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Internauti – day two, day three

di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Continua il diario della quarantena di noi italiani, sospetti di contagio in Francia; senza vittimismi, ma senza neppure trionfalismi. Stare tappati in casa dà un bel daffare.  effeffe e AI]

 

 

 

 

 

Giaculatoria dell’amore indifferente / Canio Loguercio-Raiz-Daniele Sanzone (‘A67)-Maria Pia De Vito

Memorie del sottosopra

di effeffe

Oggi sono uscito per andare a comprare il termometro che non era affatto a portata di mano, semplicemente perché non ce l’avevo. Uscendo in pieno giorno faccio fatica a distinguere del palazzone di Place d’Italie le finestre vive da quelle morte. In uno degli appartamenti più in alto ci abita il mio amico Philippe con Eva, quando non sono nella casa di campagna alla Loupe dove vivono la maggior parte del tempo. Una volta, tornando dal localino basco della Butte aux Cailles, gli ho chiesto di telefonare ad Eva- non era troppo tardi- per chiederle di accendere e spegnere la luce come forma di saluto. Mi sono quasi emozionato quando lei ha premuto l’interruttore, per quel contatto elettrico stabilito di colpo tra i due  e che, nonostante la dimensione immateriale,  aveva rivelato una profonda emozione fisica, corpuscolare. E vorrei fare lo stesso con i miei alunni tipo accendere e spegnere le luci per comunicare loro che sto bene e che presto saremo di nuovo operativi.

Rifletto a queste cose in un momento in cui non ho nessun contatto fisico con l’altro, e dunque nessun bisogno di acquistare amuchina. Comprerò delle cose al supermercato pagando alle casse automatiche e il termometro tenendomi alla giusta distanza in farmacia. Quando entro c’è solo una coppia d’anziani, cinesi, a separarmi dalle due dottoresse, cinesi. Perché il tredicesimo è la China Town di Parigi e mi fa sorridere pensare che la Place d’Italie sia proprio la punta di diamante di questo quartiere comunità. Cinesi e italiani même combat, da quando è scoppiato il coronavirus. Non so ancora che tipo di termometro sarà il mio ma una cosa so per certa ed è che la scelta ricadrà su quello che non prevede un uso francese dello strumento mercuriale che poi il mercurio è stato dichiarato fuorilegge da un po’, come i piccioni di piazza San Marco.

Siamo praticamente i soli in Europa a misurare la temperatura sotto l’ascella, quando nel resto del vecchio continente si privilegia la bocca, in Grecia, Spagna, Germania, l’orecchio, in Portogallo, e in Francia, in Francia nella retta via. Ecco perché so, ancor prima di vedere il prodotto, che opterò per quello a infrarossi, modello pistola che punti alla fronte come quello che ha usato il personale sanitario in aeroporto  al mio arrivo a Capodichino.

Ci misuri tutto, perfino l’aria, l’acqua della cottura, il biberon, tutto o quasi perché di certo una cosa non può misurarla ed è lo spirito del tempo che stiamo vivendo. Ha ragione Andrea quando dice che il panico attuale è per certi versi molto simile all’euforia dell’ora di ricreazione. Il grande critico Michael Bachtin – geniale nonostante il cognome da medicinale- vi avrebbe certamente trovato molto del carnascialesco «pathos delle sostituzioni e dei mutamenti, della morte e del rinnovamento». Penso tra me e me che il Carnevale di Venezia è stato non sospeso ma esteso a tutta l’Italia durante la settimana del Martedì grasso. I pazienti si sono trasformati in dottori, discettando di virus e anticorpi senza nessuna nozione di medicina, i dottori in pazienti, ammalandosi, le maschere in mascherine, le penne rigate in quelle lisce, lasciate in solitaria tristezza tra gli scaffali vuoti dei supermercati e, per finire in bellezza, i meridionali “terroni” in settentrionali “polentoni” come in alcune città del Sud dove si son presi la briga di rinverdire il mito cartellonistico del non affittiamo a…

