Conversazione con Paolo Zardi su “L’invenzione degli animali”
A cura di Gianluca Garrapa
L’invenzione degli animali è l’ultimo romanzo di Paolo Zardi, uscito a settembre del 2019 per Chiarelettere nella collana Narrazioni serie «Altrove» diretta da Michele Vaccari. Protagonisti del romanzo, ambientato in un’Europa piegata da guerre intestine e governata solo dai principi dell’economia, sono quattro geniali menti assunte dalla Ki-Kowy, la più grande azienda del mondo impegnata nel grandioso progetto di plasmare un nuovo paradigma dell’umanità. Lucia Franti, una scienziata italiana, è impegnata nel progetto d’ibridazione genetica denominato “Progetto vita eterna”: le cavie sono animali inventati per essere donatori di organi. E proprio la morte di uno di questi animali diventa l’imprevisto profondamente umano che sconvolge i perversi piani dell’azienda e costringe Lucia e i suoi sodali a una fuga per la libertà…
Gianluca Garrapa: «Allora si era fatta più vicina a Patrick, e aveva appoggiato la testa sulla sua grossa spalla; e lui l’aveva cinta con un braccio e l’aveva stretta piano… Era un momento prima che tutto crollasse»: è un passaggio del penultimo capitolo, La fine, che richiama una scena del quarto capitolo, La cena, svoltasi otto mesi prima durante la cena aziendale. E anche nel quarto capitolo si anticipa, in maniera sibillina, quel che accadrà otto mesi dopo. Non è l’unico caso d’intreccio, o forse meglio mutuare un termine della fisica quantistica: entanglement. L’altra situazione in cui s’intrecciano i passaggi riguarda un oggetto che abita il primo capitolo, Klagenfurt: un fucile, «Un fucile! Cosa ci faceva un fucile a casa loro?» e che ritorna nel dodicesimo capitolo, Viaggio di nozze. Il lettore scoprirà che i capitoli sono in qualche modo imbastiti per opposti, attraverso una partitura che contrappone positivo a negativo. Ho parlato di entanglement, d’intreccio, come se le due mani sulla tastiera del pianoforte se incrociassero e trasformassero vicendevolmente melodia e armonia. Come i tuoi precedenti romanzi, anche qui scorgo polifonie e partiture musicali, matematica e grazia, il fantasma di Bach: «provarono Aria sulla quarta corda». Raccontaci un po’ la composizione di questo romanzo dall’idea dell’ibridazione genetica.
Paolo Zardi: Ripercorrere le tappe che hanno portato alla realizzazione di un romanzo è un processo particolarmente divertente, perché consente di capire, a posteriori, come funziona la propria testa. Nel caso di questo libro, il punto di partenza più concreto si posiziona alla fine del febbraio del 2016; e poiché sono un grande amante delle date (tutti i ricordi della mia vita passata sono organizzati in ordine rigidamente cronologico), posso dire che il 18 febbraio di quell’anno non avevo ancora pensato a nulla, e che giovedì 25 febbraio, una settimana dopo, l’idea iniziale si era già formata. La scintilla è scoccata grazie alla lettura del libro “Oltre il limite. Undici scoperte che hanno rivoluzionato la scienza” di Michael Brooks (trad. Stefano Chiapello, V. L. Gill, Jasmina Trifoni, Codice edizioni), e in particolare a un suo capitolo in cui si parlava di ibridazione genetica. Ho una particolare passione per i saggi che, da scrittore, leggo spesso in chiave “narrativa”, cioè domandandomi che tipo di problemi – etici, morali, esistenziali – potrebbero porre a un essere umano. Ecco, il 25 febbraio avevo già capito che volevo raccontare la storia di una persona, di una donna, per essere precisi, che si trovava a intuire una qualche forma di umanità nel corpo ibridato di un animale (ripensandoci, allora l’aspetto affettivo di questa relazione tra essere umano e cavia era molto più evidente e definito).
