La polacca
di Mirfet Piccolo
Le piaceva farlo così, senza guardarlo: con la gamba sottile abbracciava la coscia di lui e con il pube ancora caldo e umido si premeva e stringeva un poco; la clitoride era un bacio lieve sul fianco dell’uomo con il quale era in amore. E poi diceva:
– Raccontami ancora quella storia.
Con la testa posata sul suo petto nudo e lo sguardo lontano dal suo, Fiona aveva la libertà di vedere meglio ciò che le raccontava. La stanza dell’albergo era troppo grande per tutto lo squallore che conteneva, ma sarebbe andata bene, si era detta Fiona appena varcata la soglia, sarebbe andata bene comunque perché la voglia di stare di nuovo insieme era tanta e quella era, doveva esserlo, semplicemente la stanza che in un hotel a quattro stelle riservavano a chi richiedeva il day-stay per mezza giornata
– Quale storia?
– Quella di quando eri in Polonia per lavoro e hai conosciuto quella ragazza.
– La polacca? Dici quella?
– Sì, lei.
– La mia Polish girl.
Davanti agli occhi di Fiona c’era una cassettiera fuori moda e di dubbio gusto, e che molto probabilmente era stata brutta anche quando era di moda per via della fattura fintamente pregiata; accanto, sulla sedia dall’imbottitura logora, lui aveva posato il suo giubbino. Nonostante il lieve squallore che la circondava, o forse proprio in virtù della mancanza di un contesto gradevole, Fiona riuscì ancora una volta a ricostruire l’immagine di lui da ragazzo brillante agli esordi della sua carriera di auditor in giro per il mondo: giovane e audace, i capelli in posa con il gel e la risata fragorosa con i colleghi per la strade di Varsavia dopo una giornata di lavoro. E questa volta aggiunse anche la luce gialla dei lampioni che cadeva a cascata sulla strada che li aveva poi condotti nel locale dove avevano incontrato il gruppo di ragazze.
– Ma lei, non ti ricordi proprio come si chiamava?
– Perso nella memoria, anche perché dopo non ci siamo più visti.
– E com’era? Fisicamente, dico.
– Normale, una ragazza normale. Come te, come tante. Vestita normale, un po’ acqua e sapone.
– Ma in che momento ti ha detto di essere una prostituta, prima o dopo?
– Me lo ha detto lì, al pub. Si chiacchierava. Ma non stava mica lavorando in quel momento. Era fuori con le amiche. Una ragazza normale. Non era una vera prostituta, lo faceva solo ogni tanto, per bisogno.
– E ci sei rimasto male?
– No, te l’ho già detto. Era simpatica e molto carina. Tutto qui.
– E poi?
– E poi abbiamo parlato di altro.
– Di cosa?
– Boh, e chi se lo ricorda. Però ricordo che mi piaceva il suo accento quando provava a parlare in italiano. Lì lo imparano un po’ tutte.
Questa dell’accento era un’informazione nuova. Non ne aveva mai parlato. Fiona ripensò a quando lui, emiliano, la prendeva un po’ giro sottolineando le e troppo aperte del suo accento milanese: chiudi quelle e, le diceva, non sono mica le tue gambe, e la guardava con quel sorriso un po’ rapace e un po’ scherzoso.
Forse la ragazza polacca aveva imparato l’italiano dalle canzoni di Eros Ramazzotti, e allora Fiona immaginò una ragazzina magra, con i capelli lisci e lunghi sulle spalle e le cuffie alle orecchie, china sulla scrivania della sua stanza a trascrivere su un diario i testi delle canzoni. Una ragazza normale, una ragazza come tante.
Poi lui lamentò di avere il braccio addormentato. Per mettere a tacere il formicolio, nel muoversi sollevò la gamba destra e dal quel sollevamento Fiona vide emergere un piccolo buco sul lenzuolo bianco; che posto ridicolo, pensò. Quando abbassò di nuovo la gamba, il buco scomparve dalla sua vista.
– La sua stanza, ti ricordi com’era la sua stanza?
Giovane. Ragazza acqua e sapone. Ragazza come tante. Prostituta. Fiona avrebbe voluto sapere di più della stanza della ragazza polacca. Aveva anche lei poster di cantati e attori famosi, e vestiti in disordine su una sedia e scarpe sempre in giro? Ma lui si fermava sempre qui: era una stanza come tante, la stanza di una ragazza giovane.
Lo baciò sul petto, poi ripose nuovamente la testa su di lui e con il dito iniziò a disegnare una costellazione invisibile in cui i suoi nei erano i pianeti e lei con il dito li circumnavigava e poi li univa per formare animali fantastici e divinità. Fiona non aveva mai visto così tanti nei su un uomo e ormai li considerava un tratto distintivo del suo corpo.