Quello che non è affatto cambiato è invece il linguaggio, o meglio. Parole che carnascialescamente si erano di questi tempi numerici trasformate da negative in positive, tradendo la lettera e il significato dell’origine, sono tornate nei ranghi dei significanti. Una su tutte l’aggettivo virale, fino a ieri applicato a contenuti di successo nei social e ormai identificato al Virus maestà, il solo a indossare una corona. Eccomi caro Andrea, Francesco Forlani – comunista dandy nonostante il cognome da democristiano- a te la linea, ma non di febbre.

Mi punto la pistola alla fronte e sparo: 35 e 7. A domani ci arriveremo. Penso.

*

Gianluca Codeghini, Marco Mariani, Noise, 2019

Una quarantena improvvisamente stakanovista (e la distopia TV di Uno Mattina)

 di Andrea Inglese

Cos’è successo il giorno due della quarantena? Diciamo che la giornata è cominciata bene, languidamente, senza fretta, senza spostamento su Parigi, in mezzo al pendolarismo solito, ma invece un trascinare la ciabatta, la preparazione del secondo caffè, e poi una gita in bici con mia figlia – senza mascherina – lungo le rive della Marna, che in questo momento è gonfia, alta e limacciosa. A parte i soliti nonni sportivi, a piedi o in bici, che sono fetentissimi, perché devono mostrare al mondo che lo scatto è ancora nei muscoli, e il fanatismo atletico nelle coronarie, c’erano i passeggiatori di cani, e una rarissima mamma con bambini, pure loro in bici, di aspetto palesemente cinese. Avrei voluto fermarli, per fare ovviamente conoscenza, creando quell’allegra complicità tra gente di medesimo destino e condizione, ma poi mi sono ricordato che quelli in quarantena, cinesi o italiani, non possono abbandonarsi alla bavosa convivialità, alle manate sulle spalle, alle prese di ganascino, e quindi ognuno ha proseguito per la propria strada, fancazzista in piena mattinata, ma in modo solitario e ritroso. Chissà Francesco, che segnaletica d’intesa avrà approntato con la compagine cinese, che domina nel suo quartiere? Gli occhi rimangono liberi anche dalle mascherine: c’è quindi tutto lo spettro semioticamente “caldo” dell’occhiolino.

Insomma, la quarantena sembrava svolgersi nel migliore dei modi, ma nel pomeriggio l’equilibrio magico si è rotto. Sciaguratamente ho messo mano a un po’ di scartoffie, bollette della mensa della figlia da pagare, fatture da radunare per la dichiarazione dei redditi, buste misteriosamente prive di contenuto, anche perché la scrivania era un macello: intasata di numeri di Le Monde diplomatique di non so più quale anno, un Grombrowicz, un Malerba, un Bordini, ecc., una pila di diari personali, libri sull’arte, libri di artisti, scatole vuote di pastiglie al propolis, confezioni di fazzolettini di carta, biglietti conservati con appunti indecifrabili, estratti conto, e altri oggetti difficilmente definibili. E qui è partito un pomeriggio fitto di lavoro, dedicato a molteplici attività simultaneamente, il riordino di antichi dossier, la selezione dei documenti da gettare (vecchie assicurazioni per la casa, rendiconti di assemblee condominiali, certificati dell’aria fritta), lo svuotamento parziale della scrivania, con ritorno dei libri sugli scaffali (quelli più alti ed impervi, ossia gli unici non ancora intasati), ma questo miserabile lavoro di smanazzamento su carte e libri andava intervallato da mail dettagliate da inviare alle varie classi di alunni, da cui ero assente per ragioni di rischio virale. C’era da spiegare di nuovo tutto sulle consegne della settimana prossima, quando uscirò dalla quarantena (dossier scritti e stampati, file iconografici). Oltre a questa inesauribile attività, c’era da aggiungere il cazzeggio su Facebook, perché il confino a casa mi esponeva facilmente al trappolone dei social, ma anche all’informazione minuto per minuto – e più l’informazione è minuta, atomizzata, istantanea, più produce sul cervello che la succhia quell’effetto di leggera catatonia.