Nel corso dei due anni successivi, mentre portavo avanti altri progetti, ho continuato a pensare a questa storia; quando poi all’inizio del 2018 Michele Vaccari mi ha proposto di scrivere qualcosa per la collana che stava mettendo in piedi per Chiarelettere, ho pensato che fosse finalmente arrivata l’occasione giusta. A quel punto, ho deciso di provare a inserire, nel tessuto della storia, anche un’altra mia grande passione: la teoria sulla nascita della coscienza che Julian Jaynes spiega in uno dei libri più belli che io abbia mai letto, e cioè “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” (trad. Libero Sosio, Adelphi); e poi, in fase di realizzazione, è entrato in gioco un altro saggio, “La guerra delle intelligenze”, di Alexandre Laurent (trad. Marella Nappi, EDT), sul tema del potere che le grandi aziende stanno accumulando. E vista la complessità degli argomenti che intendevo trattare, ho deciso che la storia avrebbe dovuto avere una struttura solida e ben architettata, con elementi di suspense, anticipazioni, colpi di scena, prendendo in prestito alcune soluzione usate, tipicamente, nei thriller.
G.G.: Che ruolo hanno i simboli che utilizzi a inizio di capitolo nell’architettura del romanzo?
P.Z.: Tra le tante fonti di ispirazione, ci sono i thriller, così diversi tra loro, di Ken Follet, Frederic Forsyth, John Le Carrè, John Grisham e Michael Crichton. Li ho amati molto, per un certo periodo della mia vita. L’idea dei simboli posti all’inizio di alcuni capitoli è un omaggio a “Jurassic Park”.
G.G.: «Mondi di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente!» scrivi in esergo citando le parole tratte dallo scritto di Julian Jaynes, autore de Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, tradotto in Italia per Adelphi da Libero Sosio. Questo romanzo, insieme a Oltre il limite, di Micheal Brooks, tradotto in Italia per Codice da Stefano Chiapello, Valeria Lucia Gili e Jasmina Trifoni hanno profondamente e appassionatamente influenzato il tuo lavoro. Nella tua scrittura convivono precisione e passione, legge e desiderio. In che modo le nozioni antropologiche e scientifiche hanno delimitato e stimolato la tua pratica letteraria?
P.Z.: Quando si scrive un romanzo, o una storia con una forma qualsiasi, il punto di partenza è sempre il “problema” che il personaggio principale si trova ad affrontare; ma sebbene il mondo sia piuttosto fantasioso nell’inventare situazioni complicate per gli esseri umani, bisogna ammettere che spesso l’insieme delle “mosse d’apertura” è piuttosto ridotto: un lutto, un tradimento, la perdita del lavoro, un meteorite che si sta schiantando sulla terra. La formazione scientifica che ho ricevuto, e questa doppia vita di autore e ingegnere, mi hanno invogliato a scegliere una strada diversa; se mi guardo indietro, tra l’altro, ricordo che già ai tempi dell’Università avevo pensato di scrivere un romanzo incentrato sulla Teoria dei Sistemi: un giovane ingegnere, descrivendo il sistema di smaltimento delle scorie nucleari con un modello matematico autoregressivo a media mobile, scopriva un traffico illecito di uranio impoverito… Allora, però, non sapevo neanche da che parte si iniziasse!
Per “L’invenzione degli animali”, ho scelto di infilare i miei personaggi in una questione piuttosto delicata, che, a grandi linee, riguarda i limiti etici alla quale l’economia dovrebbe sottostare. Non ci sono risposte, ma solo domande, come nella miglior tradizione del romanzo.
G.G.: «Ascoltami, il segreto è che la morale è solo un altro modo di dire la parola economia. Capito? È questa la chiave di tutto.» Questa è pure la morale di Govind Kapoor «uno dei più alti dirigenti della Ki-Kowy», di Bi, il capo di Lucia Franti «alto, con i baffi neri e la riga di lato», e del fondatore del progetto «Julius Moreau, il fondatore metà canadese e metà americano». Oggi com’è vincolata la morale di uno scrittore al mercato editoriale?
P.Z.: Sospetto di non essere la persona più indicata per dare una risposta a questa domanda: il mio rapporto con il mercato editoriale è piuttosto superficiale, nel senso che sono, a tutti gli effetti, un autore di nicchia le cui vendite possono essere considerate soddisfacenti solo se rapportate ai numeri che circolano nella piccola editoria. In questi anni, non mi è mai successo di pensare alle ricadute, in termini di vendite, dei libri che stavo scrivendo; qualche volta mi è stato chiesto di togliere qualche eccesso qua e là ma non credo che la sostanza di ciò che volevo raccontare sia mai stata compromessa. I vincoli potrebbero nascere nel momento in cui la scrittura diventa una professione, lo strumento con il quale ci si sostenta; al momento, per me il problema non si pone.
