico, ma ritenendo che solo quella destinazione assoluta valga la pena di essere ritentata (che si possa “fallire meglio”, come suggeriva la non-conclusione lasciataci da Beckett), Villa ha indicato la via paradossale di un travalicamento à rebours che ha affascinato e influenzato i suoi sparsi amici ed estimatori, ma ha anche esemplificato, percorrendola, i momenti traumatici e sacrificali coi quali l’artista si misura nel tentativo di rapportarsi alla totalità senza rassegnarsi a rinunciare a conseguirla.

 

 

 

DAVIDE BRULLO

 

non è aristocratico l’ingresso

nel Torturatore – basta decomporre

la rabbia in briciole di bene

con cui i bimbi crescono astuti

e stupidi a Est dove le città abusano di blu

 

nel retro del ghiacciaio il rumore

sembra quello di una sedia che scoppia

«con poche pietre potrò infliggerti

un pasto» disse una memoria

ruminata ora oltre

la perizia di latitudini e offese

 

disse di sentirsi in un velo

«nell’alveare dell’alba» scrisse quando

la sera lo costrinse a pensare

che neppure le parole sono umane

– poi si frantumò in quella cosa che ha molti cuori

 

«ci spinge al freddo un desiderio

di assoluzione e di assoluto»

*

il rientro dal frastuono stabilì

in marmo la marea – una ventata

di volpi confermò che tra la vita

e l’altra non c’è l’angelo ma protratta

violenza – «a Nord un grido sgretola

la cronaca e inchioda i ghiacci all’onestà»

è scritto nell’anagramma delle aurore

 

«ad uno è dato aggiogare le consonanti

all’alba perché sia vertiginosa la pronuncia»

 

dall’incastro iperboreo che sfiducia i prati

in stelle capì l’evoluzione del migrare

– la bambina si apposta nel lato barbaro

della stanza e sa ora che la debolezza

argina gli immortali –

 

l’assenza di serpenti non genera

l’innocenza e la colpa non colpisce

la babele delle banchise – «allora

giudicarono di aggiungere vipere» è scritto

– la bocca delle bisce fiorì nel ghiacciaio

come una rosa – «parlano le lingue

degli angeli» ma il ghiaccio

è un insegnamento indubbio

e autarchia è l’Antartide

 

 

 MATTIA CAPONI, COSTANTINO TURCHI

(POLISEMIE)

A e B, un dialoghetto radicale

 

A: Ancora una volta, siamo qui chiamati per rispondere allo spinoso quesito che attanaglia la poesia moderna: se scriverla, la poesia, sia legittimo o meno. Dal mio canto, mi trovo ad affermare come illegittimo sia ancora domandarsi se legittimo è in effetti scrivere poesia, almeno in questi termini. Stabilire se la scrittura della poesia sia legittima è impossibile, ancor di più se questa legittimazione è richiesta all’ispirazione, ovvero alla dedizione, in ogni caso a un altrove che precede la stessa scrittura: e ciò poiché sarebbe assente il campo di verifica. Solo il testo si propone a noi come luogo d’osservazione, sicché domandarci della sua legittimità, a posteriori, è dunque speculare su di esso in chiave metafisica.

 

B: Credo di essere d’accordo, fintanto che teniamo presente un particolare di portata molto ampia. Se è vero che pretendere di occuparsi di poesia (farla e disfarla è tutto un lavorare) fuori dell’ambito concreto porterebbe a perdere l’appiglio con la scientificità, col caso e con il reale in fin dei conti; se tutto ciò è e resta vero, scontrarsi con un testo o con un libro di poesie può rimettere in gioco la nozione di poesia; trasportando quel testo o quel libro, nel suo fare, un’idea poetica attuata, può estenderne o restringerne il campo semantico, fino a rendere obsoleti anche alcuni strumenti critici: non posso quindi che pensare (e temere) che ogni incontro possa minare la legittimità della poesia e di questa poesia.

 

A: Tu mi suggerisci che da un testo, leggendo il suo modo d’esser fatto, possiamo estrapolare da una parte un’idea specifica d’autore di cosa sia poesia, dunque da molti testi un’idea più astratta e condivisa; anche che la prima idea può provare a conformarsi con la seconda, oppure agonisticamente confrontarcisi, comunque relazionarcisi. Ammettiamo allora e piuttosto, dalla nostra parte di destinatari e tenendo da parte la poesia in generale, che ci si possa chiedere (e poi determinare) se una poesia – o un loro gruppo per conseguenza di estensione – si comporti secondo uno dei due casi nei confronti della convenzione (ma leggi anche: tradizione). Ebbene, se non volessimo cadere subito in una petizione di principio per cui solo una delle due tendenze è imposta come legittima, non trovo possibile comunque designare come tali certe poesie anziché altre, da uno e dall’altro insieme, senza addurre principi che a quelle siano estranei.

 

B: Noi, perdendo le qualità coi tempi, stiamo lasciando indietro la pelle vecchia di una poetica composita e discorsiva – non solo di un «gruppo» di testi, ma una organizzazione testuale strutturata. Ma che non si facciano valere princìpi esterni lo dimostra il fatto che gli unici cardini che si possono cercare sono nel testo – altrimenti non sono. Il metodo, quando vuole quindi affrontare i nostri casi, varrà per un’«idea specifica» e autoriale o potrà applicarsi e rimodularsi nei confronti di ogni particolarità? E la legittimità (come problema e non come tema) cacciata dalla porta rientra passando dal cortile, dove Govoni fa crescere il suo rosmarino profumato che si accalca fra mill’altre cose sul bordo di che cos’è poesia: spingendo perché il limite s’allarghi, si sgualcisca – e crudelmente lo infiacchisce. Questo perché l’agone ritorna nell’ambito della cultura autoriale e col tempo sempre più personale, dove un poeta non si adegua ad una tradizione egemone e ad una retorica prescritta. Lavora, prova e riscrive per formarsi una cultura ed una prassi personale – non per forza antagonista. Scavare all’interno della concettualizzazione di un poeta serve proprio a vedere se e come questi si trova nei confronti della cultura, della tradizione; se si sta creando dei mezzi per attraversarli e crearsi una voce, una forma e dei modi propri.

