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I due volti della corona

ph. David Dawson

di Marco Viscardi

Willis: "Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune. 

Alcuni dei miei matti fantasticano di essere re. 

Lui è il Re, e dove andrà a rifugiarsi la sua fantasia?"

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Regina: "Sì, signor Re, siamo stati felici."

Re: "E lo saremo ancora. Lo saremo ancora."

Alan Bennett, La Pazzia di re Giorgio. 

 

Nella trama magnifica e incontenibile dell’Orlando Furioso, la battaglia di Parigi è lo scontro fra la civiltà e la forza bruta. Il campo pagano, dopo lungo assedio, ha deciso di varcare lo spazio umano della città, protetto da mura secolari. Il campione degli infedeli, Rodomonte – incarnazione della pura forza distruttiva – fa strage del più nobile sangue cristiano. La città, devastata dal suo furore, sembra oramai caduta ma quando i cittadini, tutti radunati in una piazza, vedono re Carlo in pericolo, si accendono guidati da un’unica volontà. «La persona del re sì i cori accende, | ch’ognun prend’arme, ognuno animo prende» (XVIII, 12, 7-8). La moltitudine urbana si slancia contro la bestia e la sovrasta, costringendola alla fuga. Il corpo collettivo ha battuto il nemico, ispirato dalla sola presenza del sangue regale.

Questo nel testo del poema, ma l’Orlando è una terra smisurata, difficile da contenere con lo sguardo. Un continente composito di cui fa parte un arcipelago di canti, cinque per la precisione, che nessun cartografo è stato capace di collocare nella giusta posizione. Cinque canti scritti forse prima del 1521, a cui persino Ariosto non ha saputo trovare uno spazio, una collocazione. Vi si racconta una storia cupa di divisioni del campo cristiano, di lealtà tradite e fratelli che uccidono i fratelli. Si combatte sui campi di Germania e di Boemia, gli stessi in cui, mentre Ariosto lavorava al poema, si era diffuso il verbo protestante. Il mondo diventava incerto, le stelle fisse cominciavano a vacillare, nulla di quello che pareva incrollabile si sottraeva in realtà alle leggi del movimento e dell’entropia. I Cinque Canti sono il lato oscuro del Furioso. La loro conclusione è tremenda e ridicola: si vede Carlo cadere da cavallo nella rapida ritirata dal campo di battaglia, e ciascuno è così preso da sé e dal proprio destino che i vincoli sacri del dovere non esistono più. Il re dei re scivola dalla sella e nessuno semplicemente se ne accorge.

I Re sono l’ordine del mondo, ma quando cadono nessuno se ne accorge. L’edificio della monarchia è solido solo per una illusione ottica, ma le sue strutture sono deboli, possono cadere da un momento all’altro se il sovrano è incapace di conservarle e trasmettere a chi verrà dopo di lui. The Crown è la serie televisiva sul potere monarchico e sulla sua fragilità nascosta. La prima stagione era sembrata un po’ incerta, impelagata in cose già viste e digerite, ma con lo scorrere delle puntate la narrazione si è fatta sempre più stringente, i personaggi meglio delineati, gli abiti e gli arredi sempre più credibili. The Crown non è una serie sulla regina ma sulla corona, sulla sua impersonalità, sul peso e le rinunce che comporta quella vita di lusso.

Con l’incedere delle stagioni, diventa sempre più chiaro che il sacrificio imposto dalla corona è accettare un destino di impersonalità e di inazione. Il trono ordina di abdicare alla propria individualità: accettare il destino supremo di essere il primo motore immobile, con la consapevolezza che anche il sole fa parte di una meccanica celeste che non può in nessun modo alterare. È una volontaria rinuncia, una abdicazione appunto, che porta chi non la compie ad abdicare alla corona. Se esiste un cattivo in The Crown non è Mountbatten, con le sue velleitarie pretese di incidere nella storia britannica, ma il duca di Windsor: il dandy che si è svincolato dai propri obblighi per godere di un palcoscenico mondano, il predestinato che ha rifiutato l’unzione.