G.G.: «Sono quindi tornata alla carta e alla penna, come quando andavo alle elementari.» scrive Lucia Franti. La penna è un oggetto che appare desueto nell’ambientazione nel romanzo, lo usa Lucia per scrivere una lettera a mano dal Pakistan a lume di candela perché internet non funziona, la utilizza Bi nel suo studio per non tradire il suo nervosismo, a penna sono le aggiunte di Tibor sui fascicoli che denunciano tutto il torbido dell’affare Ki-Kowy. L’oggetto desueto è anche funzionale ed esprime il ritorno di un’umanità repressa dalla tecnologia, di una coscienza offuscata da un corpo costruito in laboratorio, una beatificante regressione. Il tuo romanzo è potente anche in questi piccoli particolari, nelle citazioni filosofiche che guarniscono un thriller distopico e metaforicamente attualissimo: che ne è della scrittura quando lascia la tastiera e torna al ritmo più lento del corpo-penna? Oppure il passaggio verso il digitale è irreversibile?
P.Z.: Ho vissuto il passaggio dalla penna alla tastiera di un computer come una liberazione, e se per qualche motivo non potessi più usare un computer, probabilmente smetterei di scrivere. Ci sono invenzioni che hanno segnato un passaggio irreversibile, come l’automobile, la mail, il televisore, la lavatrice; nessuna di queste esclude l’utilizzo delle vecchie tecnologie, ma queste risultano marginali, se non altro da un punto di vista statistico. Nel caso della scrittura, vedo che esistono ancora persone che preferiscono la penna; nella lettura, invece, il libro cartaceo tiene duro. Ma credo che raramente le trasformazioni abbiano una qualche base ideologica: vince sempre la funzionalità migliore (e il libro di carta è ancora ineguagliato, da questo punto di vista).
G.G.: «György ricevette il compito di dirigere un’équipe di studiosi per attestare il «grado di umanità» di quegli animali.»: la nota, il colore fondamentale dei tuoi romanzi è proprio il concetto e la pratica dell’umanità, anche i legami familiari sono fondanti, quando funzionano e quando sono disfunzionali. Ma io vorrei chiederti di immaginare un grado zero dell’umanità che iniziasse a svilupparsi in un androide: la letteratura continuerà a essere prerogativa solo degli… umani?
P.Z.: Durante le vacanze di Natale ho letto un saggio di Gary Kasparov sulle sue due celebri sfide con Deep Blue, il supercomputer di IBM, che al secondo assalto sconfisse l’allora campione del mondo in un match al meglio di sei partite. Negli anni Cinquanta Nabokov aveva detto che nessuna macchina sarebbe mai stata in grado di vincere una partita a scacchi; negli stessi anni, Turing aveva profetizzato che entro il 2000 l’uomo sarebbe stato sconfitto da un computer: la storia ci dice che aveva ragione Turing. Kasparov, però, sostiene che il traguardo raggiunto da Deep Blue nel 1997 dice più sui limiti del gioco degli scacchi (che Nabokov evidentemente non aveva intravisto) che sulla potenza dell’intelligenza artificiale, o di quello della mente umana: gli algoritmi utilizzati dai motori scacchistici si basano sulla forza bruta, e cioè sull’enorme potenza di calcolo, ma non sono in grado di replicare il particolare modo di ragionare di uno scacchista – il tipo di percorso mentale che compie per impostare una strategia. Anche nella traduzione si sono fatti passi da gigante, e, pure in questo approccio usato, non si è tentato di imitare la mente umana, ma si è sfruttata, invece, l’enorme mole di dati a disposizione dalle aziende che detengono i Big Data. Chi sviluppa i programmi di traduzione talvolta non conosce né la lingua di partenza né di quella di arrivo, perché è irrilevante; ma mi azzardo a dire che presto le traduzioni automatiche saranno più precise di quelle umane: è solo questione di tempo.