A: Ma come monete estratte da un forziere il cui contenuto è limitato, le qualità dei tempi si perdono solo in attesa di guadagnarne altre: ed eccoci ancora davanti al banco di questa transazione – schermato dal vetro, seduto in modo che solo a tratti ne vediamo il volto – il cassiere che chiamiamo condizioni esterne. E se possiamo lamentare l’abbandono di una poetica composita come l’arrugginirsi degli attrezzi, perché non prospettarci nuove poetiche e nuovi attrezzi, propri di questo secolo? Oltretutto, è più importante la composizione di una poetica o la mente che la compone, gli arnesi del fabbro o la mano che li userà? La legittimità, d’altronde, come tu la proponi, sorge dall’elaborazione della materia (per materialia surgit) e come tale non si distingue dalla sua sostanza di verità (mens hebes ad verum), sia questa sostanza del contenuto o della forma. Ma che questa verità espressa in stratagemmi non sia legata alla storia per quei tramiti che chiamiamo cultura oppure tradizione, la loro violazione, così come economia o società; ancora, che questa verità non si possa trovare esemplificata in qualche modo sia nel minimo che nel massimo impegno, tutto questo non lo posso credere.

B: La vediamo questa nuova poetica? Io piango ciò che ho visto e perso, non ciò che immagino e desidero. E da quando, nel poeta, si cerca la «mente» o sarà meglio dire lo spirito, piuttosto che le sue abilità tecniche e le sue capacità di critica, analisi, sintesi e descrizione culturale? La materia testuale occorre anche al poeta per elaborare il suo procedimento e la sua volontà formale, perché l’elaborazione teorica di un’opera si costruisce nel farsi dell’opera stessa e così partecipa all’invenzione degli strumenti tecnici costruendoli. Le condizioni storiche e culturali determinano, almeno in parte, l’insieme delle scelte possibili, e non possono non farlo rimanendo l’arte poetica (e quella critica) nelle pratiche umane e trovandosi legata dalla materia linguistica, carica di storia e di ideologia – lo sappiamo. È fra le necessità della storia costruire una cultura che rompa i legami col predeterminato, sia questo costruirsi una cultura o porsi da antagonista con essa.

A: Non so se tra le lettere la sua necessità mi apparve, o la possibilità di sviluppi ignoti: quindi chiameremo la storia una potenza da realizzare? Se sì, noi non possiamo che porci come umili traghettatori la cui imbarcazione si sfascia nell’uso per la fragilità del materiale, e le cui parti sfasciate dobbiamo rinnovare nel durante: e ciò, dopotutto, non mi sembra così dissimile da quanto sarebbe chiamato il poeta a fare – semplicemente è diverso il fiume che gli tocca attraversare, perché diversa è l’interazione. Ma ecco che una nota si impone: perché ieri di canne, oggi di legno, di resina domani, una canoa ancora guidata con la pagaia non chiameremo più tale? Perché ha cambiato ancora una volta tutti i suoi pezzi non diremo più che la nave di Teseo è del suo padrone? L’uso – o, perché no, la funzione – mi sembra il solo che in questa chiave possa dettar legge su ogni possibilità di legittimare.

 

 

FRANCESCO IANNONE

Silenzio celeste

 

Hai la vita, dice Antonio, ed ha sette anni. Perché non sei mai contento di niente? O Giuseppe che di anni ne ha quattro e da grande vuole fare il maestro elementare perché le deve salvare tutte le persone tristi. Io così dico che devono essere i poeti.

Solo i bambini e i poeti abitano allegramente le celle, o i vecchi quando sono finalmente dementi. Parola-cella, quindi parola-pertugio dentro cui il detenuto rigetta in cerchi il vapore dei polmoni e oltre il muro un’altra bocca pronta a raccoglierne l’alone nero. Così una volta ci insegnò Genet. Parola-bava che congiunge i vuoti facendoli tremare insieme alla solitudine del filo.

Mi vengono in mente le storie. Le fate sognate di notte, la tragica impiccagione del burattino cattivo e insolente. I due assassini che gli cavano le monete dalla bocca, il berretto di mollica che gli adombra la vista. Sono spaventose le fiabe. Più spaventose sono le vite sedate dal tepore della cenere. Stordite dalle sberle delle chiacchiere.

Percio siate gente del sì, siate i pazzi che ribaltano le ore con un grido e fanno del tempo uno zero mai iniziato. Siate i protesi con le biglie in gola, allevatori di disastri e non custodi del torpore. Siate gli avvezzi alle pozzanghere, gli inclini alle bizzarrie adolescenti. Siate gli innamorati del singolo preso nel morso delle folle. E siate pure le folle quando cantano gaie nelle piazze.
Mi direi così. Me lo direi immergendo la testa nell’acqua per ricordare ancora il fragore della nascita, il muggito gigante del mondobue.

