Pugni chiusi

di Gianni Biondillo

Fuori è buio, la stanza è illuminata solo dallo sfarfallio in bianco e nero del televisore acceso, mio padre guarda in religioso silenzio un incontro di boxe. Gli sono affianco e osservo anch’io curioso il televisore, non potrò avere più di cinque anni. Non ci capisco molto, vedo due signori in mutande che si picchiano, uno credo si chiami Nino Benvenuti. Tanto quanto discutendo di calcio mio padre la buttava sempre in caciara, altrettanto col pugilato diventava silente e ieratico. Amava la nobile arte in modo ancora più viscerale del football. Apparteneva ad una generazione dove la boxe era uno sport davvero popolare, seguito e amato da tutti: uomini, donne, bambini.

Morto mio padre non ho più guardato una partita di calcio, non conosco il nome di alcun giocatore, non tifo nessuna squadra, guardo raramente la televisione. Solo la danza mi cattura, io che sono la persona più goffa del mondo. E la boxe. Mi accorgo che la seguo con lo stesso religioso silenzio di mio padre, affascinato da quella liturgia violenta e romantica dove due esseri umani sfidano la paura stessa, picchiandosi senza posa eppure, al suonare del gong, pronti ad abbracciarsi, come due reduci, due fratelli, due guerrieri rispettosi ognuno del dolore e del coraggio dell’altro.

Ne parlo con Renato de Donato, ex campione italiano dei superleggeri e oggi titolare della Heracles Gymnasium, una palestra in via Padova a Milano. Renato me lo ha fatto conoscere un libraio e questo potrebbe già apparire strano. Che c’entrano i pugni con i libri? Ma per Renato le due cose non si contraddicono. Non solo s’è laureato in scienze motorie ma ora che ha smesso di fare incontri da professionista si è gettato a capofitto nello studio della filosofia. “Cos’erano le palestre nell’antichità?” mi dice. “Luoghi dove si coltivavano il corpo e lo spirito”. Mens sana in corpore sano. In effetti la sua è una palestra anomala, dove si può assistere a feroci scambi sul ring ma anche a concerti di musica classica o a rappresentazioni teatrali il sabato sera. Mi mostra con orgoglio il soppalco che ha appena ristrutturato. “Qui ci metto una libreria e dei tavoli. Così i ragazzi potranno fare attività sportiva e poi venire qui a studiare.” È il suo modo di toglierli dalla strada, come sta facendo con Amir, un ragazzone dalla vita complicata, eppure buono come il pane.

Non c’è epica nel calcio. S’è scritto molto attorno – il tifo, la passione – ma mai un film che sapesse coinvolgerci raccontando la vita, i sogni dei calciatori. Mai. I film sul pugilato invece si sprecano. Penso a capolavori come Toro Scatenato o Million Dollar Baby. Resiste ancora oggi, nello scantinato di una ARCI di Milano, lo spazio dove Luchino Visconti aveva girato le scene della palestra in Rocco e i suoi fratelli. Ogni tanto vado in pellegrinaggio a vederne gli intonaci scrostati, a toccarne il sacco appeso, a fare esperienza di un luogo dove Storia e Memoria si fondono assieme.

“Se ci pensi la storia che raccontano quei film è sempre la stessa”. A parlare è Damiano Migale, maestro di pugilato alla Prosesto Boxe. Maestro, certo. Perché se il pugilato è un’arte allora c’è bisogno di maestri che la insegnino. Damiano è figlio d’arte, la palestra esiste dal 1963. Ed è padre. A giorni dovrebbe nascergli la seconda figlia, ma stasera se ne sta qui, in questa piccolo spazio, colmo di atleti che fanno esercizi al sacco o sparring sul ring. È evidente che sia la passione a guidarlo, se fosse per i soldi avrebbe già chiuso bottega. “Oggi sono cambiate le motivazioni, manca la rabbia, manca la fame. Ho conosciuto talenti che hanno mollato perché la disciplina era troppo dura per loro.” L’aria è carica di sudore. Ha una faccia pacifica, non sembra uno che insegni ad essere cattivi. “La boxe non è cattiveria. È un’attività violenta, certo, ma qui s’insegna il rispetto. Il pugile impara a combatte innanzitutto contro se stesso, le sue paure, i suoi limiti.” Forse ha ragione Renato, forse ci vuole la filosofia per capire questa disciplina.