Nelle giornate tra un incontro e l’altro, quando lui per lavoro doveva spostarsi in altre località, non vedeva l’ora che arrivasse il momento di andare a dormire così da togliere dalla sua vista la presenza astiosa della sua coinquilina e potere, finalmente, stringere il cuscino e con gli occhi chiusi richiamare alla mente tutta la costellazione del suo corpo nudo. Le sembrava di averlo al suo fianco e così si addormentava.
– Ma io non ho capito la dinamica. Dopo il pub, come è successo che siete andati a casa sua? Te lo ha chiesto lei o glielo hai proposto tu?
Fiona fu sorpresa e soddisfatta da se stessa: era la prima volta che gli faceva questa domanda eppure ora che era uscita dalla sua bocca le sembrò di grande importanza. Questa sì che è una bella domanda, si disse.
– È venuto così, parlando.
– Parlavate un po’ in inglese e un po’ in italiano, giusto?
– Sì.
– E quindi, come è successo? Te lo ha chiesto lei o sei stato tu?
– Sai quel genere di sguardi, no? Quelli che vogliono dire tutto. Poi ci siamo dati qualche bacio lontano dalle amiche ed è venuto così, di andare da lei. Lì è facile, è sufficiente dire loro che le porti in Italia.
Le dita della mano di Fiona si fermarono e si rifugiarono nel palmo; la costellazione subì un piccolo, netto collasso.
Adesso però aveva fame, aggiunse, voleva uscire a mangiare qualcosa, e si divincolò dall’abbraccio immobile. Quando lei gli ricordò che avevano la stanza prenotata ancora per un’altra ora, lui le disse che non era importante, che non si preoccupava mai dei soldi che spendeva se erano stati spesi bene.
– Stiamo stati bene anche questa volta, no?
Fiona disse di sì, sì certo, sì. Sollevò il busto e dal letto lo seguì con lo sguardo mentre andava in bagno; lo sentì aprire la porta e poi chiuderla, sentì che girò chiave.
Guardò verso la finestra: la luce che filtrava era intrisa di granelli di polvere che fluttuavano vicini e non cascavano mai. Fece per alzarsi dal letto, e da un movimento distratto del piede il piccolo strappo sul lenzuolo si allargò. Fiona provò un immediato imbarazzo: guardò in direzione del bagno – lui era sotto la doccia e non sarebbe certo uscito in quel momento – e poi di nuovo il buco sul lenzuolo. Infine si alzò del tutto e con il lenzuolo superiore e poi con il copriletto coprì ogni cosa.
Ancora nuda, andò alla finestra. La camera si affacciava su un parcheggio che in quel momento era parzialmente deserto. Oltre la recinzione che delimitava il parcheggio notò un appezzamento di terra erbosa con delle bestie. Sembravano lama, o forse erano alpaca? Era un posto strano per tenere degli animali come quelli. Da quella distanza le era impossibile distinguerli e forse, si disse, forse non sarebbe stata in grado di farlo neppure da vicino. Sapeva che i primi sputavano e i secondi no, ma cos’altro?
– Secondo te quelli sono lama o alpaca?
Andò anche lui alla finestra. Fiona avvertì il calore della sua pelle umida e profumata, e provò il desiderio di togliergli quell’asciugamano che gli cingeva la vita e fare ancora l’amore. Non poteva dire che lui fosse, tecnicamente, un amante perfetto (per raggiungere l’orgasmo, infatti, lei sapeva come muoversi, e cioè come contrarre i muscoli del suo utero), ma era un uomo taciturno e affascinante e aperto al mondo, ed era il primo uomo della sua vita recente che non l’aveva fatta sentire miserabile per via della sua condizione di donna quarantenne affittuaria di un appartamento in condivisione con un ragazza ben più giovane di lei.
– Non lo so. Penso che siano la stessa cosa, stessa sostanza. Dai, muoviti ché ho fame.
E lui si voltò e iniziò a rivestirsi.
– Sono certa che non sono la stessa cosa. Però neppure io so la differenza, non me la ricordo più.
Fiona chiuse la porta alle sue spalle e non girò la chiave. Il bagno era piccolo e i sanitari ingialliti dal tempo ma in fondo, pensò mentre faceva la pipì, non era così importante; l’importate era stare bene insieme, fare scorta di ricordi belli per i giorni a venire che non avrebbero potuto passare insieme. Si pulì, tirò lo sciacquone e andò sotto la doccia.
Quando Fiona uscì dal uscì dal bagno, lui si era già messo il giubbino.
– Sono davvero affamato, vestiti così andiamo a mangiare qualcosa.