Ma ho dimenticato tutto. Come quei sopravvissuti che non ricordano più niente. Dopo l’assedio, il silenzio della polvere. La veglia degli uccelli. Gli uomini dietro le porte chiuse. Le proteste mute del sangue che preme le arterie. Per andare verso dove?

Ringrazio allora per la pazienza della cova. Per le natiche abbandonate sul fieno della memoria. Per la crepa dilatata dal sibilo di una parola. Per la parola.

*

Frasi (da Parole del tempo)

Dopo la tormenta ora
balena il silenzio celeste.
Le mute frasi s’involano
in una piaga di amore
verso un confine statuario.
L’ultima delle mie ultime parole
giace attaccata alla penna
e segna uno spazio senza confine.

In quale nodo d’amore?

Lorenzo Calogero

 

 

 

GIOVANNA FRENE

L’attrazione della cornice (un omaggio a Baltrušaitis)

 

benché apparentemente discordi, le due leggi centrali della scultura romanica concorrono

parimenti con il loro horror vacui e con l’attrazione per i margini geometrici alla messa

in atto del regime delle forme elementari della struttura, sia su vasta scala che su scala

locale, come si vede in un dettagliato capitello del corridoio centrale del Tribunale dell’Aja, scolpito

nel 2005 da un anonimo maestro della Sezione Italiana del Comitato Internazionale per la Difesa di

[Slobodan

Milošević (d’ora in poi ICDSM Italia), che rappresenta in maniera allegorica il pensiero dello statista

serbo, il quale riteneva essere fondamentale per un politico mantenere l’unità del suo

Stato in modo appunto che nessuna avversità lo potesse spezzare, un po’ come quella palma che

laddove è più pressata da un grave peso resiste incurvandosi ad arco, e dunque il puer

arrampicandosi saldo otterrà poi buoni risultati senza abusi di potere, o pesi superflui

esorbitanti, e infatti mentre Slobodan aveva affermato in aula che ciò non rappresentava

un’aspirazione a un peso maggiore ma solo il giusto premio alla scalata, aveva le orbite

vuote, gli occhi proprio fuori delle orbite vuote, a cerchio, proprio

attratti dalla cornice della fossa, o dall’orrore, vacui

 

 

Descrizione. Esistono due diverse riproduzioni del capitello del corridoio centrale del

Tribunale dell’Aja. La prima è una versione disegnata a mano durante i giorni del processo

del leader serbo e poi utilizzata per realizzare una xilografia con fregio (Figura A); il fantasioso

artista ha spinto all’estremo la rappresentazione allegorica del capitello a forma di ciuffo di

palmizio oppresso e piegato dal peso di un grande tronco reciso, estendendo tale forma

anche alla rappresentazione della colonna, che in tal modo diventa il fusto della palma

medesima. Solo in seguito, un fotografo originario di Srebreniza in gita ricordo al Tribunale

dell’Aja ha fotografato il lato nascosto del capitello (Figura B), che sembra rispondere più

da vicino all’estetica del non-finito, perché il suo messaggio allegorico non è del tutto chiaro.

 

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[Giovanna Frene, nel mese dei februa 2020]

 

 

 

 

CARLO SELAN

Appunti per una scrittura in nota

 

Un ringraziamento a B. per un parlare

  

« Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. »

Si potrebbe partire da qui, da un termine che è glossatori, per delineare un perimetro, alcuni momenti di un percorso che abbia in sé l’esigenza di confrontarsi su possibili significati del concetto di ritorno in letteratura, su un atto di scrittura che sappia farsi e dirsi solamente laddove è situato in nota ad ulteriori testi, ereditando ma al tempo stesso modificando, comprendendo e facendosi comprendere nel comporre di altri. Mi è necessario, per cominciare, riportare qui una mia poesia facente parte di una piccola selezione di materiali usciti qualche mese fa su Nazione Indiana. Che non lo si prenda per narcisismo; l’intento sarebbe piuttosto quello di dare spunti teorici riguardo a un modesto tentativo di poetica messo in atto.

«Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,

vorrei perdonargli di morire, cosa fare.

A sapere bene forse potrei dire:

anche per noi una visione intera

con uno specchio sopra, con un cielo.

Mi tengo al suo sguardo perduto

così particolare, così solo,

senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

[…]»*

*Poi se ti sembra ti spiego e si parla poco

perché distrarsi e dire o riprendersi e guardare

«sto guidando, chiamalo tu», chiama mio padre.

Non si ricorda, siamo nati noi e non si ha memoria,

questa cosa che sembra, come dire, tu mi racconti

tuo nonno teneva sempre la radio aperta in casa

a Olomouc. Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?

Qualcosa perdi e poi dici, si spiega e si lascia in fianco una vita,

ricordo sembravi con i capelli tagliati un po’corti di lato eri quasi

sembravi mostrando un sorriso.

Come si può osservare, il componimento è strutturato graficamente e visivamente in modo tale da far dialogare due parti testuali differenti: una formata da stralci di poesie di Mario Benedetti contenute in Umana gloria[1] (i versi in carattere più ampio al centro della pagina), l’altra costituita da materiali scritti da me (inserita come in nota ai versi di Benedetti). Ragionare sul perché della scelta di un autore (Benedetti) piuttosto che un altro non è ora importante ai fini del discorso (anche se in conclusione di intervento si accennerà anche a questo). Vorrei invece provare a soffermarmi sul senso di un gesto e di un movimento di scrittura.

