La stanza senza fine
di Giovanni De Feo
Nico non riuscì a distinguere il momento esatto in cui il racconto del Mastro si insinuò a tal punto nel suo sonno da spaccarlo, come un cuneo di ferro in un ciocco di legno, penetrando in profondità nei suoi sogni. A un certo punto però si trovò a camminare dentro di essi.
Era un sogno, e insieme non lo era. Intanto perché era consapevole di stare sognando, e questo era inusuale. E poi perché era tutto molto netto, come se la tenebra fosse stata sbozzata dalla luna. Nel bosco innevato il ragazzo sentiva il crocchiare dei suoi piedi nudi. Era notte, e avrebbe dovuto fare un freddo cane ma il ragazzo lo accusava appena. Sotto la palme nude dei piedi, la neve non scottava. Pian piano dal sentiero illunato lo raggiunsero i rumori di una lotta.
Al di là di uno schermo fitto di betulle, bianche e slanciate come schiene, il ragazzo sentiva un suono di mani su mani, di braccia su braccia, un rotolar di corpi in terra. Sembrava di udire una folla di lottatori in un’arena; ma il ragazzo sapeva che i lottatori erano solo due.
Proprio quando stava per superare lo schermo degli alberi, nel bosco risuonò un grido.
Il ragazzo raddoppiò il passo. Quando sbirciò dentro la radura – uno spiazzo nevoso nelle cui strisciate di neve e fango si leggeva la storia della lotta – il ragazzo sapeva già cosa avrebbe visto: un uomo in piedi e un uomo in terra. Non due uomini, lo stesso identico uomo.
Nico si arrestò in tempo per vedere quello in piedi –vestiva una divisa grigio-verde– girarsi. Pur imbacuccato di scialli incrostati di ghiaccio, lo riconobbe. Era più magro del Farmacista, ed entrambi gli occhi scintillavano al chiarore lunare. Ma era il tenente, Bencivenga. L’uomo lo fissava; l’ansito bianco del suo fiato dilagava nella notte come latte.
Solo allora Nico riuscì a parlare, e nel sogno disse: «Perché lo hai fatto? Perché lo hai guardato in faccia?».
«E tu?» chiese l’uomo, secco. «Perché hai inseguito il tuo doppio a casa tua?»
«Dovevo sapere» disse Nico.
E annuendo, come a dire: “anche io”, il tenente si chinò per trascinare via l’altro corpo.
«Aspetta!» disse Nico avanzando un passo, «che vuol dire che gli hai rubato “uno sguardo”! Che sguardo?! Cosa vuole lui davvero da te?!»
Il tenente rimase di profilo contro la luna; poi voltò il capo. Il ragazzo sentì un rumore come di rametti spezzati, quando le vertebre del collo gli si frantumarono: la testa del tenente aveva fatto un giro completo e ora gli mostrava la nuca. Con la faccia che gli formicolava per lo choc il ragazzo guardò l’uomo ai loro piedi, nella neve. Quello, era il vero Bencivenga.
Il freddo cominciava finalmente a raggiungerlo, gli allagava i polmoni come un silenzio liquido, il gelo immemore che vive tra le stelle più lontane.
«Cosa vuoi?» disse infine il ragazzo. «Cosa vuoi dal Ciclope? E da me? Cosa vuoi da noi tutti?!» Nico vedeva il vapore dietro la sua nuca, come se la bocca dell’altro si fosse aperta.
Poi sentì che non erano più soli. Si girò.
Al posto delle betulle c’era una folla senza fine, immobile, che degradava nel bianco in tutte le direzioni. Erano le genti delle città ora deserte: donne, uomini, vecchi, bambini. Ognuno di loro aveva il corpo rivolto verso di lui e la testa torta innaturalmente all’indietro. Capì, nel sogno, che essi erano coloro che l’Effimero aveva disfatto, e che anche lui avrebbe fatto parte delle sue schiere, quando nel mondo sarebbe morta l’ultima persona che aveva memoria di lui. Dal racconto del Ciclope, tra i più vicini, Nico riconobbe Guglielmin e Scavoni, quest’ultimo ancora con la borsa a tracollo, quella della lettere. Poi l’uomo che era stato il tenente Bencivenga parlò, non solo per se stesso, per tutti.
«Noi» dissero la voci.