E sulla scrittura? Qualche anno fa la Microsoft ha realizzato un esperimento di intelligenza artificiale che ha suscitato un grande interesse: dopo aver creato Tay, un software di tipo bot in grado di interagire con persone umane attraverso brevi messaggi, il team di sviluppatori ha creato un profilo su Twitter e glielo ha dato in gestione. Dopo un giorno, però, hanno dovuto bloccarlo: interagendo con gli utenti della piattaforma, e imparando il loro modo di pensare, Tay era diventato un suprematista bianco neo-nazista. Se questo è il primo androide che ha prodotto testi scritti, non si tratta sicuramente di una bella partenza. Nel libro di Kasparov viene ripreso un celebre aforisma: l’intelligenza umana è tutto quello che i computer non sanno ancora fare.
G.G.: Lucia Franti, la ribelle, il suo ragazzo Patrick, che nel nome evoca il padre, Emily Stankovich, soprannominata Dickinson, il nome dell’animale Victor poi, è indicativo: come nascono questi nomi così eloquenti?
P.Z.: I nomi sono allo stesso tempo un problema, un’opportunità e una forma di divertimento. In due dei miei romanzi precedenti, ad esempio, i protagonisti non avevano alcun nome, per motivi opposti.
Andando per ordine, il cognome di Lucia è un chiaro riferimento a “Cuore” di De Amicis, e al saggio di Eco che parlava dell’unico personaggio ribelle di quel romanzo zuccheroso; la protagonista lo eredita dal padre, che era il personaggio principale del mio romanzo precedente, “Tutto male finché dura”. Per Patrick (come per György, Josefa, Govind Kapoor), ho cercato su Google il nome più diffuso nei loro paesi. La scelta di Emily Stankovich è un omaggio a una ragazza americana che si è laureata l’anno scorso a Houston, in Texas, portando come tesi di laurea la traduzione di “XXI Secolo”. Victor, infine, è il nome che avevo dato al “villain” del secondo romanzo che ho scritto, un libro mai pubblicato: mi è sempre piaciuto, per motivi a me ignoti, e ho voluto usarlo anche qui.
G.G.: E i luoghi, i luoghi… i castelli della Loira, Mastung nel Pakistan, le autostrade, Heidelberg: «Cenarono in un ristorante con cucina tedesca vicino alle imponenti rovine del Castello di Heidelberg. Marianne le parlò della città – di Hegel, di Weber e della Arendt – e del Centro per l’Astronomia»: che rapporto hai con i luoghi del romanzo?
P.Z.: Ho passato il Capodanno del 2018 e i giorni immediatamente precedenti a Klagenfurt, dove si svolgono i primi due capitoli del romanzo: è una piccola città ben curata e priva di qualsiasi reale attrattiva. Ho soggiornato, a più riprese, nella Cité Universitaire di Parigi (proprio là ho compiuto i miei 18 anni in una camera della Maison de l’Asie du Sud Est, una curiosa costruzione a forma di Pagoda); sono letteralmente impazzito quando ho visto per la prima volta la zona de La Défense, dove si trovano gli uffici in cui lavora Lucia, e ho passeggiato con il cuore gonfio di gioia attraverso le strade della rive droite della Senna, dove i due protagonisti vanno a vivere dopo un breve periodo passato dalle parti di Place d’Italie, e dove assistono a una scena che ho vissuto di persona: piccole ballerine in tutù che ballano in una sala affacciata su un giardino interno. Parigi è una città che amo. Sono stato anche a Heidelberg e a Besançon, nel 1999, ma non ho mai visto i castelli della Loira e non ho mai avuto la fortuna di andare in Pakistan. Sono però un vero appassionato delle mappe di Google, e di Street View, invenzioni che rendono questo secolo (comunque complicato) superiore a tutti gli altri. I due aspetti che per me sono indispensabili, nella scelta dei luoghi, sono la verosimiglianza e la partecipazione emotiva, cioè la sensazione che esista un legame tra la voce che racconta la storia e quel particolare spazio; la struttura de “L’invenzione degli animali”, e il suo appartenere al filone dei thriller internazionali, mi hanno permesso di sbizzarrirmi un po’.