Il dottor Willi

di Michele Neri

Sono il padre dell’uomo con il mare dentro e, sebbene abbia fatto di tutto per evitarlo, sto per morire. Non sono spaventato, la stanchezza, la disillusione quotidiana l’ha reso accettabile: è per lui, nato dalla mia carne e che di questa ha preso solo il manto sottile necessario a rivestirlo e impedire che l’acqua fuoriesca, uno strato che non posso chiamare pelle, tanto è trasparente come la superficie del mare a riva. Ributtante, aggiungo, e meraviglioso. Anche adesso, mentre lo osservo di sottecchi, sdraiati uno di fianco all’altro sui lettini di un albergo in alta montagna, i raggi del sole fuoriusciti da cime lavanda, prima di annullarsi dentro la notte estiva illuminano ora quell’agglomerato di alghe tremolanti sotto la superficie del ventre, ora la risacca che, dal petto, monta senza un rumore fino alla base del collo.
Superata la prima infanzia, rassicurato sulla sua sopravvivenza –fu il dottor Willi di Innsbruck a dover ammettere il miracolo tangibile di una persona alimentata e riempita dall’acqua, e salata com’è al largo nei giorni in cui il mare si tende sotto un vento di settentrione –è a questo pensiero, alla sua esistenza dopo che la mia sarà conclusa, lui pupazzo fluido in mezzo alle asperità, che io dedicai angoscia e veglie interminabili. Sempre da solo perché, quando si trovò di fronte un neonato piegato in due come un pantalone sul braccio dell’infermiera, una zampogna cascante, braccine e gambette rugose a penzoloni, e che emanava quell’odore salmastro e corroborante oppure di alghe cotte dal sole e, occorre dirlo, nauseabonde, secondo che accostassimo il naso al viso piuttosto che alle numerose pieghe dove nei neonati si ferma il sudore, mia moglie scosse la testa senza dire una parola, si morse il labbro fino a far colare un rigo di sangue sul camicione bianco e, non appena fu in grado di andarsene dal piccolo ma attrezzato ospedale sulle pendici del monte Zirler, si dileguò, non dando più notizie di sé.
Ricordo che esaminai mio figlio, mentre trascorrevo la notte con lui in quella stanzetta d’ospedale dove avrei vissuto le successive 365; non dormendo, cercando di comprendere che cosa fosse accaduto e in quale punto oscuro della genesi, perché il mio bambino avesse più in comune con un aquario che con gli altri nuovi umani tra le braccia di genitori impacciati. Presto, forse quella stessa notte, l’ira o un inderogabile senso di protezione per quella creatura più indifesa delle altre, trasformò la domanda in un’altra meno oziosa e però affacciata su risposte che niente avrebbe potuto illuminare: che cosa sarebbe successo dopo.
Lo spogliai. Il sonno era pesante, l’avevano nutrito artificialmente e il latte si era fermato, creando una chiazza perlacea lì, dove un neonato avrebbe avuto il proprio stomaco minuto, per poi espandersi in bollicine pallide. Tenendolo in verticale, gli organi in miniatura si avviarono pigramente verso il basso: nuotavano dentro un liquido che opponeva una resistenza viscosa, simile –o era il primo confronto in cui incappasse la mente– alle lampade a forma di missile con le bolle di cera variopinta dei primi anni settanta, e che da ragazzino amavo tanto.
In poco più di un minuto, attorno alle caviglie e da lì salendo fino sopra al ginocchio si erano accatastati senza logica i polmoni, il triangolo rosso-bruno del fegato e altri organi flosci, uniti tra loro da filamenti che avrei voluto rigidi e di cui nessuno avrebbe capito la natura, nonostante indagini e raffronti con l’anatomia di qualunque forma di vita conosciuta.
Era una clessidra vivente: la giravo e il contenuto scendeva, oppure risaliva, sistemandosi con calma e senza che lui desse mostra di risentirne. Ribaltando mio figlio con delicatezza, gli organi ritrovavano il loro posto. Non erano troppo precisi nel ricollocarsi ma, anche di questo, non sembrava accorgersi. Il solo organo a non allontanarsi dalla sede era il cervello, più piccolo del normale, saldo nel cranio trasparente. Forse, pensai, non riusciva ad attraversare la strettoia della gola. E il pensiero ostruì la mia.
