Internauti – day four day five day six (the end?)
di Francesco Forlani & Andrea Inglese
[Forse è finita bene, la quarantena, sani e salvi, e – speriamo! – pagati anche per i giorni di assenza imposti. Un ultimo bollettino sulla nostra condizione mentale, quindi.]
L’assedio
di effeffe
Come Konrad Johnson, l’operaio protagonista del magnifico romanzo di Folke Fridell, che decide senza nessuna mobilitazione sindacale collettiva di non andare a lavorare, ho realizzato anch’io la mia settimana di franchigia. Non ho dovuto nemmeno deciderlo da solo di sospendere il mio vero lavoro – quando rispondi che come lavoro, scrivi, in genere il tuo interlocutore soprassiede prima di tornare all’attacco con la stessa domanda, di realtà aumentata; ma come lavoro vero che fai? Insegnante. Una circolare ministeriale aveva deciso in tal modo e, forse segnato nel fondo dalla mia esperienza di scuola militare, la Nunziatella, ho eseguito soldatescamente ognuna delle consegne, compresa quella di uscire il meno possibile, non vedere persone in condizioni di salute fragile, non prendere i trasporti pubblici e perfino quando facevo la spesa ogni tre giorni utilizzavo le casse automatiche. Ripensando a tutta la settimana che, come ricordava Andrea nel bollettino precedente, è stata tutto tranne che libera, essendosi moltiplicati tutti gli impegni pregressi e progressi, del finto lavoro, quello intellettuale, mi sono ricordato di un elemento fondamentale della storia. Nelle settimane precedenti, infatti, oltre a mettere su, una microturné letteraria di promozione del mio libro, mi sono offerto per il mio cinquantatreesimo compleanno, grazie soprattutto alle mie sorelle Titti, Rosaria, Antonella e fratelli Pio, Geppi, e mio cognato Gigi medico e per finire l’amico di famiglia da sempre, Giustino, medico anch’egli, un Check-up totale, di quelli che ne fai al massimo una decina in tutta la vita. I risultati brillanti, perfino i 240 di colesterolo leggermente inferiore alla media familiare, tutto a parte il diktat del cardiologo, anche lui amico di famiglia, apposto in calce alla sua ricetta: eliminazione fumo. “Tra la perfezione e la perdizione esistono tantissimi altri livelli”, ha sancito filosoficamente verso la fine.
Il ritorno in Francia dunque lo facevo con, analisi nuove, taglio di capelli nuovo, vestito nuovo – il tutto compreso nel pacco regalo dei o miei mecenati- e uno slancio tutto nuovo verso la mia futura umanità. Prima della circolare, a dire il vero, una macchia, quasi presagio di quello che sarebbe accaduto poi, si sarebbe rivelata in quel mare calmo e piatto di tuttonuovo. Uno dei miei studenti, particolarmente timido, e di grande generosità mi aveva intercettato al rientro dalle vacanze di febbraio spiegandomi che di tutta questa storia potevamo davvero non preoccuparci, perché, “Professore, veda, pare che colpisca solo i vecchi.” A quel punto si era sospeso, come immobilizzato da un pensiero non formulato ma pressante, per qualche secondo prima di chiedere, con due piccoli colpi di tosse di tappeto sonoro: professore, scusi ma lei quanti anni ha?” Cinquantatré, ho risposto, aggiungendo, da due settimane. “Merde”, si è lasciato sfuggire, “ma allora lei è più vecchio di mio padre che per me è gia vecchio.”
L’indomani sarebbe stata invece un’altra qualità a determinare la mia settimana di peccato, e che si andava ad aggiungere a quell’altra di vecchio italiano. Onde evitare che alle prime due venisse incontro anche una terza, fancazzista, ho dovuto mettere in piedi un armamentario non da poco per non lasciarmi intrappolare dal senso di colpa di un sano costretto a recitare la parte del malato non immaginario ma immaginabile com’è il caso di quanti vengano messi in quarantena.
Questo stato di sospensione, riportato dalla cronaca al parossismo con l’immagine della nave da crociera Diamond Princess, presa in ostaggio dal virus e da più di un migliaio di passeggeri, ha determinato forse più di tutto il profondo disagio mentale e politico in cui ci siamo trovati. Se poi si pensa al gioco di parole del destino che aggiunge al nome Diamante, quello di Principessa, e a seguire Corona, come non cogliere la corrispondenza con quella di vecchio italiano fancazzista?
