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circolare circolare

di Antonio Iannone

gocitati dalla folla. chi avrà faticato abbastanza (perché c’è lavoro e lavoro) sopravvivrà nella tradizione: i pigri e i deboli diverranno la portata principale del banchetto di Chronos. ancora le ruote batteranno chilometri d’asfalto, deborderà il corpo oltre la cabina: un paio di brande, pochi metri quadri di frigo incastonato in una crepa all’ombra del cambio, il profilo di un passeggero, di fianco, a chiacchierare – bisognerebbe essere in due, sostare per scambiarsi di posto e mescolarsi nell’illusione del gioco, pur quando si dorme: mai il vento o la pioggia o il cielo sono stati così vicini. la parodia di un soffitto: che accade, sotto? sotto-sotto: sotto la terra, dove riposano i padri di tutti. il volante ripiegato in insegna di riposo, la marcia disinnescata: persino il passeggero sonnecchia dalla solita regione d’esistenza: minuta, certo: eppure qualcuno giurerebbe di aver sentito russare. il dialogo non viene che nell’accidente di una voce dall’abitacolo: strada chiusa, dice – oppure, tamponamento: nient’altro; solita compassione. preferisce il silenzio: soffia un gorgoglìo. persino il gusto della noia bisogna strappare, il disturbo di un grattacapo – faticare senza preoccupazioni: la strada, soltanto la strada. non che costringa, segnala-ostenta l’esistenza dritta, le curve della Legge, le scorciatoie persino: i più abili si affidano alla memoria, almeno: magari confondersi, condursi su una cattiva strada: memoria da leone, dice. non che del leone sia la virtù più evocata, ma tutto quanto è del leone (brutalità, astuzia, volizione, persino la criniera resa lucente dall’aurora) dev’essere eccellente – maschio, lui: ruggisce alle femmine, procaccia la selvaggina, difende il branco; starci, nella giungla: altro che la strada. a posta di tanto in tanto tirerebbe il volante a destra, insinuando il guardrail, tanto per saggiare la facoltà di sgrovigliarsi da un cumulo di lamiere: lo ammonisce una piccola calamita di fronte: la moglie che tiene in braccio il figlio, una preghiera: non correre, pensa a noi. per voi corro, pensa; e svolta.

metà per il cuore, metà per il fegato, un quarto contro il colesterolo (polistirolodice: ma scherza); un’intera razione in granuli per tutti gli altri mali (mal di testa, mal di schiena, etc.), ma a stomaco pieno, altrimenti una contro il reflusso; anche solo dieci anni prima… incombe ormai l’età adulta: non conosce altra stagione se non quella rigogliosa dell’adolescenza; era allora nient’altro che aneddoto, fugace rivelazione di un quotidiano senza prologo né epilogo, il sonno congedava il grumo di avvenimenti di cui il giorno era stato investito: le discussioni oziose sul bagagliaio dell’auto, una ragazza dalle gambe in bellavista, la mano ai fratelli per lo scarico merci, le coccole femminee e sororali; poi il sonno. a passeggio per i vicoli, le straducole, gli archi di mattoni, sempre a casa si tornava; pareva fatta apposta la città per radicarvisi; incidente, dice la voce, comprì, risponde reggendo col pollice l’illusione dell’alterità. dello scontro non scorge che il profilo di un coagulo, pare che un camion abbia insinuato l’abitacolo di un’auto: sul manto della strada, lievi chiaroscuri; l’ambulanza divora i corpi, esibisce la sirena, scompare: dal loggione con vetro lo spettatore sostituisce il proprio volto a quello di uno dei disgraziati; il telo lo acceca: non è vero che il buio somiglia al nulla, da vivo potrebbe sfiorare il rovescio delle palpebre: è morto, invece; che ne sarà della moglie, del figlio?

meglio a loro…

senso di dio è un flusso circolatorio: del sangue che si diffonde per il corpo permettendo l’esistenza biologica; del turbinio autostradale che trasporta le merci oltrefrontiera: frammenti del vitto, anzitutto; corredo della neo-imprenditoria globale. mai che si possa starsene da soli, senza costrizione della prigionia – facile saccheggiare, assassinare, frodare, soltanto per la quiete della cella, le cure dell’istituzione; c’è pure chi aspira alla follia, propria o dei cari, senza distribuzione del ciclo sonno-veglia (si propende per la seconda), senza le preci che ammoniscono: “non correre, pensa a noi”, il cagnolino in plastica che scuote il musetto al sobbalzare di un dosso, il ritratto del Cristo posato al fondo del palchetto: soltanto altre targhe, si scorgono: distese di targhe fin quando può l’occhio. poi sopraggiunge la miopia. di fianco, superfici di Autogrill nel solido abbaglio della civiltà: si tirano le tende, la marcia, il volante; si dorme.