Ne è risultata, tutto sommato, una giornata estenuante. In questa quarantena, che io avevo accolto di buon grado, per dedicarmi al reperimento nuvole e al loro sognante inventario morfologico, qualcosa è andato storto. Buono a sapersi per il Telelavoro. Chiediamo bene alle donne, prima di farci infinocchiare. Non vorrei che estendessero a tutti, quanto si sono per adesso sciroppate solo loro, ossia la doppia pena, l’orario di lavoro duplice, casalingo e d’ufficio. Perché quando uno sta a casa, gli viene poi la fregola di mettere in ordine i sospesi amministrativi e burocratici. (Ci sono, poi, le lampadine fulminate, gli asciugamani da comprare, i bottoni da cucire, le ante dell’armadio da rimettere sulle cerniere, le lavatrici da far girare, le lattughe antiche da raschiare via dal frigo, e altri tafanamenti simili.) Forse meglio scappar via alla mattina e tornare notturni e spossati, solo per ingozzarsi e guardarsi un paio di episodi della serie TV del momento. Insomma, riflettiamoci. Rimanere bloccati a casa, dopo anni di esternalizzazioni amministrative, è un grosso rischio per tutti.

Nel frattempo mia figlia, per dare maggiore plausibilità al suo ritiro monacale, ha deciso, con il benestare della madre, di girarsene per casa con la temibile mascherina. Ho visto anche comparire due boccettine di gel per lavarsi le mani, la celebre amuchina, se non sbaglio. E qui c’è un argomento spinoso da affrontare: in tempi non sospetti – non vorrei mancare di riguardo a nessuno, ma amicus Plato sed magis amica veritas (e lo dico non avendo mai preso più di quattro nelle versioni di latino) –, in tempi insomma di universale salute, la gente che, spesso sui mezzi o nei luoghi pubblici, si lavava le mani col gel, a me ha sempre provocato una certa ripugnanza, o forse solamente un fastidio acuto, come quelli di tipo sonoro, causati da uno che palpeggia panetti di polistirolo o sfrega con un coltello sul piatto. Non so perché sia così, ma c’è come una sorta di squillo psichiatrico, di segnaletica allarmante, che quel tipo di manipolazione suscita in me: percepisco, nell’utilizzatore ordinario di amuchina, il terrore del microbo invisibile, del contatto umano casuale, degli oggetti esposti allo stropicciamento delle folle. Insomma, vi vedo in trasparenza l’igienista maniacale, che cova in sé, nei meandri del subconscio, il dottore sadico, il chirurgo assassino, il microbiologo pazzo. Quindi la lavata di mani senz’acqua, con un gel, in giro per la città, o persino a casa mia, è cosa che nemmeno la pandemia dichiarata mi costringerà a fare. Se si dev’essere maniacali, lo sarò con l’acqua e il sapone, e giuro che stavolta mi passo il sapone anche sui dorsi, perché li ho sempre trascurati fin da bambino, e non capisco neppure come non siano già finiti in cancrena.