A proposito di vecchi vorrei a questo punto stendere un tappeto rosso al direttore Mentana. Durante il suo telegiornale del venerdi’, dopo avere con vero professionismo cronicato i fatti salienti relativi all’epidemia, si è fermato di blocco, un po’ come il mio studente Mohamed. E, quasi chiedendo scusa, ha preso la parola come certi interpreti che nel mezzo di una querelle tra due interlocutori di lingue diverse, decida d’un tratto di dire la sua. Anzi no, l’immagine che m’è venuta in mente è stata quella degli Umarells responsabili, attivi, ovvero di vecchietti in genere pensionati e altamente specializzati in un qualche mestiere del settore edile, che si mettano non soltanto a guardare attraverso le fessure delle barriere dei cantieri in corso, ma che sbottando vi facciano incursione per sottrarre una pala o una carriola a un operaio soltanto per fargli vedere davvero come si fa.
Ecco allora che Mentana, vado a memoria, diceva più o meno che bisogna pur finirla con questa storia del “vecchi” generalmente posposto a quella di pazienti affetti dal virus, deceduti a metà, cioè non veramente falcidiati dal virus, diciamo “aiutati”. Che tali decessi rinviavano a lutti, ad affetti a storie che di colpo venivano ingiustamente banalizzati dal Big Brother un po’ stronzo delle comunicazioni. In diretta si è fatto allora passare da un assistente i dati concreti di quei vecchi inscritti nel registro dei lutti con inchiostro simpatico e quando ci ha rivelato che contemplava, tale catalogo contemporano, dei sessantenni, oltre a settantenni, e a seguire ottantenni, mi è partita una Ola, come immagino nella maggior parte delle famiglie nostro vecchio continente.
Una settimana di studio, ricerche, scritture, di tutte quelle cose che hai un piacere enorme a fare, che ti riescono piuttosto bene, e per le quali non sarai mai pagato, salvo rare, sporadiche eccezioni. Verso le due del mattino di oltredomenica, dopo aver terminato due saggi, uno per l’amica fotografa Patrizia Posillipo e l’altro per un progetto di architettura e letteratura, tra un bicchiere, molti, di Calvados, e sigarette, troppe, consulto per l’ennesima volta la mail dell’Accademia di Versailles. C’è il messaggio di uno dei miei presidi che mi informa del rientro ufficiale previsto l’indomani. Nel messaggio mi indica che mi chiamerà in mattinata ma io lo anticipo, con una mail delle due di notte, che il giorno dopo potremo vederci all’alba, comme d’habitude, in istituto. Fine della quarantena, stop. In questi giorni, per uno dei miei saggi, avevo lavorato su Camus e ripreso la lettura di un’opera teatrale poco nota, Lo stato d’assedio, dove viene trattato il tema dell’epidemia, ma soprattutto del vero conflitto, sul terreno del linguaggio, tra la parola lirica della popolazione e quella burocratica del potere. In verità le mie direzioni non si erano mai fatte assimilare dalla freddezza delle parole circolari dritte al dunque, e quella dei colleghi men che mai. A tal proposito, nella serata di domenica, un amico scrittore, Paolo Mastroianni, ingegnere, quando gli ho raccontato della mia felicità provocata dalla notizia della quarantena, quando gli ho detto del mio turbamento -vedi la prima cronaca- mi ha tranquilizzato dicendo che quell’infelicità speculare di cui avevo avuto esperienza non era legata al lavoro, al mio lavoro, ma faceva parte di un’infelicità semplicemente umana. Anche la mia collega di francese Marianne, nella pausa sigaretta, senza Calvados, pochi minuti fa, mi ha detto di non preoccuparmi, c’est humain.
Intercettazione telefonica tra i due cinquantenni in quarantena di domenica 1 marzo, ore 16:43.
