Giovani al comando, rivoluzionari
di Luca Gorgolini
(Pubblichiamo un estratto da Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, di Luca Gorgolini. Salerno Editrice, pp. 296. In libreria dal 30 gennaio 2020)
Nel corso del biennio «multiforme e multicolore», in cui si sovrapposero «spinte democratiche, rivoluzionarie e autoritarie», che precedette i due appuntamenti congressuali del gennaio 1921, durante i quali vennero sancite la fondazione del Partito Comunista d’Italia e la trasformazione della Federazione giovanile socialista nella Federazione giovanile comunista, non prese forma alcuna rivoluzione e la stagione di lotte animata dalle classi popolari terminò con la sconfitta del movimento operaio e l’affermazione delle forze reazionarie.
Il Partito Socialista che nel marzo 1919 aveva approvato la propria adesione all’Internazionale comunista si trovò paralizzato, costretto tra gli attendismi dei riformisti, che continuavano a credere nella necessità di ottenere in Parlamento l’approvazione di un programma di riforme parziali che consentisse la trasformazione dell’Italia in una moderna democrazia, e i massimalisti che credevano nella possibilità di innescare un moto rivoluzionario ma non fornivano indicazioni chiare sui modi e sui tempi di attuazione dello stesso.
Per quel che riguarda la Federazione giovanile, con la conclusione del conflitto, essa si dimostrò capace di assumere un ruolo di guida nel processo di ricostruzione degli organismi del movimento internazionale, fortemente indebolito dalla stretta repressiva messa in atto dai governi nell’ultimo anno di guerra al fine di arginare le proteste che stavano minacciando ovunque la tenuta dei fronti interni: nel maggio del 1919 i dirigenti italiani rivolsero un appello ai giovani socialisti e proletari di tutti i paesi in cui si parlava di «armamento del popolo», «sciopero generale rivoluzionario», «dittatura proletaria»; a settembre Luigi Polano, segretario della Federazione italiana, venne nominato fiduciario dell’Internazionale per molti paesi, tra i quali la Francia, gli Stati uniti e la Spagna; a novembre egli partecipò al congresso di fondazione dell’Internazionale giovanile comunista che si tenne a Berlino, entrando a far parte del Comitato esecutivo. A quell’appuntamento il dirigente italiano si presentò forte di un’organizzazione che contava ormai 35.000 iscritti, seconda, tra le 14 federazioni nazionali rappresentate, solamente alla potente compagine russa e ai suoi 80.000 aderenti.
Sul versante delle dinamiche interne, le posizioni si cristallizzarono attorno a tre gruppi che si confrontarono per tutto il 1919: il gruppo astensionista (guidato dal bordighiano Giuseppe Berti), il gruppo ordinovista (rappresentato da Umberto Terracini) e il gruppo massimalista del segretario Polano che nella primavera del 1920 prese però le distanze da Serrati, leader dei massimalisti del PSI, il quale si era dichiarato convinto che in quel momento storico fossero venute meno in Italia le condizioni per portare a termine un moto rivoluzionario e che fosse necessario salvaguardare l’unità del partito, allontanando in questo modo la minaccia dell’espulsione dei riformisti. Al contrario, il Comitato centrale della Federazione credeva che fosse venuto il tempo di operare attivamente alla costruzione di un partito nuovo, rivoluzionario e su base comunista. Un percorso che subì un’accelerazione sotto la spinta delle decisioni assunte nel corso del II congresso dell’Internazionale comunista che si tenne a Mosca nel luglio agosto del 1920, durante il quale vennero approvate le 21 condizioni poste da Lenin e che i partiti socialisti avrebbero dovuto accogliere per aderire al Komintern. Il 20 ottobre a Milano il gruppo dei “comunisti puri” sottoscrisse il manifesto programma della propria frazione che prevedeva l’espulsione dei riformisti e l’«azione insurrezionale del proletariato» sia con mezzi legali che con mezzi illegali. A firmarlo furono Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini.
Le indicazioni di Lenin avevano dunque favorito il superamento delle divisioni e tracciato un percorso comune su cui tutti si ritrovarono. Seguirono l’incontro di Imola (28-29 novembre 1920) e la riunione del Consiglio nazionale della FGSI (Genzano, 5 dicembre 1920) con cui il movimento giovanile dichiarava di aderire «incondizionatamente alla frazione comunista». Così a Livorno, nella seduta inaugurale (15 gennaio) del XVII Congresso nazionale del PSI, Secondino Tranquilli (alias Ignazio Silone), direttore dell’«Avanguardia», nel portare il saluto dei giovani invitò i congressisti «a bruciare il fantoccio dell’unità»; a seguire, il 21 gennaio, resi noti i dati della votazione delle mozioni che assegnarono la maggioranza ai comunisti unitari di Serrati, Luigi Polano prese la parola per comunicare che da quel momento la Federazione giovanile socialista dichiarava sciolto il proprio impegno di adesione al Partito Socialista siglato tredici anni prima, nel 1907.
Il passo decisivo era ormai compiuto. Nella stessa giornata la frazione comunista riunitasi al teatro San Marco diede vita al Partito Comunista d’Italia, il cui gruppo dirigente risultava composto quasi per intero dalla generazione di militanti che aveva svolto la prima parte del proprio tirocinio politico negli anni che andavano dalla guerra di Libia allo scoppio della Grande Guerra e che avevano spinto la Federazione giovanile lungo la strada del massimalismo rivoluzionario: tra gli altri Bordiga, Gramsci, Fortichiari, Grieco, Terracini. Il Partito Comunista Italiano nasceva presentando il profilo di un «partito di giovani»: l’età media dei componenti il Comitato centrale era di soli 36 anni.
Alcuni giorni più tardi, a Firenze (nella città dove nel 1903 si era costituita la Federazione nazionale giovanile socialista), i congressisti intervenuti all’VIII congresso della FIGS approvarono a larghissima maggioranza l’adesione al neonato PCd’I e la nuova denominazione del movimento che diventava: “Federazione giovanile comunista”. Nel suo gruppo dirigente, composto da giovani formatisi negli anni della guerra, comparivano alcune personalità destinate ad assumere un ruolo di primo piano nella storia del PCI, come nel caso di Luigi Longo e Pietro Secchia.