Provo a chiederlo a Luca Mulas. Sono andato a trovarlo alla ASD Segrate Boxe. Mi racconta come ha iniziato. “Vivevo in Sardegna, avevo fame, avevo rabbia. Mio padre morì che avevo 15 anni. Il pugilato mi ha insegnato la disciplina, il sacrificio.” Mi guardo attorno, la palestra è piena di ragazzini. Luca è molto orgoglioso del lavoro che fa con loro. “Ho iniziato con i miei figli, oggi ho 40 bambini con me. In tutta la Lombardia ci sono 300 tesserati.” Luca vorrebbe portare la boxe nelle scuole. Maschi, femmine, non c’è differenza per lui. Si tratta di insegnare l’autostima, la consapevolezza, i limiti del proprio corpo. Come la danza, penso. Ecco perché mi affascinano allo stesso modo. “Per fare boxe ci vuole intelligenza. Il pugile è un calcolatore che deve saper anticipare ogni mossa e replicare in modo inaspettato.” Con il tuo curriculum, gli dico, potresti insegnare in qualche palestra del centro. Scuote il capo e ride. Non è interessato a fare l’allenatore. Lui è un maestro di boxe. “I maestri non sono impiegati, è gente che si porta i problemi a casa. Vanno a cercare i ragazzi che sbagliano, li riportano sul ring.”

Anche Marco Salvemini la pensa allo stesso modo. Mi presenta suo padre Matteo, quattro volte campione d’Italia e campione d’Europa dei pesi medi, una vera leggenda della vecchia scuola. Gestiscono assieme la ADS Boxe Club Bollate. Starei ore a sentire Matteo che mi racconta le sue avventure. Di quella volta che da ragazzino andò a fare un incontro a Taranto e tornò a Barletta sul retro di un’Apecar perché non aveva i soldi del treno, di quando si alzava alle cinque del mattino e andava a piedi dalla palestra in Corso Sempione all’officina meccanica a Bruzzano dove lavorava, delle telefonate in Portorico che ancora fa a Carlos Santos suo “nemico” sul ring e amico nella vita. Poi mi dice, perentorio: “i pugni facevano male”. Mi guarda come se non avessi capito. Allora tira giù due guantoni appesi e li slaccia. “Questi sono quelli che usavamo trent’anni anni fa, da otto once” me li fa indossare. Tiro dei pugni sul palmo della mano. Sento le nocche urtare. Poi mi fa provare i guantoni regolamentari odierni. L’imbottitura mitiga l’urto. “Facevano male, capisci cosa intendo?”

Suo figlio Marco ride. Poi mi mostra un atleta sul ring, un egiziano. “È un ragazzo che ha sbagliato” mi dice. “Ma è un bravo ragazzo. Ne ho parlato col giudice al processo. Gli ho detto di lasciarmelo in custodia, ci avrei pensato io a lui. Ora sta tirando fuori la rabbia, sta imparando le regole. È un vero talento.” Ecco la storia che il cinema ci racconta, aveva ragione Damiano, sempre la stessa: fame, rabbia, emancipazione, rivincita. Cadere, risorgere. Una storia atavica, nobile, poetica. Popolare, come era mio padre, figlio analfabeta di un’Italia che usciva dalla guerra e che voleva rimettersi in piedi. Con speranza, con rabbia.

Un anno e mezzo fa, non aveva ancora compiuto 13 anni, mia figlia Sara decise di smetterla con il nuoto. “Voglio fare boxe” mi disse, perentoria. Rimasi impietrito per alcuni secondi. “Può sempre tornare utile” fu la mia replica. La portai da Renato per una lezione di prova; tornò a casa rossa in volto e felice come una pasqua. “Ti dirò” mi ha detto un giorno Renato, “ha pure del talento. La voglio tesserare e farle fare degli incontri”.

Una notte ho sognato il suo primo match. Il sudore, le urla, l’adrenalina. Io, in prima fila, in religioso silenzio. Ho affianco mio padre che osserva la sua nipotina, quella che purtroppo non ha mai visto crescere. La guarda, silente. Con orgoglio.

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(precedentemente pubblicato su “IL”, mensile del Sole24Ore, numero 109 del 22 febbraio 2019. Le bellissime fotografie sono di Diego Mayon)

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1 commento

  1. La boxe è uno sport bellissimo che traduce in arte l’istintiva bellicosità dell’uomo. La praticherei molto volentieri, a condizione di disporre di un cervello di riserva. E’ vero che ci vuole intelligenza per combattere, ma non lo trovo il modo più salubre per metterla a frutto. In fondo il ring non è neanche il luogo più violento; si respira una superiore aggressività là dove nudi intelletti competono e incrociano le astratte lame, non so se siete mai stati in un’aula di tribunale o in un acceso convegno di filologi…

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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