La quarantena è una questione di fede, ma anche di dosato scetticismo. Agamben è un babbeo? Leggete comunque Hans Rosling.
di Andrea Inglese
Quasi tutti hanno trattato Agamben come un vecchio babbeo, con la sua solita fissa dello stato d’eccezione, e chiusa la discussione. Agamben anche si merita, bisogna dirlo, questo trattamento, io da tempo non riesco più a leggerlo. Avevo comprato con golosità uno suo libro recente, Creazione e anarchia, ma mica me lo son goduto. La sua filologia filosofica mi ha stancato. Ma su questa faccenda delle quarantene e dei confinamenti per decreto, c’è come un po’ di zelo eccessivo da parte di certuni, un po’ di voglia di essere più prefettorali del prefetto. Quindi un po’ di Agamben in questo caso non fa neanche male. Ma partiamo da un punto che grosso modo è largamente condiviso: del funzionamento di questa malattia, della sua effettiva pericolosità (tasso di mortalità, ecc.) non è che abbiamo, per ora, delle idee chiare e dei dati inconfutabili. Ciò significa che stiamo prendendo decisioni e agendo guidati non da una precisa conoscenza dei fatti, non da una olimpica e nitida occhiata panoramica, ma da un principio precauzionale, che si appoggia su una base emotiva, su di un istinto di specie molto salutare e importante, quello della fifa di restarci.
Come diceva mia nonna, “Marzo pazzo”, quindi è meglio coprirsi di più, sudare semmai come un bufalo, piuttosto che trovarsi ad avere freddo a metà giornata. Vero. Però, calma nonna. Oggi ho cinquantadue anni, e tu, spero in meritata pace, te ne sei andata da tempo da questa valle di spifferi. Oggi, se mi permetti, la canottiera di lana non la metto il due marzo, e neppure quella di cotone, e se mi busco un raffreddore sono anche un po’ cavoli miei. Quando lo Stato, che sia quello francese o quello italiano, mi mette in quarantena per ragioni precauzionali, io innanzitutto obbedisco a questa ingiunzione perché ci credo, cioè credo che questa menata – ammesso che non mi piaccia starmene in quarantena, ma su questo ci torno dopo –, credo insomma che lo Stato abbia ragione, che sia un sacrificio che vale la pena di fare, e il mio senso civico s’inorgoglisce persino. (Sia detto tra parentesi: mia moglie sostiene che il mio senso civico sia più basso rispetto al suo, perché io reagisco con meno zelo alle ingiunzioni della quarantena. Ciò è vero, perché io ci credo ma non fino in fondo, e spiegherò anche da dove sorge questo scetticismo. Anche perché, in me, il senso civico se la deve vedere con il senso anarchico, che sbraita appena il prefetto si avvicina: ni dieu ni maître. L’ontogenesi disubbidiente combatte la filogenesi obbediente.)
Insomma, queste ingiunzioni dallo statuto giuridico e costituzionale non del tutto chiarissime, come non sono chiarissime le cause virali che le suscitano, non possono, in ogni caso, essere prese alla lettera. Ancora una volta, non facciamo, dal basso, da cittadini qualunque, i più prefetti dei prefetti. Prendiamo il caso francese, ossia la quarantena imposta fino a ieri (fino a domenica 1 marzo) agli allievi (e agli insegnanti) provenienti da Lombardia e Veneto, secondo alcuni, dal nord Italia secondo altri. Benissimo. In Francia, dopo due settimane di vacanze scolastiche, il rientro è stato il lunedì 24 febbraio. Quella mattina stessa mia moglie, con mia figlia al seguito, parlava con il preside sulla soglia della scuola, per discutere dell’opportunità o meno d’integrare un’allieva che era stata alcuni giorni a Milano. Il preside, persona molto in gamba e di buon senso, disse: “No, no, che entri pure. Per altro non ci sono state date indicazioni in tal senso”. Ora il principio precauzionale fu, in questo caso, platealmente applicato con un bel giorno di ritardo. Dal governo e dai provveditorati quello stesso pomeriggio intorno alle 15 arrivò l’ingiunzione della quarantena, che quindi sarebbe stata applicata l’indomani, a danno già fatto, a sciagura già avvenuta, con i possibili untori rilasciati per una giornata intera (dalle 8.30 alle 18) in spazi chiusi a seminare bacilli allegramente, tra bambini che si lavano le mani sotto minaccia al massimo a casa, prima di uscire, e quando vi tornano, a fine giornata.