L’autore latino Aulo Gellio, nel XVIII libro delle Notti attiche, riferisce di essere stato spettatore di una conversazione tra un grammatico e un uomo colto riguardo alla corretto significato con cui è usata la parola insecenda all’interno dell’orazione di Marco Catone Su Tolomeo contro Termo. In conclusione del dialogo Aulo Gellio, provando a dire un suo parere riguardo alla questione, cita un presunto manoscritto di Patrasso (non conservatosi e dunque a noi contemporanei inaccessibile) nel quale sarebbe stata presente la stesura più antica dell’Odusia di Livio Andronico, una traduzione (anche se, come si noterà poco più avanti, forse il termine maggiormente adatto è riscrittura) dell’Odissea omerica. Gellio riporta il primo verso dell’opera di Andronico così come esso doveva presentarsi nel manoscritto:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Se lo si analizza nel dettaglio e lo si confronta con il corrispondente cominciamento in greco della narrazione omerica si possono notare delle fondamentali differenze:

Virum mihi, Camena, insece versutum (Livio Andronico)

Andra moi ennepe, Mousa, polutropon (Omero)

A livello metrico, l’esametro omerico è reso da Andronico con un verso saturnio. La scelta dell’autore è dettata dal fatto che l’esametro nel contesto greco è anzitutto il verso della scrittura oracolare, così come lo è il saturnio in ambito latino; egli sceglie di compiere una traslazione metrica tra la versione originale e la sua traduzione non basata sull’identico, ma sul voler trovare il modo più adatto per fondare il concetto di epos in un contesto culturale altro rispetto a quello di partenza. Sul piano semantico, invece, si può notare un caso in particolare: il termine «Musa», divinità ispiratrice del canto in ambito greco, viene reso da Andronico con il termine «Camena»,  divinità latina che in questo contesto sembra divenire a sua volta colei che suggerisce il verso al poeta (notare come la parola è corradicale di carmen). Dunque, si è nuovamente di fronte a un tentativo di adattamento culturale. Pure guardando agli aspetti stilistici sono riscontrabili alcune questioni interessanti. Ad esempio, l’allitterazione e l’omoteleuto a cornice tra il termine virum e il termine versutum che mettono in relazione la prima e l’ultima parola del saturnio (valorizzando il termine centrale che, per l’appunto, nella versione latina è la parola che rappresenta la divinità). Il verso latino sembra voler mirare a ricreare in maniera autonoma una solennità e una compostezza stilistica già presente nel suo corrispettivo greco. In tal modo, dunque, sembra nascere l’epos (e con esso un’intera letteratura) in ambito latino, direttamente come poesia dotta e consapevole di un modello di provenienza, come traduzione che diventa riscrittura, atto vivo e creativo. Nell’Odusia di Livio Andronico pare non esserci solo l’intento di rendere comprensibile una materia a un nuovo pubblico di lettori, ma anche il tentativo di riscrivere il testo affermandolo a partire dai modi e dai valori di una cultura altra. Non c’è atto di traduzione passivo, c’è un momento di creazione attivo, di appropriazione e superamento del patrimonio greco. Un comporre che non nasce originale, che è novità in quanto si mostra capace di contenere il noto ricevendolo e rifondandolo.

È utile, a questo punto, prendere in considerazione il saggio di T. S. Eliot Tradizione e talento individuale (la versione italiana si può trovare all’interno del volume di interventi critici Il bosco sacro[2]) in quanto fornisce alcuni spunti importanti per ragionare sull’operazione di Livio Andronico appena osservata. Egli scrive che:

Nessun poeta, nessun artista di nessuna arte, isolatamente preso, ha in sé tutto il proprio senso. […] Non possiamo giudicarlo isolato, dobbiamo collocarlo, per paragone o confronto, tra i morti, ed io considero ciò come principio di una critica estetica, non solamente storica. La necessità che egli si conformi, che egli s’accordi non è unilaterale: ciò che avviene quando è creata una nuova opera d’arte è qualche cosa che avviene in tutte le opere d’arte che la precedono. […] L’ordine esistente è completo prima che arrivi una nuova opera; perché l’ordine resista dopo il sopravvenire della novità, l’intero ordine esistente deve essere, sia pur di poco, mutato; e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di ciascuna opera d’arte rispetto all’altra vengono ordinati di nuovo: e questo è l’accordo tra il vecchio e il nuovo. Chiunque abbia approvato questa idea dell’ordine, della forma della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurdo che il passato sia rinnovato nel presente, come il presente è sostenuto dal passato.[3]

L’opera nuova, secondo Eliot, può dirsi tale laddove si mostra capace di modificare una letteratura del passato inserendosi in una tradizione. Essa è necessaria nel momento in cui riesce a essere parte di un percorso tramandato modificandolo, portando in esso una rilettura. Riprendendo il caso di Livio Andronico, risulta evidente come a monte di un suo scrivere ci sia stato l’aver scoperto una ricchezza del testo di provenienza; proprio nell’atto del produrre un’opera nuova, anzi, egli è riuscito a gettare nuova luce e a illuminare il testo del passato, mostrandolo secondo una prospettiva diversa. Il concetto di tradizione, allora, diventa corpo mobile e vivo incarnato nell’oggetto letterario che irrompe in esso rinnovandolo.