Quella prima notte tenni una lampada dietro di lui per studiare ogni corrente e anfratto di quel mare iridato. Cercavo uno scheletro, speravo che la natura avesse fornito un sostegno, ma non c’era niente che somigliasse a un osso o non oscillasse al primo urto. Mi calmai ricordando che non esiste neonato capace di restare seduto.
Arrivò l’alba; il sole, inondando il corpicino addormentato, portò alla superficie un limpido reticolo oro e turchese, per restituire poi al mio sguardo velato di lacrime, ogni sfumatura di azzurro, via via più impenetrabile in prossimità di quella che mio figlio, pur rivelandone eccezionalmente l’ideale dislocazione, non possedeva: la colonna vertebrale.
Lo girai, mi ostinai: il centro restava prigioniero delle tenebre.
Ora che siamo seduti a cena ancora una volta uno di fronte all’altro, alti uguali e protetti dal paravento che l’hotel è rapido a piazzare di sera in sera, estate dopo estate, devo riconoscere che, nonostante la mia dedizione più che trentennale, ben poco è cambiato. Nemmeno il silenzio tra noi. Nessun tentativo di comunicare ha avuto successo. Il suo aprire la bocca sembra rispondere a una necessità meccanica, o di incrementare la quantità d’ossigeno.
Non saprò mai ciò che lui pensava e se ne era capace; peggio: temeva e desiderava, perché allora sarei stato un padre, sì, non un voyeur. Amore imponderabile di padre, passione timorosa e che parla quando si è troppo lontani, per sentire. Io ne so qualcosa. Chi sono stato per lui, contenuto dall’attività immutabile che egli stesso contiene? La mia solitudine si nutriva del convincimento della sua; poi, quando nell’espressione rivedevo la consueta serenità disinteressata, tornava a soffocarmi la mia. La solitudine è mio figlio. Ha l’età che avevo quando è nato lui.
L’acqua di quel mare interiore non è più cristallina; il cibo ingerito ha posato una nebbia sbiadita, simile al plancton al microscopio o alla neve appena smossa in una palla di vetro. Il mio stupore non è però diminuito di fronte all’inusitata capacità di sciogliere i bocconi e di espellerli così da non lasciare concrezioni sul fondale, (del vetro mi verrebbe da dire accettando che l’errore riveli la mia volontà di passarci sopra uno straccio, quando si tratta del rivestimento interno della pelle); permettendomi, proprio ora, dopo che il figlio, da me accudito, ha ingerito la trota salmonata all’aneto servita il giovedì, di distinguere nei dettagli l’articolato profilo della barriera corallina principale che, negli anni dello sviluppo, prese il posto del bacino. E se un frammento di carne resta impigliato tra i denti delle madrepore, i policheti e altri organismi di cui non ho imparato i nomi si affrettano a pulire il proprio domicilio.
Talvolta essere l’unico ad aver assistito a questa come a ogni procedura del suo esistere, fa sorgere il dubbio di essermi inventato tutto; perché ho fatto in modo che mio figlio non si presentasse mai a tavola o di fronte a qualcuno, se non indossando una tunica molto più ampia del necessario, un indumento che non richiedesse la spiegazione degli improvvisi rigonfiamenti e avvallamenti sotto il tessuto. Che cosa rispondere a chi già non giustificava il suo perenne procedere sulla carrozzella, un ragazzo di cui erano visibili occhi e bocca, essendo il resto del volto fasciato, il capo coperto perché il cervello non si trovasse nudo come in un barattolo di formaldeide; per poi camminare appeso al mio braccio e, pur lento, prudente, suscitando nel corpo una concatenazione di onde proporzionali alla velocità di movimento. Mi dispiace non aver mostrato a nessuno l’incantevole braccio (curiosa corrispondenza) di mare che termina in falangi verdazzurre, con miriadi di bollicine ripiene di fitoplancton cremisi.
E’ stata una vita tormentata e soprattutto laboriosa: lo sforzo incessante di non presentarmi sconfitto davanti a lui, mi ha probabilmente ammalato. Riconoscendomi, oltre la tovaglia sparecchiata, nei suoi occhi trasognati e della trasparenza pietosa di meduse affiorate, davanti al rosa vibrante delle nostre rocce dolomitiche, io provo però fino in fondo il piacere dell’equità. L’enigma con cui ho convissuto per trent’anni e che sto per abbandonare, insieme all’incapacità di risolverlo, ha risvegliato e stretto i nostri vincoli di sangue. Il mistero si è impadronito del mio amore e non ha ceduto spazio, ma l’ha tenuto in vita fino a qui, alla vigilia del mio e suo dissolvimento. E’ stato un fatto compiuto e sono grato.