Quindi, insomma, istituzioni? Chiudete la stalla quando i buoi sono scappati, chiudete le scuole agli untori quando già hanno insalivato i loro compagni di scuola? La quarantena, applicata solo dal martedì, valse ovviamente anche per gli insegnanti a rischio contaminazione. Nelle scuole di babbo-Stato. Nelle scuola private, in alcune almeno, ho saputo che le direttive sulla quarantena arrivarono, ben più efficacemente, domenica 23, prima del rientro.
Dico questo non per deridere lo Stato e i suoi prefetti, accusandoli di approssimazione, di pagliacciaggine, ecc. Capisco le difficoltà, l’imprevisto, l’umana esitazione, e quindi l’inevitabile manchevolezza istituzionale. (Non credo né a tolleranze zero né a sicurezze cento.) Capisco anche che è meglio una quarantena zoppicante di un contagio da centometrista. Però, a me cittadino, al mio senso pur civico anche se non fanatico, non me la date interamente da bere. Quindi, dopo aver contattato l’Agenzia Regionale della Sanità, e aver letto, spedite per mail, le raccomandazioni dei soggetti sottoposti alla quarantena, sottolineo mentalmente con lo stabilo boss giallo fluorescente la seguente frase che introduce il testo: “Il s’agit de recommandations de prévention individuelle qui visent à limiter le risque de « chaine de contamination », elles n’ont pas de portée contraignante.” Ora questa frase, che si trova in un testo ufficiale dell’Agenzia della Sanità, meriterebbe, lei sì, se non della filologia filosofica, almeno un po’ di filosofia analitica. Innanzitutto si dice che si tratta di “raccomandazioni” e non di costrizioni, ossia libero il cittadino di seguirle o meno. L’unica costrizione della quarantena, perché può provocare una sanzione sul piano professionale, è quella di non andare a lavorare, come insegnanti, se si viene dal nord Italia. Non riesco neppure a immaginarmi che tipo di sanzione potrebbe essere appioppata al genitore che ha portato la bambina a scuola, tacendo il suo soggiorno lombardo. Cosa fanno: annullano il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’istruzione, e espellono l’allieva per sempre dalle scuole della Repubblica? Impongono ai genitori una multa salatissima? Le mettono un quattro politico per tutto il trimestre?
Ma torniamo, invece, alle semplici raccomandazioni. Vediamo quelle a cui non ho ottemperato: portare la maschera, in casa, e ogni volta che si esce. E qui apriamo un’altra parentesi: le farmacie e le mascherine. Se voi, in alto, voi istituzioni, voi specialisti, voi farmacie, siete davvero seri, e non fate le buffonate, io posso magari prendervi anche sul serio. Mia moglie, il primo giorno della quarantena, ha girato per ben sei farmacie, senza trovare una sola mascherina da acquistare. E si è chiesta: ma com’è possibile che i farmacisti, in una tale situazione, non abbiano preservato una scorta, un cento mascherine, da fornire esclusivamente ai casi urgenti: persone deboli (anziani, donne in cinta), persone in quarantena. Eh no, troppo facile. Anche perché, ooops!, ce n’eravamo scordati, le mascherine pare che le facciano proprio in Cina. Ma, a proposito, e in Cina? Come è andata con le mascherine? Come scriveva Francesco, l’epidemia è anche il carnevale delle mascherine, della sceneggiata che deve rassicurare, dell’ipocrisia universale. In Cina, lo dice un amico tedesco che insegna a Shangai, le mascherine si dovevano cambiare sei volte al giorno, ma vista la carenza effettiva delle stesse, c’è gente che una sola mascherina se l’è tenuta addosso dall’inizio dell’epidemia. Ma la mascherina rassicura, anche se non si sa più bene chi. Sono i cittadini che devono essere rassicurati dalle ingiunzioni dello Stato o è lo Stato che deve essere rassicurato sul senso civico dei cittadini? Il caso cinese – ma forse anche quello italiano – solleva legittimamente anche questa domanda.
A Shangai, dovunque vai, alle poste o al mercato, ti prendono la temperatura. Ok, tutto sotto controllo. Solo che, dalla posta al mercato, che distano al massimo duecento metri, nel corso dello stesso quarto d’ora, i valori della rilevazione cambiano sensibilmente: dai 36 e 5 della posta ai 37 e 2 del mercato. Insomma, rilevazioni affidabilissime.
