Le città e il desiderio: Daniel Guebel tra utopia e storia
di Luigi Marfè
In uno dei suoi racconti più fulminanti, Del rigor en la ciencia (Del rigore nella scienza, 1946), Jorge Luis Borges immagina un impero i cui cartografi si propongono di disegnare la mappa più minuziosa che il mondo abbia visto. Ma ogni volta, al cospetto di quel collegio di saggi, qualunque tavola topografica risulta manchevole e inesatta, tanto da richiederne un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non ne è realizzata una in scala 1:1, che, una volta srotolata, sovrappone la sua perfezione al mondo, rischiando di soffocarlo, rendendo impossibile ogni consultazione e finendo abbandonata nei deserti dell’Ovest.
Ne La Infección vanguardista (L’uomo che inventava le città, 2012), Daniel Guebel, scrittore, sceneggiatore e giornalista argentino, sembra ripensare all’apologo borgesiano, riflettendo sul desiderio impossibile, ma nondimeno umano, di arginare la complessità del reale attraverso un modello che lo renda comprensibile, e che tuttavia, inesorabilmente, alla resa dei conti, si rivela imperfetto, destinato allo scacco.
A partire dall’esordio, nel 1987, con Arnulfo o los infortunios de un príncipe (Arnulfo o le sventure di un principe), Guebel ha pubblicato una ventina di volumi, alcuni dei quali, come i recenti El absoluto (L’assoluto, 2016) ed El hijo judío (Il figlio giudeo, 2018), hanno ottenuto premi prestigiosi. Tratto distintivo della sua scrittura è la tendenza ostinata a un realismo che tiene aperta la porta del fantastico, dando ai suoi personaggi la forma di ipotesi mentali e lasciandoli come sospesi, in bilico, sulla soglia dove verità e finzione si confondono, per mostrare al lettore che tutto ciò che sa del mondo potrebbe essere un sogno.
Rafael Zarlanga, il protagonista di questo racconto, è un artista argentino, che negli anni sessanta viene contattato da Juan Domingo Perón, l’ex presidente in esilio, per realizzare una scultura mediante la quale rappresentare gli ideali politici del suo partito e dare un simbolo per la futura riscossa. L’opera immaginata da Zarlanga è una sorta di cono rovesciato, surreale incrocio tra la torre Eiffel, la torre di Pisa e una più familiare salsiccia argentina. A Perón piace così tanto, che il progetto diventa presto decisamente più ambizioso: progettare un’intera metropoli, la “città utopica peronista”.
Fin dal tempo della polis istoriata sullo scudo di Achille, la forma della città ideale è da sempre al centro della fantasia di artisti e scrittori, che di volta in volta ne hanno fatto una metafora dell’io, del libro, dell’intero universo. Come l’isola, luogo ideale dell’utopia, anche lo spazio urbano, entrando nel mondo scritto, si tramuta in uno spazio mentale, in cui è possibile, per lo scrittore, dare forma, nello stesso tempo, a un’organizzazione del territorio, a un modello di interazione sociale, a una mappa della mente umana.
Guebel immagina Zarlanga lavorare per anni a un progetto che, come quello dei cartografi di Borges, finisce per eccedere ogni limite e ampliarsi a dismisura: “a un certo punto, a causa del ritmo di lavoro e dell’accumulo di disegni e modelli, la crescita costante di quanto veniva accantonato fece sì che lo spazio della progettazione si trasformasse in una allegoria del progetto, come se la città utopica peronista avesse abbandonato lo spazio previsto per lei e avesse invaso il luogo dove si ideava il suo progetto”.
Il modello si espande e si ritrae, fin quasi a palpitare, come se fosse – e qui sta l’analogia con l’atto creativo – un organismo vivente. Allora Zarlanga, innamorato della propria opera, decide di andare a vivere al centro di quello stesso respiro, dormendo in mezzo alle sue carte, “forse perché” ormai il suo modello “aveva dimensioni sufficienti, o perché lì dentro si sentiva protetto: un artista cullato dalla sua opera”.