Abbiamo attraversato insieme i confini della ragione, sigillata dentro un’acqua su cui non si è poggiato cielo o vento. Avrà sognato un’isola su cui posare un’impronta? Non ho invidiato un figlio normale. Ogni strada è buona se percorsa tutta, diceva mio padre.
Ancora bambino mi costrinse al silenzio e alla segretezza. Poteva crescere per diventare l’incredibile e grottesco caso dell’uomo con il mare dentro. Preferii comprare il riserbo del personale di quell’ospedale tirolese, minacciando tutti, in caso avessero rivelato un dettaglio di quell’evento straordinario, delle peggiori ritorsioni. Il mio avvertimento fu una bottiglia scagliata contro il muro. Spaventati, ammutolirono, io calmo, un minuto per scegliere un destino. Decisione giusta e l’intuizione che il dottor Willi soltanto avrebbe potuto accompagnarci in una spedizione oltre il sistema solare della fisiologia, fece il resto. Il dottor Willi, mio testimone, spalla nell’incredulità, fu la coscienza critica, portatore di una conoscenza incapace a dare risposte. Almeno una, aritmetica, elementare. Perché noi siamo fatti per sette decimi d’acqua e lui dieci.
Lo stetoscopio appoggiato sopra un cuore che all’improvviso, anche se mio figlio rimaneva immobile, beccheggiava come un gavitello o era nascosto da un’alga che volteggiava dopo essersi staccata dai coralli che parodiavano la gabbia toracica. Il dottor Willi rinunciò, né c’era bisogno di cure: mio figlio si era dimostrato un ecosistema autosufficiente. Tornava però a trovarci ogni settimana nel nostro chalet a metà costa, battendo con le nocche sulla vetrata intiepidita dal sole pomeridiano. Con il viso ben rasato, il capello corto, il fisico compatto, regalava ore di concretezza alla nostra fragilità, alla comune deriva.
Prima di entrare, confessò il giorno in cui mio figlio festeggiò cinque anni, aveva sempre avuto paura di non trovarlo vivo. Oltre ai rischi prevedibili e che esaurivano i prontuari medici –e se una lama avesse provocato la fuoriuscita dell’acqua, sarebbe bastata una trasfusione allo stesso grado di salinità?– c’erano quelli sconosciuti. E se i molluschi che con l’adolescenza avevano colonizzato gli arti si fossero rivelati nocivi per l’organismo? Tentare con la somministrazione forzata di gamberetti famelici? Imparammo a memoria manuali di biologia marina.
Il dottore è suo padre tanto quanto me; meglio, perché avrebbe saputo dargli più risposte.
Il mare. Dentro. Tornava di continuo l’immagine di un nuotatore. Inutile. Lui stava diventando un uomo con il mare dentro. L’inversione diventò una sfida: assicurato il bambino a una routine efficace, trascorsi ogni giorno cercando l’origine di questo ribaltamento. Lo cercai lì, dove poteva trovarsi. Nella mia storia.

Gli ospiti dell’albergo si sono intanto ritirati in salotto a progettare passeggiate per l’indomani bevendo acquavite di frutta. Per noi è già l’ora della buonanotte, quando, per puro egoismo, mi dispiace abbandonarlo: al buio, appena si addormenta e le sue attività rallentano di colpo, gli organi e gli altri inquilini del mare cambiano colore, accendendosi di fluorescenze vivaci; non mi stanco di guardare l’intelligente sistema d’illuminazione d’emergenza che mio figlio attiva la notte, creando sulle pareti della stanza lo stesso sfuggente diorama di una lucetta per bambini. Esponendolo alla luna, ho visto la famosa strada d’argento attraversare il suo corpo.

Dorme nudo, senza tunica. Lo bacio anche questa notte sulla fronte che s’infossa un po’. Ho stabilito che lui provi qualcosa: traduco così una fugace lucentezza nello sguardo, smarrito nel mio. Mi ero illuso che la risposta fosse il sollevarsi del suo cuore quando era invece la reazione al contatto con un corpo estraneo, più caldo. Mi sdraio sul letto, nella stanza accanto alla sua, la porta comunicante spalancata, ma non ho mai ricevuto richieste. Quando sono intervenuto, lo devo al mio intuito, tardivo.