Hans Robert Jauss, nel suo saggio La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici contenuto nel volume miscellaneo Teoria della ricezione[4], scrive che le radici più antiche di un’effettiva teoria della ricezione possono essere individuate nei primi tentativi ermeneutici aventi come oggetto gli scritti di Omero e la Bibbia. Un reale problema su questi testi, infatti, comincia a porsi nel momento in cui la distanza temporale tra l’epoca dei lettori rispetto al momento di scrittura degli originali diventa eccessiva, rendendo la parola poetica di Omero e quella rivelata della Bibbia qualcosa di non più comprensibile immediatamente ma, anzi, qualcosa portatore di un significato oscuro o scandaloso, difficile per il presente. Come poter agire laddove un libro che è autorità (religiosa, letteraria, morale) si trova ad aver perso l’immediatezza del discorso vivente che possedeva nel contesto culturale orale delle proprie origini? Non è un caso, allora, che proprio il concetto di receptio venga utilizzato per la prima volta all’interno della teologia scolastica. Tommaso d’Aquino concilia l’affermazione della Bibbia di parlare secondo dicentem deum con la condizione di limitatezza dell’uomo finito, che non permette di cogliere pienamente la verità della rivelazione; nonostante questo, però, il teologo scolastico sostiene che le scienze teoretiche potrebbero effettivamente riuscire a giungere gradualmente dall’imperfetto al perfetto, sicché le generazioni successive sarebbero in grado di riconoscere qualcosa di vero anche negli errori di coloro che li hanno preceduti. Il testo della Bibbia, dunque, si svelerebbe gradualmente nella sua sostanza soltanto in un tornare costante ad esso attraverso il commento e la glossa, in un processo di ricezione che, fino al suo compimento nell’ultimo lettore, sarebbe da ritenersi previsto ed ispirato dalla sapienza divina. Per condurre questo discorso in un contesto che sia altro dal testo sacro, mi sembra utile riportare una citazione di Maria di Francia (a quanto pare costruita su un’affermazione di Prisciano) che sempre Jauss trascrive nel saggio:

«Gli antichi già sapevano che quelli che li avrebbero seguiti sarebbero stati più saggi, dal momento che essi (i successori) possono glossare la lettera del testo e arricchirne il senso.»[5]

Mi interessa ora rendere una particolare sfumatura che può darsi in un commentare e glossare un testo con fare ermeneutico, interpretativo. George Steiner, nel volume Vere presenze[6], sottolinea come siano tre i possibili sensi principali che si possono attribuire ad un movimento ermeneutico inteso come interpretazione: la decifrazione e comunicazione di significati; la traduzione di culture e convenzioni di rappresentazione; la messa in atto del materiale che si ha davanti per tornare a dare ad esso vita intellegibile. È importante, però, quanto egli scrive subito dopo:

«Per quanto riguarda la lingua […] l’interpretazione attiva e creativa può anche essere interiore. Il lettore o ascoltatore individuale può diventare l’esecutore del significato che sente o prova quando impara a memoria una poesia o un brano musicale […]. Mentre noi cambiamo, cambia anche il contesto che dà forma al poema […]. A sua volta, la memoria si trasforma in riconoscimento e riscoperta.»[7]

Ecco, dunque, che se si guarda all’azione del fare commento e glossatura di un testo come a un momento interpretativo attivo e creativo (lo è ancora di più laddove ci si pone in nota proprio con del materiale in versi, facendo dialogare due testi primari), si può cominciare a parlare di questo gesto assegnandoli dei modi e dei toni che siano anche personali, che siano la possibilità di ogni lettore di poter recepire e significare una scrittura di altri a partire da una propria esperienza, attraverso un proprio fare memoria che sia un costante tornare a uno scrivere altrui rievocandolo e portandolo a sé. Succederà, allora, una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza.

Occorre però domandarsi che cosa possa significare un atto di scrittura che non sia un movimento del tornare su un testo altro (e di altri) in chiave di una riscrittura (esempio estremo e ipotetico di un’operazione letteraria simile potrebbe essere il celebre racconto Pierre Menard, autore del «Chisciotte» di J. L. Borges) ma nelle modalità, invece, di un porsi in nota. Dove può essere individuata una sostanziale differenza tra i due gesti? Se si guarda visivamente la poesia situata all’inizio di questo intervento, si può osservare come in posizione preminente appaia non soltanto la parte dei versi di Benedetti ma anche l’esplicitazione formale del collegamento logico tra la scrittura di Benedetti e il materiale testuale posto a commento. In altre parole, in primo piano per il lettore non c’è tanto (o soltanto) il testo, ma lo stesso mettere in nota come pura struttura logica e interpretativa. La poesia diventa possibilità di riflessione sul che cosa significa una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza. Come nel verso «Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?» l’osservato non è il contenuto del parlare e ciò che si sta dicendo ma il dire di per sé stesso, il gesto del dire da intendersi come il gesto del guardare, così in una strutturazione in nota preminente diventa l’atto del porsi in nota rendendo dipendenti tra loro due materiali testuali.

Per comprendere meglio quanto ho appena scritto, credo sia importante ragionare su un saggio di Erving Goffman dal titolo Frame Anlysis. L’organizzazione dell’esperienza[8]. Termine chiave in questo libro è il concetto di frame (traducibile come struttura interpretativa) da intendersi alla stregua di un’inquadratura mai neutra attraverso cui abitudinariamente le persone significano e rendono portatrici di senso le esperienze che gli accadono. In Frame Anlysis si cerca di lavorare (attraverso varie tipologie di classificazione) non su che cosa si trovi al centro di un’inquadratura, ma sull’atto dell’inquadrare stesso e su come questo modifichi poi la percezione e il significato dell’oggetto guardato.

Riporto qui una sezione di un’intervista di Claudia Crocco a Mario Benedetti contenuta nel libro Materiali di un’identità[9]:

Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.

Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.[10]

In questo breve brano, come in generale nei testi di Benedetti, si mostra costante l’attenzione dell’autore verso l’atto del guardare, verso un dire del guardare quale unica modalità di esprimersi possibile. Nei versi di Benedetti gli oggetti e le cose sembrano non poter esistere di per sé stesse o se non altro appaiono come non conoscibili, come solamente guardabili e dunque soggette a un filtro, interpretate. Uno scrivere conseguente a un guardare che non sa mai formulare la sostanza delle cose (ammesso che essa ci sia) ma può solo parlare di sé stesso. In questo è il senso di una precarietà che non riesce (anche se vorrebbe) a contemplare «le parole che nominano». Nel frammento di intervista riportato c’è tutto un gesto del ritornare che nella scrittura di Benedetti avviene su diversi piani: un tornare reale e fisico indirizzato verso un paesaggio friulano («che era tutto per me allora») profondamente cambiato sia materialmente che sociologicamente a causa del terremoto; un tornare che è un riflettere nuovamente su luoghi, cose ed esperienze con prospettive e strumenti diversi e mutati dall’aver assimilato e studiato un pensare di altri («Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate […] ma rimodulate da scienziati e da poeti»); un tornare che in qualche modo si fa accettazione di una precarietà e di un fallimento, che non è capace di ridare un ricordato e di raggiungerlo ma può solo constatare un’impossibilità, un doversi ripiegare a osservare sé stesso.

«Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti di farsi alleati ad una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…»

Concludo chiedendo allora quanto si possa ancora domandare al canto di nominare, interrogandomi su quale rapporto possa esserci tra le parole e la possibilità di affermare la presenza e l’esistenza delle cose di per sé stesse, al di là del loro essere guardate e ricordate. Cosa può dire la scrittura se non un tornare a riflettere su quello stesso gesto del guardare che sembra rimanere il poco che ancora si può tematizzare con convinzione in versi? Resta il senso di un comporre che sappia mettersi in nota, che accetti il proprio essere luogo di un’esperienza con un reale che non si riesce a conoscere ma che si può solo guardare e interpretare attraverso pensati e strutture che sono ereditate, che ci derivano dall’avere cultura e non solo, dal leggere e dall’aver assimilato il ragionare di altri. Qui uno dei possibili significati di uno scrivere glossando, di quel personale e non finito mettersi in commento che implica un costante tornare, un considerare qualsiasi testo come mai esaurito nel suo significato e nel suo poter dire di un vivere nostro e di un nostro stare. Qui, forse, una possibile alternativa alla parola che si ritiene capace di nominare le cose, di fondarle o conoscerle. Qui, il gesto umile di farsi voce seconda, annotazione sussurrata al dire altrui.

[1] Mario Benedetti, Umana gloria, Mondadori 2004

[2] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971

[3] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971, p. 94 – 95.

[4] Robert C. Holub (a cura di), Teoria della ricezione, Einaudi 1989

[5] Hans Robert Jauss, La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici, in Teoria della ricezione, Robert C. Holub (a cura di), Einaudi 1989, p. 7

[6] George Steiner, Vere presenze, Garzanti 2014

[7] Ivi, p. 21

[8] Erving Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore 2013

[9] Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa 2010

[10] Ivi, pp. 56 – 57

 

 

MARCO GIOVENALE

The working dead

 

 

Forse non parrà dissennato dire che è l’inchiostro stesso che s’è felicemente1 chinato a spiccare di netto, tutt’uno con gli artigli dell’espressionismo, la propria radice melica ed eolica, e la corda, pure, ha tagliato, resecato, o la coda vizza, o insomma – massime in chiusa di Novecento – si è assai speso per l’idea stessa di una improbabilità e improponibilità di sé medesimo in certe forme.

[Tuttavia, e ovviamente, e certo, gli utenti dell’inchiostro d’antan(i) hanno continuato a comprare grappoli di Moleskine, in qualche modo dovevano riempirli, e quindi non gli han dato retta, al siglo de plomo, i miserrimi].

Gli a-capo (signum sacerrimo, acerrimo nemico della prosa, invito al picco di senso continuato, all’orgasmo multiplo, alla dromomania altrimenti celebrata col sur-sacerrimo nome di poesia) si sono spacchettati e scompattati e si sono 1felicemente e fortunatamente sparsi, scattered all around, nello stesso sgretolarsi disfarsi della pagina larga: da schermo o libro il discorso passa, è passato, a tablet, poi a cellulare orizzontale, infine verticale. A quel punto avrebbero dovuto capirlo tutti.

Dove starebbe l’a-capo, di grazia? E il ritmo, disgrazia? Da nessuna parte. Ma vàglielo a mimare, se a parole non funziona. No way.

La stele – sventurati lettori – ricrea agli occhi loro / ha ricreato il poetico, l’apparenza, ricreazione e riaggomitolazione del Moi lacaniano, da palco: manda a fare un enjambement – random – ora questo ora quel punto del discorso, che altrimenti si darebbe, io credo, sempre meglio anarchico, depensato, prorsus, à bout de souffle in linea diritta (che è certe volte perfino una dirittura) (della stortura, naturalmente).

L’inchiostro continua a fare il suo corso? Ricorso? Quale? A recitare la poesia? A buttare a mucchio e imburrare coperte su coperte du roman? E fa le mossette al microfono? Spettacolino, e morale, alza l’audio? Certamente. Certamina se ne gaiamente generano.

Allora questo, questi, sono i produttori, i superconduttori, che rete e banco di libri governano. I morti lavorano fino a sfiancarsi, per governare.

 

 

 

MATTIA TARANTINO

da Fiori Estinti, (Terra d’ulivi, 2019)

 

Il bambino

 

Il sangue urta il sangue, e il bambino

è già messaggero da altre

terre, altri verbi: è già nell’angelo.