Quindi molte di queste raccomandazioni, più o meno costrittive, hanno come funzione quella d’inscenare, di rendere teatralmente visibili, due fenomeni rassicuranti: la gesticolazione statale e lo zelo cittadino. E, attenzione, nonostante lo scetticismo e l’ironia che posso mettere in queste frasi, capisco anche l’utilità della messa in scena. E sono del tutto disposto a stare al gioco, a patto, però, che nessuno cominci a prenderlo troppo alla lettera, sennò finiamo davvero dritti dritti nello stato d’eccezione e nella delazione generalizzata.
Scusate, ma c’è stato un periodo in cui a Parigi, quando uno si sedeva a un bar o a un ristorante, faceva ben attenzione ad avere tra sé e la vetrina un bel palo portante, di modo che se fosse passato sul marciapiede un esagitato terrorista islamico molto armato non fosse proprio lui, l’avventore appena giunto, il primo e più facile bersaglio. Anche in quel caso, si è giocata una partita importante e politica intorno al principio di precauzione: più sicurezza, cari cittadini, o più libertà? E la sicurezza implica anche che a un certo punto ve ne state zitti. Perché non si può affrontare il pericolo grande, in mezzo a un baccano troppo democratico. E quella lì era peggio di un’influenza cattiva quando la incrociavi per strada: altro che mascherine, uno avrebbe dovuto girare per caffè e discoteche con il giubbotto anti-proiettile…
Veniamo ora alla formulazione della frase “ufficiale”, presente nel documento dell’Agenzia della Sanità. Traduco e analizzo: “Si tratta di raccomandazioni di prevenzione individuale che mirano a limitare il rischio di una “catena di contaminazione”, non hanno valore vincolante.” Qui io trovo una certa contraddizione tra “precauzione individuale” e “rischio della catena di contaminazione”. In un caso, mi sembrerebbe di capire, il bersaglio dell’attenzione preventiva sono proprio io, cittadino X, e ne va della mia salute. Nell’altro caso, invece, ci si preoccupa soprattutto della salute altrui. Già, perché di fronte al virus non siamo tutti uguali. Io posso essere giovanissimo, o in ottima salute, e il virus mi fa un po’ un baffo, mi ammalo e guarisco, non ci crepo. Sono invece un anziano signore malato, e rischio la pelle. Quando è iniziato il tam tam mediatico, il mio cervello, egoista senz’altro, ma anche propenso alla ragionevolezza, non si è buttato a capofitto nel tema Coronavirus in lungo e in largo. Ha registrato molto presto sopratutto il numero di morti, e poi con sollievo l’età media di questi morti. Infame, senza cuore, sciacallo: si dirà. Te ne fotti degli anziani. Non è questo, scusate. Arrivano fiumi di trasmissioni e di titoli, a scampanellare che stavolta è quella buona, ci restiamo tutti quanti, se non facciamo il salto mortale carpiato ritornato. Permettete che inizi a misurare la distanza tra me e il pericolo. Salto giù dalla finestra del terzo piano se la casa è tutta in fiamme, ma se sta bruciando il tetto permettete che prenda le scale. Tutto qui. Su faccende come queste si agisce sull’istinto atavico della specie, sulle paure primordiali. Quindi innanzitutto facciamo la tara delle paure, e vediamo chi è più esposto al pericolo: mia figlia, io, o i nonni di mia figlia? Non è mica la stessa faccenda. Allora fatemi il piacere, con la raccomandazione di misurare la temperatura due volte al giorno. Io me la sono misurata una volta sola il primo giorno della quarantena, con un termometro vecchio stile, per nulla elettronico, e dopo che è venuto fuori che avevo 36 e 2, mi sono del tutto disinteressato della cosa. Insomma, ho cercato di sistemare, per quanto mi riguardava, la fifa al posto giusto, almeno credo, almeno per le informazioni che avevo avuto fino ad allora. Non temo di morire, non temo granché di essere contaminato, ma mi rendo conto che c’è il rischio che possa contaminare altre persone, e soprattutto persone anziane o fragili di salute.