Era bambino, decisi di fargli scoprire il mare. Novembre, un vento triste trascinava nuvole ancora più afflitte sopra l’oceano. Non c’era nessuno. Sempre più entusiasta man mano che mi avvicinavo alla riva trascinando il pesante passeggino sulla sabbia, mi domandavo quale sarebbe stato l’effetto. Avrebbe visto una casa? Un’affinità liquida?
Per un’ora non successe niente. Restammo immobili: mio figlio appoggiato a me, le gambe tra le mie, a un passo dall’acqua verdastra di una mattinata bretone. Fu il mare a muoversi, ritirandosi da noi e facendo emergere alghe e rocce, restringendosi in pozze luccicanti risucchiate da un fondale senza vita; la marea si stava abbassando a gran velocità. Mio figlio uscì dal torpore: la faccia sembrò asciugarsi, trascolorò. Aveva cominciato a raggrinzirsi davanti a me. Erano passati dieci, venti minuti. L’acqua usciva dalla sua bocca spalancata. Non riuscii a chiuderla, era acciaio. Credetti di perderlo. Le palpebre non potevano nascondere un’onda nerastra che saliva dal profondo. Presi in braccio quel corpo risucchiato da un vortice interiore e scappai, rischiando, nella fretta, di strappare il suo involucro, maledicendomi per non aver pensato alla luna, alla marea, allo sconquasso che la gravità avrebbe provocato alla sua placida pozza. Anche in quell’occasione aveva taciuto. Avrebbe dovuto dubitare di suo padre?
Ci volle una settimana, perché il corpo tornasse al normale turgore e l’omeostasi riprendesse il controllo. Mi chiusi con lui nello chalet, vivendo per lui, senza abbandonarlo un secondo, sperando che per effetto dello choc, qualcosa dentro di lui si sarebbe risvegliato: per punirmi. Urlavo contro di me, incoraggiandolo a ripetere: come hai potuto? Non mi allontanai più dalle montagne. Stabilii di non scendere sotto gli ottocento metri di quota: bastava evocare il passato distante milioni di anni e in cui un mare tropicale copriva queste vette, per sentirmi male.
Fu raccontando per la centesima volta l’episodio della marea al dottor Willi, a notte fonda –fuori infuriava la prima bufera invernale– e cercando l’ennesima espiazione, che giunsi senza accorgermene a un’ipotesi del perché mio figlio fosse nato con il mare dentro e non fuori. Il dottore mi ascoltava con il bicchiere stretto in mano mentre, da una zona a lungo inesplorata della memoria, si snodava l’aneddoto contenente una richiesta disperata, una mia supplica che, al tempo dei fatti, non avevo giudicato colpevole, piuttosto l’espressione di un diritto essenziale, una liberazione.
“Stavo passando le vacanze di Natale in Tailandia, con i miei genitori. Eravamo su un’isola vicina a Phuket, abitata ancora da pescatori con quelle barche tipiche dal doppio bilanciere. Allora avvampavo per ogni cambiamento: temevo la noia, la polvere sopra le giornate. Era naturale girovagare, mettermi alla prova, collezionare crepe nelle superfici lisce: avevo quindici anni.
“Ero un buon nuotatore. Quattro, cinque miglia marine non rappresentavano un problema. Un pomeriggio, mentre gli altri sonnecchiavano per ripararsi dal caldo, mi diressi al largo, sicuro di raggiungere un’isoletta che avevo studiato dalla riva. Era disabitata, di notte scompariva totalmente nel mare: volevo lasciare lì un segno qualsiasi del mio passaggio, rubare un frutto esotico da un albero e tornare prima che fosse buio.
“Nuotavo nell’acqua fin troppo calda, procedevo con vigore, forse troppo sicuro delle mie possibilità e l’isola non si avvicinava; restava un barbaglio all’orizzonte, ma il mare era così docile da farmi sentire un suo eletto. Avevo quindici anni. Arrivato quasi a metà, l’isola non solo non si avvicinava, aveva cominciato a spostarsi; nonostante cercassi di mantenere una direzione costante, continuava a ripresentarsi a sinistra. Mi giravo, raddoppiavo l’energia delle bracciate, ma l’isola non era più davanti. Mi trovavo nel bel mezzo di una corrente che, per quanto forte, dalla riva non aveva dato segni di presenza; ero nelle sue mani segrete, la vista appannata dallo sforzo, mentre tentavo di soppesare distanze e opportunità, sollevando di qualche centimetro la testa sopra la sterminata spianata blu. Ciò che non avevo mai conosciuto attraversò il mio corpo come una fune di ghiaccio tirata fuori dalla bocca. La paura. La paura dei cento metri vuoti su cui ero sospeso, non più solido di una lettera caduta da una nave. Il terrore di non tornare, di essere perduto, parola su cui fantasticavo e dava dipendenza a quell’età, e che ora toglieva il fiato. Alzai di più la testa, per vedere una barca, una scalfittura qualsiasi in quell’orizzonte di un’indifferenza terrificante; ma i pescatori erano rincasati e i turisti non si avventuravano senza di loro. M’immaginai dall’alto: intento a spostare una massa che non aveva fine. Un chiodo dentro una parete blu”.