Una delle puntate meglio riuscite di tutta la serie è quella dedicata alla consacrazione reale, all’incoronazione che eleva il sovrano al di sopra dello stato umano. La contrapposizione fra il dovere e l’individualità, verrebbe da dire fra l’invisibilità e l’individualità, è resa dalla partita doppia della giovane principessa che prende possesso dei simboli antichi della regalità mentre lo zio, diventato estraneo, di quell’avvenimento è spettatore a distanza che segue la cerimonia in televisione commentandola per i suoi raffinatissimi ospiti nel salotto d’esilio. Era il 2 giugno 1953, non esisteva più l’impero britannico e molte delle monarchie che erano in piedi al tempo dell’incoronazione di Giorgio VI erano scomparse, ma il momento dell’unzione del sovrano, della sua elevazione sopra gli altri uomini, conservava la sua sacralità, tanto da essere sottratta allo sguardo onnivoro delle macchine da presa. Marc Bloch era eroicamente morto per la libertà francese, ma i re taumaturghi esistevano ancora. La divinizzazione della regina è privilegio solo di chi è presente fisicamente nell’abazia; gli altri, anche e soprattutto se re in esilio, non possono vederla.

Il duca di Windsor è una figura patetica, incompiuta, impotente. In questa stagione, la morte di colui che era stato Edoardo VIII, al di là delle forme, è una fine senza riconciliazione. La linea della rinuncia e del servizio e quelle della vanità e persino della vitalità non si incontrano neppure alla fine, non vengono accordare in un momento di pietas. Il bacio è un bacio mancato.

L’ultima puntata della prima stagione, solennemente titolata Gloriana, segna il passaggio dall’umano all’atemporale, da Elisabeth Windsor a Elisabeth Regina. La narrazione culmina nella formula magica della sovranità, in latino – antica lingua del potere appena sporcata dall’uso dei britanni che trasforma ‘regina’ in ‘regiaina’. Elisabeth Regiaina! Cecil Beaton, fotografo di corte uso a recitare versi di Tennynson e Shakespeare mentre ritrae i regali, pronuncia queste parole arcane mentre ritrae la giovane sovrana con tutti gli apparati del potere. La regalità è uno spazio profondo, abissale, in cui Elisabetta si inoltra sempre più, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Ma anche cristallizzato su francobolli e monete, il profilo regale non è uno spazio bianco, non è il profilo di ognuno. Ancora una volta si tratta dei due corpi e dei due volti del re: quello mistico e quello umano, quello immortale e quello corrompibile, quello destinato a occupare la propria casella nella lunga galleria dinastica e quello su cui si deposita il passare delle ore e delle emozioni. Il volto del re non è uno spazio bianco: in quella totale rinuncia della volontà che è la regalità, si può inscrivere la propria forma. Non agire è il più pesante degli obblighi, questo la sovrana lo sa autorevolissimamente sin dalla prima stagione, e in questa ammette che la Royal Family vive nascosta al mondo pur essendo sotto gli occhi di tutti. Sembra la lettera rubata di Poe, ma non è un ingranaggio giallo, bensì un gioco di potere.