 

Ho pronunciato la parola che fonda

i fiori, ho convertito

gli uccelli che annunciano l’inverno:

 

c’è qualcosa nel mio nome

che lo strazia e maledice.

 

*

 

La terra del verme

 

Allora donatemi

il cerchio e la croce. Non temete

questa parola che nasce

in altri mondi, dove nerissimi

gigli affliggono e azzannano.

 

Amate anche il canto

finale del passero; le astuzie

che nutrono i morti. Altrove

è la terra del verme, ma solo

al di qua può regnare col cuore.

 

Prima che carne nient’altro

che carne nutrì il fiore ossuto.

Prima che acqua nient’altro

che acqua devastò la mancanza

di forma: tutta loro è la colpa.

 

Ecco, amate

ostinati la grazia, le impervie

vie della sorte e mai, mai

la sciagura dello stare.

 

*

L’uccello

 

Ecco, arriva quest’uccello

che nella voce ha il fuoco d’ogni terra

promessa, che crolla

al segno fatto soglia e sangue.

 

Nel tuo sangue sta il vento che profana

e poi rovescia: a quale eco

tornerai nel nome? in quale

veglia sbranerò la luna?

 

Offrimi dell’acqua e sia nell’acqua

questa parola che fummo. Traccia

e poi colloca la sorte

 

di tutti i fiori mai donati

 

 

 

CARLO RAGLIANI

 

Il senso implicito della domanda sembra collegare naturalmente, così come avviene ne Il Cratilo platonico, il nome alle cose. Ma è sensato dare testimonianza scritta della quotidianità?

Di fatto non può essere razionale staccare la società e la sua civilizzazione dalla natura delle cose scritte, e del resto non c’è motivo di dividere la ragione della civiltà e la sua evoluzione dalla scrittura. Come del resto non ci sono ragioni per non pensare alla poesia come forma di espressione apicale della cultura di un popolo.

Rispondere a questo questionario costringe a riflettere sulla restrizione e sulla condensazione della parola, alla contrattura ed allo svuotamento del linguaggio; e va da sé che in un periodo in cui ci si pone pressocché sempre il traguardo di ridimensionare il concetto e la figura, rispettivamente, di poesia e poeta, in fondo non si arrivi a poter definire davvero il punto da cui partire.

Supponendo che si possa indicare un esordio, il quesito si può svolgere in maniera più cinica, rielaborandolo in questo modo: È ancora necessario l’essere umano nella definizione della realtà?”

Se la risposta fosse affermativa, l’essere umano risponderebbe alla logica antropocentrica tipica del pensiero occidentale, la quale – e mi legittima la traccia ad indicare il precedente storico, e l’eredità di ciò che è la nostra storia – ci è dato rintracciare un inizio nella Genesi biblica, o meglio quando Adamo è stato chiamato a dare un nome alle cose. Questo conferma una tale teoria del linguaggio, in quanto Dio – dopo aver creato la luce solamente pronunciandone il nome (Genesi 1,3) – sollecita l’uomo affinché nomini, dia nome agli animali ed alle cose contenuti nell’Eden.

In questo modo secondo il racconto biblico l’uomo viene a conoscenza delle cose, e una volta conosciute, dà loro un nome. E questo sottolinea ancor più la differenza tra l’uomo-soggetto e le cose-oggetti, e che la realtà delle cose di fronte alla soggettività umana è strumentale.

Ma se così fosse, altro non ci spetta che accogliere come vero la totale dispersione e lo svuotamento chenotico della divinità; o meglio: dall’evento che coincide con il “b’reshit” ebraico alla morte sulla croce di Cristo, la parola ha solo potuto definire una realtà già vuota del soffio divino.

Vale la pena ricordare che tale fosse il comandamento di Dio a Adamo ed Eva: “Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”. (Genesi 2:16-17)

Dopo la cacciata dall’Eden, la parola perimetra ciò che è già morto.

Ed è l’inclinazione naturale alla morte della realtà è ciò che spinge a lasciare una testimonianza; un documento – in primis a sé stessi, e successivamente al terzo – di essere stati vivi. Che non tutto è stato inutile, non tutto è stato vano.

“Scrivere, proprio perché è lo strumento adatto alla lontananza, è l’ultima possibilità”, direbbe Quinzio; oppure scrivere perché è l’ultima cosa che si può fare, nonostante tutto. Scrivere nonostante gli uomini siano irreparabilmente separati dalla vita, e l’abisso incolmabile non possa che tradursi in sangue.

Scrivere nonostante l’impoverimento senza fine della parola, la quale non può che seguire di pari passo la miserabile natura del mondo, nonostante entrambe siano la testimonianza indelebile dell’impotenza del dire, e quanto testimonia la gloria ormai spoglia di ogni creazione.

Questo potrebbe essere il sistema su cui si muove il verso, che come una veste troverà ordito nella natura delle cose tutte – nel senso di globalità univoca in cui siano compenetrate umanità e realtà inumana – e trama nella necessità biologica di dover fondare, dover rivendicare, dover costituire e delimitare ciò che possiamo ritenere come intramontabile, ineliminabile, incorruttibile.

Perché il sottrarre un istante dallo scorrere interminabile del tempo, lo sottrae anche all’oblio che, seppur inevitabile, tutto attende e divora. Il “tempus edax rerum” ovidiano in fondo è Saturno che ingoia i suoi figli, e la poesia può essere la via per cui si possa salvare ogni brandello di ogni vita, per poi preservarlo nonostante ogni delusione.