Mentre parlavo, alla base della finestra la neve aveva formato uno zoccolo spesso e duro che contrastava con la vaghezza della notte. Nonostante il camino e l’isolamento perfetto delle case montane, stavo rabbrividendo. Guardai il dottor Willi. Lui annuì, io non capii a cosa, teneva alle labbra il bicchiere di whisky vuoto da mezz’ora.
“Mi arrestai lì, facendomi trasportare dalla corrente verso il mare aperto. Guardavo il cielo sopra di me quasi non l’avessi notato prima, preoccupato di quell’arrossamento ai bordi che indicava il rapido passare del tempo. Lottavo contro il panico e vincere era forse possibile, ma non capivo cosa fare della vittoria e iniziavo a sentire i crampi e il freddo; non riuscivo a impormi di ragionare per lanciare un’ultima scommessa. E il panico irruppe tranciando i pensieri, lasciando balbettii. L’acqua m’invitava con lusinghe fatali: abbracciandomi, voleva che io entrassi di più in lei, così che potesse entrare in me. Diventare una cosa sola. Ricominciai ad aggredire la corrente…”.
“E poi”? Vedendomi impallidire, il dottor Willi mi aveva versato da bere.
“Poi mi fermai in quella che a me sembrò una trasparente oasi di pace. Non era vero, ma la paura era stanca. Il corpo stremato, il passato concluso e il futuro vuoto, o meglio viveva lì, piccolo come me, su un’inesistente terra d’acqua che il mio terrore aveva inventato perché non me ne andassi da lui.
“Fu allora che pregai il mare di restare fuori da me, di lasciarmi in pace e non avvicinarsi più di così. Mi rivolsi a lui come se fosse disposto ad ascoltarmi, supplicai le onde di non trasformarmi in un uomo con il mare dentro, promettendo qualsiasi cosa, mettendo in gioco il futuro mio e di ogni essere vivente, con una bocca bruciata dal sale. Non posso ricordare l’istante perché fu astratto e grandioso, mi schiacciava e sollevava: il motore del piccolo fuoribordo dell’hotel gettava la sua celestiale musica d’ingranaggi oltre le pulsazioni della testa e lo sciabordio dei flutti. Più forte ancora, mio padre gridava il mio nome…“.
Ecco arrivata la mia sera. Il solstizio d’estate è passato da poco e la temperatura è così mite d’averci permesso di cenare all’aperto, grati alla persistenza della luce in cielo, seduti all’ultimo tavolo della terrazza su cui i vacanzieri si dimostrano rapiti dalla bellezza. Mio figlio è di fronte a me. Immobile e ormai addormentato. La luna ha trascinato sopra di noi la sua calma sovrana. L’odore di fieno ci fa visita; inebria, tanto è giovane. Rido pensando alla recita del plancton luminescente che sta per iniziare.
Non intendo svegliare chi ha vissuto in un sogno per salutarlo proprio ora: sono sicuro che mio figlio mi perdonerà, da qualche parte, tra le sue sabbie e i coralli dalle ridicole corna colorate.
Ho capito che quando la natura esaudisce una tua richiesta eccessiva, il resto della vita non basterà a subire le conseguenze di quella generosità smisurata.
Il dottor Willi sta salendo con la sua vecchia Volvo da cui ha tolto i pacchi di libri comprati e non letti per accogliere mio figlio. Dopo il mio racconto, aveva provato a consolarmi, quel caro dottore. “La sua è immaginazione, pensiero magico”, non capendo che, senza quel senso di colpa, niente, per me, avrebbe avuto senso.
L’acqua del mare è tornata. Anzi, non si era allontanata da me ma sto per incontrarla per la prima volta. Non è mai stata così vicina, è ovunque e mi arrendo senza resisterle, conto le stelle e riprovo: non riesco a parlare. E come potrei. Nel momento in cui finalmente prendo il largo, vengo a conoscere tutto di lui.

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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