A conclusione due parole su Uno Mattina. Non so bene cosa sia Uno Mattina, una trasmissione della Rai probabilmente, di quelle che si dice siano pensate per le casalinghe e i pensionati, come se queste categorie della popolazione civile corrispondessero a una armata di lobotomizzati, appena sguinzagliata per il mondo da quel famoso scienziato pazzo che si fa persino la doccia con il gel di amuchina, la doccia asciutta. Comunque a Uno Mattina i due conduttori, un lui che parla molto, e una lei più silenziosa, ma dalla voce altrettanto sgradevole del collega, ebbene i due hanno intitolato il loro servizio: “Milano ai tempi del Coronavirus”. Hanno intervistato persone per strada che, rispetto a loro, avevano l’aria piuttosto normale. Ma il loro pallino è la trasformazione della città, e non il solo fatto che sia deserta, e qui si vedono vagoni del metrò completamente vuoti, ripresi probabilmente mentre vanno in ricovero a fine servizio, ma ciò che più conta, lì dove bisogna girare il coltello nella piaga, è la questione economica, talmente drammatica ormai che il conduttore profetizza (sic) “cavoli amari”. Ma poi ci sono gli invitati, in studio il tipico manager milanese con una montatura di occhiali perfetta, dinamica ma elegante, che lavora nel lusso, mentre a casa, pietrificato su di un’enorme poltrona, di quelle forse che ti massaggiano anche la colonna vertebrale, Stefano Zecchi, presentato dai conduttori come “professore”, ma che la legenda a schermo indica come “scrittore”. Tra il reale e il virtuale ci passa di mezzo il mare. Il povero Zecchi è stato davvero professore di filosofia, di estetica per la precisione, alla Statale di Milano – posso testimoniare di aver seguito e sostenuto un bell’esame su Baudelaire e la modernità con lui –, professore anche bravo, seppure non un gran oratore. Ma poi ha voluto fare lo scrittore, come io ho voluto fare il cestista nella NBA. Due fantasticherie parallele, che hanno avuto credo lo stesso esito. Comunque, facciamo attenzione alla lingua. Entrambi gli invitati, il manager del lusso, e il poltronato professore, hanno ognuno puntato su delle mosse linguistiche, novissime e sperimentali il primo, tardoantiche e di soffitta impolverata il secondo. Il manager ha sortito testualmente questa agudeza: “voi sapete tutti che gli acquisti si fanno se c’è quel good feeling, che è quella propulsione d’acquisto che oggi manca completamente”. Basta, la propulsione d’acquisto divenga oggi locuzione orbiterracquea e sia tradotta in ogni lingua, comprese lo yoruba e il masai. Veniamo infine allo scrittore-professore-poltronatore, che è partito in quarta con una bellissima anticaglia: “abbiamo a che fare con lo spirito ambrosiano, che è quello che sa rialzarsi sempre, in ogni circostanza, che non molla mai”. Quindi stasera offre Zecchi, “spirito ambrosiano” per tutti: ti hanno succhiato tutti i risparmi via internet?, ti hanno buttato dato per morto nel Naviglio?, il comune viene a riscuotere multe che hai preso nel secolo scorso, con penali da Goldman Sachs?, bevi un sorso di “spirito ambrosiano”, e vedrai come ti rimetti subito in sella. “Cosa ci insegna, professore, questa situazione?” gli grida il conduttore, che cerca un po’ di zucchero dopo aver seminato barili di fiele, e la poltrona-professorata risponde: “impariamo che a un certo punto si cade e bisogna rialzarsi, questo è un insegnamento di grande valore”. Vedo i ranghi dei telespettatori di Uno Mattina, i famosi lobotomizzati del Dottor Amuchina, che scuotono la testa in segno di assenso, e bisbigliano tra sé: “cadere… poi rialzare… cadere poi rialzare… cadere poi rialzare”.

 

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6 Commenti

  1. Mio dio Codeghini Mariani a colazione! Comunque non tentare mai di riordinare e classificare analiticamente le scartoffie, nessuno ci è mai riuscito e non troverai più nulla. Devi solo mettere tutto in una unica pila, stratificata come uno scavo, dove le cose importanti staranno alla rinfusa tutte nello stesso posto.

    • Questa, del faldone unico e definitivo, è la tecnica di Mylène, che mi spaventa, perché più il faldone ingrossa meno secondo me hai il coraggio di metterci le mani, la mia tecnica è dividi et impera. Pero’ divido cosi bene che poi non trovo più un cazzo. Il risultato mi sembra assai simile alla fine.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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