Il volto modifica la regalità e la regalità modifica il volto, ma qual è la cera e quale il sigillo? Questa terza stagione è tutta inscritta nella fuga dal volto. Prendiamo la prima e l’ultima scena della stagione. Nei primi minuti della puntata d’apertura, vediamo la nuova Elisabetta, qui per la prima volta interpretata da Olivia Colman, specchiarsi nel confronto fra i due nuovi francobolli della royal mail. In uno la giovane sovrana, il profilo romantico di Claire Fox che l’ha incarnata nelle prime due stagioni, e nell’altro il mento cadente e lo sguardo spento della sovrana consapevole. Il tempo che passa non ha clemenza. Difficile capire se sia un caso: ma in questa serie il gioco delle somiglianze si fa stringente: Tobias Meziens è un impressionante Filippo, Josh O’ Connor ed Erin Doherty sono praticamente nati per le parti di Carlo e Anna, Principe di Galles e Principessa Reale. Fanno eccezione solo Olivia Colman ed Helena Bonham Carter. La prima, più che alla regina, assomiglia al ritratto di Elisabetta fatto da Lucien Freud: è un volto sull’orlo del disfacimento, in cui si mostra tutta la fatica di tenere insieme le cose, di non cedere alla legge di dissoluzione che regola l’universo. È un volto atemporale, staccato dal fluire del tempo, cristallizzato in una mezza età che è età del ripensamento e del sospetto. La seconda è una principessa Margaret che non ha più nulla della sensualità di Vanessa Kirby, ma discende anche lei la scura china degli anni, verso solitudini più prosaiche di quelle della sorella: fallimenti umani, confusione del vivere, raggelarsi degli amori domestici e ansie di fuga. Questa stagione racconta anche della formazione intellettuale e sentimentale, nonché erotica, della principessa reale e del principe di Galles. Carlo viene qui investito, secondo antico rituale feudale, di quell’antico dominio inglese. Ma la corona su di lui, come precedentemente sul padre Filippo elevato a Principe del Regno, ha un aspetto ridicolo, è un peso troppo grave per quel giovane collo, sta quasi di traverso, come a sottolineare che non tutti la possono portare. Anzi che nessuno può portarla, salvo colei a cui immediatamente sta bene, colei che si è allenata a farlo.

Spesso il piano narrativo di The Crown si basa sulla tecnica del double plot: i personaggi hanno sempre un doppio che li segue, li perseguita, arriva dove vorrebbero arrivare. Così nella generazione dei padri – re Edoardo e Giorgio – e così in tutte le generazioni. L’annullamento di Elisabetta nella funzione regale è amplificato dalle irrequietudini di Margaret, dalla sua ricerca di una forma, dal senso della sua inessenzialità, dal piacere delle sue sperimentazioni. La corona si nutre delle antitesi, dei conflitti, delle storie che non si conciliano e che restano irrelate per tutta la vita. Vedere il proprio alter-ego vivere aumenta la gloria rancorosa della sovrana, la rassicura sulla sua importanza.

Questa stagione si chiude con l’anniversario d’argento di Sua Maestà Britannica. 1977, venticinque anni di regno. L’argento è un triste metallo, i suoi riflessi sono malinconici, il suo colore ricorda il grigio della mezza età e delle sue incertezze. Così alla fine, la regina esce di scena in carrozza, scortata dalle guardie d’onore e fra queste anche da Carlo, oramai Principe di Galles ed erede al trono. L’erede smania sempre, vuole che il mondo conosca i suoi pensieri, le sue visioni. La sua voce. Ma nello scontro più terribile che un figlio possa avere con una madre, Elisabetta ricorda a Carlo che nessuno è interessato a quella voce. Nessuno è davvero attento al Discorso del Re, gli basta che il monarca sappia occupare la sua casella, riempire quel vuoto in fondo alla scena.

Ancora una volta una partita doppia: la radio descrive la pompa e la circostanza della memorabile giornata, la camera ci mostra una incerta Elisabetta al risveglio: il tè della mattina a letto, i bisogni del corpo, il bagno caldo. Gesti lenti, per allontanare il pensiero sgradevole dell’uscita: dell’accettazione del tempo che passa. Piccole quotidianità di un giorno solenne.

La cerimonia deve iniziare e la sovrana va in carrozza scortata dall’erede al trono.  È un gioco di espressioni e di non detti: la camera passa dal volto del principe smanioso a quello della sovrana che, negli ultimi secondi, passa dalla luce all’ombra. Ombra metaforica al pari di tutte le ombre. E non solo per la tradizionale semantica della maturità come shadow line, ma perché queste ombre le abbiamo viste addensarsi nell’arco delle puntate. Abbiamo visto Elisabetta sprofondare nel ruolo, sentire la propria imprescindibilità. La monarchia porta inscritta nel nome la solitudine. Il re è solo: molos e monoch, l’erede è una funzione necessaria ma insolente, non tanto perché è un ineludibile memento mori, ma perché ricorda che, nel gioco dei due corpi, nessun sovrano è essenziale, ciascuno verrà sostituito e alla fine tutti daranno il loro nome a qualcosa, poco importa se un’età gloriosa, il taglio di una stoffa, la razza di un cane. Nessuno, neppure il re, è insostituibile.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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