La porta principale dell’Hotel dava su di una strada stretta e molto trafficata, ma l’aria leggera e fresca della primavera arrivata in anticipo era piacevole. Lui mise le mani nelle tasche del giubbino e lei si aggrappò al suo braccio. Ripensò alla stanza dell’Hotel che si stavano lasciando alle spalle: era davvero squallida, la peggiore tra tutte quelle in cui erano stati nel corso di quelle settimane, e si disse che avrebbe fatto in modo, per la prossima volta, di mandare fuori casa per una giornata intera la sua coinquilina. Le avrebbe parlato, era disposta pure a pagarle un soggiorno presso qualche località termale. Qualsiasi cosa pur di avere uno spazio di normalità amorosa prima della partenza di lui.
– Hai fame anche tu?
– Adesso che mi ci hai fatto pensare, ho molta fame.
– Vediamo che troviamo.
– Più avanti c’è la metropolitana. Posso portarti in un posto speciale.
Fiona conosceva un buon ristornante cinese che distava solo quattro fermate di metropolitana. Poi avrebbe potuto portarlo al parco a fare una passeggiata. Era un bel parco, il più grande della città. Ma continuò a camminare appesa al suo braccio senza svelargli i suoi piani: voleva sorprenderlo, voleva condurlo verso tutto ciò che c’era di bello in città, voleva dargli in regalo dei ricordi belli.
– Quando hai detto che parti?
– La settimana prossima.
– E ritorni?
– Ancora non lo so, non dipende da me.
Poi lui si fermò. Qui facciamo prima, disse, e la trascinò dentro a una piccola pizzeria al taglio.
– Hai detto anche tu di avere molta fame, no?
Fiona sorrise e rispose sì, certo, sì. Pensò che sì, aveva ragione lui, anche lei aveva molta fame e in fondo ciò che contava era stare bene insieme. E per un attimo le sembrò di essere tornata una ragazzina in pausa pranzo con le compagne di università. Sentì che c’era posto per la spensieratezza.
Il locale era piccolo ma non troppo pieno. Trovarono due posti su degli sgabelli alti, in prossimità di uno specchio grande quasi quanto tutta la parete.
– Tu quale vuoi?
– Margherita va bene, ma con doppia mozzarella se è possibile, e con le olive.
Fiona vide una smorfia di irritazione nel suo viso, ma le sembrò buffa e perciò la fece sorridere. Dal grande specchio, poteva vedere il riflesso delle sue spalle chiuse nel giubbino e ripensò alla costellazione di nei ed ebbe la sensazione di esclusività, di conoscere qualcosa che nessuno lì dentro poteva sapere. Decise che gli avrebbe anticipato i suoi piani – la metropolitana a pochi passi, la passeggiata nel parco tutto da scoprire – e che gli avrebbe fatto una sorpresa ben più grande.
Lui tornò con le pizze fumanti nei piattini di plastica; il rosso del pomodoro era vivo e luccicate del succo e dell’olio. Fiona addentò il primo boccone ma si scottò. Aprì la bocca e rise e con la mano fece il gesto di farsi aria. Nel riflesso dello specchio vide un gruppo di ragazzine divertite: erano belle, vivaci, e anche Fiona si sentì un po’ come lo loro e quasi felice.
– Sei davvero goffa.
– Senti, la metropolitana è a pochi passi da qui. In cinque fermate siamo a un parco molto bello. Te lo faccio scoprire io, è davvero bello e antico. Per fare una passeggiata, dico, poi potremmo stenderci un po’ al sole. È davvero molto bello, uno dei miei luoghi preferiti.
– Poi decidiamo.
– E magari la prossima settimana potresti venire da me. Alla mia coinquilina antipatica dico di lasciarmi la casa libera.
– Pensavo che l’Hotel andasse bene. Avevi detto anche tu che l’anonimato era meglio, così non dovevi chiedere a nessuno. Siamo più indipendenti, no?
– Se lei non c’è siamo liberi. Non ti preoccupare, ci penso io. Tu non ti devi preoccupare di niente. Fidati.
Lui addentò un altro boccone e masticò un po’, e si portò il tovagliolo alla bocca e non aveva finito di deglutire che:
– Con te invece è difficile, sai?, rendi le cose complicate.
Fiona abbassò lo sguardo sul suo trancio, e portò la pizza alla bocca e strinse i denti e sentì il bruciore scavarle la bocca e poi la gola, lo sentì scendere; l’allegria delle ragazzine rimbombava come un’eco nella sua testa e tutt’attorno e non c’erano più altri suoni né spazi. Non esisteva nient’altro.
Bah. I buoni racconti sono altri. Punti di vista, certo, ma i buoni racconti sono altri.