Sabato mattina sono andato alla base nautica, per il mio corso di kayak. Mi sono detto, girerò al largo dai compagni di corso, farò un’entrata e fuga nello spogliatoio solo per posare il mio zaino, e me ne andrò sulla Marna per i fatti miei. Una volta arrivato, però, mi son trovato di fronte il prof e alcuni partecipanti al corso. Stando a debita distanza, ho spiegato che stavo finendo la quarantena, ma che ero ancora al confino per essere stato a Milano. Non ho stretto mani e sbaciucchiato donne. E ho scoperto che i kayakisti (gli sportivi?) sono meno fifoni della media (o più irresponsabili). Han fatto qualche battuta, e ho poi integrato il gruppo per tutta la mattinata. Certo, il kayak è un’imbarcazione individuale, inoltre si tratta di uno sport a rischio, e con la Marna così impetuosa alle raccomandazioni sul virus fai precedere la cautele per non finire rovesciato in acqua, magari con il kayak incastrato tra i rami, e la testa all’in giù. Comunque mi ha commosso una collega, che pagaiando davanti a me, nello stretto corridoio controcorrente, mi ha chiesto: “Ma quindi, se sei in quarantena, vuol dire che sei malato, che hai preso il virus?”. Lei non si sarebbe neppure troppo turbata a vedermi in kayak in mezzo a loro in pieno stato influenzale da coronavirus. L’ho almeno su questo rassicurata, dicendogli che in quarantena ci vanno quelli sani, e all’ospedale i malati. Era un modo per semplificare le cose, e farmi capire al volo. Ma vedete bene l’ironia della situazione. I sani in quarantena e i malati all’ospedale.
Per concludere. È venuto per me il momento di leggere un libro, che ho capito da tempo sarebbe stata una lettura, tra quelle saggistiche, cruciale. Si tratta di Hans Rosling, con Ola Rosling e Anna Rosling Ronnlund, Factfulness, tradotto da Rizzoli nel 2018. Io l’ho appena cominciato, ma già ve lo consiglio largamente. Potete lasciar perdere Agamben, ma io non sarei così impaziente nel liquidare le sue ubbie su sicurezza & libertà. Chiudo con una citazione dal libro di Rosling.
“Ecco un paio di titoli che non supererebbero il direttore di un giornale, perché avrebbero poca probabilità di superare il filtro [dell’attenzione del lettore medio]: ‘CONTINUA LA GRADUALE DIMINUZIONE DEI CASI DI MALARIA’, ‘IERI I METEOROLOGI HANNO AZZECCATO LE PREVISIONI: OGGI BEL TEMPO A LONDRA’. Ed ecco alcuni argomenti che sfondano facilmente la barriera del filtro: terremoti, guerre, rifugiati, malattie, incendi, inondazioni, attacchi di squali, attentati terroristici. Questi eventi insoliti fanno più notizia di quelli ordinari, e gli episodi eccezionali di cui i media ci tempestano imprimono immagini nella nostra mente. Se non prestiamo estrema attenzione, ci convinciamo che l’insolito sia solito, che il mondo funzioni così.”
Detto questo, Rosling aggiunge: “Questo fenomeno [attirare l’attenzione, sollecitando l’istinto atavico della paura] è imputabile non tanto alla ‘logica mediatica’ dei produttori quanto alla ‘logica dell’attenzione’ nella testa dei consumatori.”
Ecco, adesso il lavoro sul virus, sulla sua natura, sui suoi vaccini possibili, lasciamolo certo fare ai virologi, e il lavoro di precauzione sanitaria lasciamolo fare alle istituzioni, ma senza dimenticare che, da cittadini di un mondo relativamente sicuro*, abbiamo un lavoro da fare anche sulle nostre paure, perché – citando ancora Rosling – “Il pensiero critico è sempre difficile, ma è quasi impossibile quando siamo spaventati. Non c’è posto per i fatti, quando la mente è invasa dal terrore.”
Quanto alla quarantena, dovrebbe essere una misura precauzionale da diffondere, e da rendere stabile, almeno una volta all’anno, in ogni ambito lavorativo ed educativo, per ragioni non di incolumità fisica, ma di pulizia mentale e di equilibrio affettivo. Insomma, anche senza mascherine e termometri, la auguro a tutti.
*Un mondo relativamente sicuro è quello dove si costruisce un buon numero di ospedali, in rapporto con il numero di persone che potrebbero averne bisogno, e dove non se ne chiudono, per risparmiare sul bilancio, se invece già esistono e funzionano.
Paris, home of the braves.
Grazie