Ma un modello vive sempre in un tempo proprio, diverso da quello del resto del mondo. La storia, alla fine, torna a bussare alla porta dell’inventore, travolgendolo insieme alle sue illusioni. Eppure le condizioni a un certo punto sembrerebbero propizie: nel 1972 Perón torna in patria e Zarlanga si decide infine a mandargli il piano definitivo. Ma, due anni dopo, prima di poter ottenere risposta, il presidente muore e la “città utopica peronista”, come la mappa dell’impero borgesiana, viene dimenticata: la sua unica sopravvivenza ha la forma di un gioco da tavola, che le offre l’esistenza minore di una curiosità bislacca.
Questo racconto di Guebel era uscito in origine in un volume, La carne de Evita (La carne di Evita, 2012), che seguiva il precedente La vida de Perón (La vita di Perón, 2004), a riprova dell’importanza, nell’immaginario dell’autore, di quella pagina della storia recente dell’Argentina. Il peronismo, qui come sempre nelle opere di Guebel, prima ancora che un movimento politico reale, è un mito letterario, che si allontana nella nebbia di storie non verificate, leggende private, aneddoti inattendibili. Come avevano già fatto altri scrittori, da César Aira a Copi, attraverso vicende come quella di Zarlanga, Guebel ne dà una lettura parodica, e così gli toglie ogni possibile aura, ogni senso di nostalgia.
Molte delle storie di Guebel vivono di aneddoti come quelli che riempiono la vita di Zarlanga, così inverosimili che quasi si sarebbe tentati di prenderli sul serio. La sua scrittura si fa beffe dell’ansia di verità dei documentari, secondo la lezione del Woody Allen di Zelig (1983). Zarlanga non esiste, ma ciò che lo rende così credibile è il suo dare sostanza a un atteggiamento mentale: è l’artista puro, sedotto dal potere non con il denaro o con altri favori, ma con l’illusione che la sua arte possa servire a cambiare il mondo.
È questa l’“infezione avanguardista” cui allude il titolo originario del racconto, vale a dire la pretesa di poter riformare il reale attraverso l’arte. Non è un caso che Guebel avvicini la prospettiva dell’artista a quella del rivoluzionario: l’ossessione per la forma perfetta del primo è altrettanto demonica, totalitaria, fallimentare del sogno di società ideale cui l’altro pretende di dare realtà con la sua rivolta.
Alla fine, nella disfatta della sua stessa vita, Zarlanga scopre di aver sempre detestato l’arte del futuro: l’“infezione avanguardista” è la “malattia che aveva reso mutevole il suo stile”, quell’“incorreggibile devianza” che aveva causato il “difetto fondamentale della sua esistenza di artista”, per cui “neanche una delle linee che aveva tracciato corrispondeva a quelle che aveva in mente”.
Forse allora – sembra suggerirci lo sfortunato architetto di Guebel – il valore dell’utopia non sta nella ricerca ossessiva di una forma perfetta, né nell’affidarsi a chi promette, ingannevolmente, di mettere al tappeto il disordine del mondo, ma nella forza visionaria con cui i desideri si mischiano all’istante presente. È la scoperta di un’utopia che ha rinunciato all’infinito futuro per farsi immanente, pulviscolare, circostante: Zarlanga “non cercava di duplicare la realtà in un altro mondo, e nemmeno di sovrapporne uno a quello esistente, ma di scoprire uno spazio insospettato e riempirlo di cose mai fatte prima”.
“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, potremmo dire con le parole di un altro inventore di città, il Marco Polo di Calvino, che al suo imperatore non portò mai mappe in scala 1:1, ma una collezione di visioni inafferrabili, convinto che immaginare “città invisibili” fosse il primo passo per sottrarsi alla pietrificazione delle “città invivibili”.
NdR: questo testo è la postfazione di Luigi Marfé al racconto lungo “L’uomo che inventava le città” (“La infección vanguardista”) di Daniel Guebel, pubblicato recentemente da Amos Edizioni, nella traduzione di Riccardo Ferrazzi e Marino Maglian; qui ne parla anche Stefano Tedeschi sul Manifest, e qui Fofi su Avvenire.