In questo l’impulso della poesia può giustamente essere trovato nell’affaccendamento (come dice Cornelio in traccia) della quotidianità, e quindi si incardina come risposta biologica di segno contrario alle spinte del contesto storico imperante. Ed il poeta risponde alla necessità universale di formare le coscienze attorno ai concetti che è portato a far emergere: per questo mi sento di paragonare la parola ad un esercizio di ascesi non tanto come moto a, ma più coincidente in un via da.

Divenire uno psicopompo, più o meno consapevolmente, per guidare il lettore – perché, per quanto abbia senso parlare di poesia senza lettore, non può esistere una parola che nessuno debba leggere – in fondo è la ragione per cui si scrive in senso generale. E la celebrazione del rituale è la ragione della poesia, se non anche la poesia stessa; così trovano il loro posto l’ostia, la lama, il sangue, il sacerdote e, soprattutto, la parola per cui si può evocare sull’altare della più antica primitività. La poesia potrebbe essere il tentativo più coraggioso di poter sciogliere il “mysterium tremendum et fascinans” di cui ogni cosa è pervasa in ogni atomo.

Si parla di eredità quando ci si riferisce ad un erede, ossia chi accetta tacitamente o esplicitamente il patrimonio lasciato da chi gli è mancato; se questo è vero, se è vero che noi discendiamo dai progenitori edenici, non possiamo che testimoniare la finitezza della realtà – la sua compiuta imperfezione. E le cose imperfette devono imparare a completare la propria incompiutezza.

Il lascito, ovvero la ricchezza inesauribile che viene trasmessa e che a mio avviso trova legittimità solo quando ha modo di arricchirsi ed aumentare, non può che essere accolto con responsabilità, se non anche diniego del sé.

Nell’atto di tradurre questo in un “perché” ed in un “come” scrivere, il poeta immerge le mani nel sangue dell’umanità – che qualunque cosa essa sia, non può che ispirare più di ogni altra cosa – e ne traspone in versi le conseguenze inevitabili del farlo.

 

 

MARILINA CIACO

 

Se penso alla parola «legittimità» e provo anche solo per un istante ad avvicinarla all’atto della scrittura – quel conato del tutto arbitrario a macchiare il foglio o, più realisticamente, a pigiare un tasto – quello che ne scaturisce è un rigetto irreversibile, il moto uniformemente accelerato che allontana il primo termine dal secondo e che, posizione dopo posizione, stenta a cristallizzarsi in uno stato di quiete. La scrittura è illegittima, e anzi vive della propria illegittimità, di questa immanenza radicale che prolifera nel vuoto di significato del mondo che la ospita – essa significa soltanto ciò che è, libera dalla coercizione all’utile e dall’ordine categoriale caro alla logica aristotelica (ma non solo).

Gioisce della propria tautologia, celebra una liberazione che sempre è in atto e sempre è sul punto di negarsi. D’altro canto, qualsiasi scrittura che si voglia necessaria e consapevole sarà giocoforza radicata in quel mondo che pure si ostina a sovvertire, a capovolgere, a disordinare. Non le sono aliene l’etica, la politica, la religione o la morte degli dei, i grandi interrogativi dell’esistere, eppure essa si nutre per lo più di oggetti desueti e involucri vuoti, indossa lenti sfocate per inoltrarsi nei territori meno abitati, non più fertili o non ancora coltivati poiché inospitali. È la scrittura nella propria illegittimità consustanziale ad essere sempre estranea, sempre straniera. Raccoglie l’exuvia del mondo e vi si annida. Questa è la sua libertà.

Nonostante lunghi decenni (ormai secoli!) di ritrattazioni e contro-dimostrazioni volte a dissuaderci dall’idea di un presunto potere taumaturgico della scrittura – di quella poetica in particolar modo –, oggi più di qualcuno sembra non aver (ancora) accettato che scrivere non serve a nulla. Non ci guarirà, non ci renderà persone migliori, non ci indicherà la via della salvezza. Non serve. Se qualcosa potrà mai indicarci, quel qualcosa prenderà corpo soltanto nella materialità e nella gratuità della scrittura stessa. L’essere-etica della scrittura arriva così a coincidere con il suo non volerlo essere, non voler essere nulla al di fuori di se stessa. Questo corpo che è inchiostro, pixel, o soltanto scarabocchio o squarcio, sembra dirci, continuamente e senza ragione: c’è qualcosa, c’è ancora qualcosa, «tu» esisti.

 

 

 

SERGIO ROTINO

 

«Lasciava cadere il cerino sulle parole di carta […]»

 

 

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2 Commenti

  1. Mi chiedo se ci sia un nesso fra capacità poetica e qualità umana, genialità espressiva e intrinseca moralità del sentire. Istintivamente penso che debba essere così, perlomeno nei gradi estremi. Non credo che Dante potesse essere un pusillanime né Leopardi uno squallido bugiardo o un perverso manipolatore. In verità quelli che ho conosciuto di persona, si sono rivelati spesso delle nullità sul piano umano. Ma non erano che poeti minori, mille leghe più in basso dell’incestuoso Poe o del malavitoso Villon, si trattava di tipi più ambiziosi che sensibili, dall’esibizionismo narcisista, il verbo ipocrita; forse anche per questo non riusciranno mai a sfoderare la parola che pietrifica come uno specchio. In fondo la poesia non può ridursi a una tecnica o a una posa: mette in gioco l’intera personalità dell’autore e le sue contraddizioni. Magari mi sbaglio e in realtà ogni testo è solo un intaglio infinitesimale nella materia sterminata dell’anima. In ogni caso restituirei all’Editore l’opera di cento geni in cambio della vita di un solo uomo giusto.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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