bussano a notti alterne, ticchettano sulla portiera, con le dita a volte, per non disturbare troppo, in elemosina dell’argià: tendono la mano, si distinguono in chi si contenta di pochi centesimi lasciati cascare da una fenditura, chi invece desidera uno scambio legittimo, una prestazione. bruciano tutti, solleticano: lontano da casa?, dicono – si affacciano accenti sdentati, tu? lontano da casa?, tenendo annodati i muscoli, schiacciano il naso al piccolo vetro dal lato-passeggero (passeggeri: conducenti in attesa) e battono, lontano da casa? lontano da casa? – esibiscono la merce alludendo con la mano inoperosa, l’altra conserva l’equilibrio: schiudono le labbra nella forma del cerchio, stringono le dita e muovono il braccio insieme con la lingua, a formare nella bocca un gonfiore a tempo: pantomima e simulazione dell’osceno. dall’occhio aperto, poiché si vanta di tenerne uno in allerta persino quando dorme, scopre il volto appiccicato alla cabina: è appena un tratteggio, mantiene incastonata nel mezzo del collo la colpa della virilità. una donna l’avrebbe ignorata, un maschio è un affronto. quando raggiunge il suolo per affrontare l’attentato più nessuno disturba l’ordine della notte: una fantasia? un fantasma.

addio sonno.

tra la branda e il soffitto c’è meno di un braccio; gli pare si accorci ogni settimana di un paio di millimetri, quanto basterebbe a schiacciarlo prima di un anno; deve pisciare. si nasconde all’ombra della quinta ruota, licenzia le asole dai bottoni e brandisce il grumo di carne con entrambe le mani; l’urina fluisce tra l’autoarticolato e l’asfalto. lo sorvegliano? gli sembra che un volto erompa dalla notte; se lo scovasse adesso, il mendicante (preferisce assimilarlo alla classe dei mendicanti che a quella delle puttane), mentre l’arma gli si ritrae dalla superficie delle mani…

sovrastare dall’alto il sesso ormai turgido gli restituisce la memoria della giovinezza: quante volte ha scorto quella geometria? nessuna per cui gli riesca l’arte della reminiscenza. Seduto su una poltrona dell’abitacolo lascia colare sulle mani dell’acqua da una bottiglia. il sesso è imprigionato dalla stoffa dei boxer, eppure la sollecitazione affiora; gli pare che i colleghi (concorrenti, li chiamano dall’ufficio) dormano tutti. non una tenda socchiusa, qualcuno a spiare; ha serrato pure le sue. la biografia gli si restituisce nella forma dell’aneddoto: tutto sommato, un’opera lineare.

la figlia di … è distesa sul letto a cosce allargate, esibisce la natura senza imbarazzo, a dire: eccola; lui tiene in mano un pezzo di legno: la figlia di … è ninfomanegli pare. pronuncia il termine con un gusto particolare, un’inclinazione della voce fin troppo compiaciuta, a dire: è ammalata, che possiamo farci, noialtri? ce l’ha nel sangue. non è che un buco, poi. poiché la ricorda nella sola prospettiva dell’osservatore, il viso è sostituito da chissà quale altra reminiscenza: solo il grumo lacera di tanto in tanto la soglia del tempo. il grumo e l’impresa: l’ha raccontata tante di quelle volte, nell’ecolalia di chi ricordi non ne possiede abbastanza da dispensarne senza esserne rapinato, che risale ormai dalla narrazione all’immagine. istante per istante avvicina al buco il rametto sino a ricolmarlo: simulazione del pene, sonda: ci entra giusto-giusto. Lo insinua nel corpo governando il piacere con le mostruosità della Cosa; lo spaventa sostituirlo con il pene: preferisce reiterare la parodia. finché un grido più acuto non è preludio di un afflusso di sangue: allora strappa l’oggetto – è peggio. il boschetto è adesso non già occultamento, ma segnale.

dal mezzo-patria attraversa un paio di corridoi, una rampa; le targhette alle porte segnalano gli impieghi più singolari di un organismo enorme, capace di respiro: se un ufficio si arresta, tutti gli altri soccombono; BOLLE SCARICO MERCI, dice uno, BOLLE CARICO MERCI, un altro, seguono DIRETTORE, RECLAMI, COLLOQUI. la ragazza del secondo ufficio è bruna, di una straordinaria giovinezza, il solito rimpianto di non aver trent’anni di meno – non gli è bastato che l’adolescenza sembra non esserglisi mai esaurita, ma trent’anni di meno…, bellissima, sono l’autista di…, dice il cognome del padrone costringendo in esso l’intera genealogia imprenditoriale, stanno caricando in magazzino, ho portato il documento. l’esordio è pronunciato con la disperazione di chi prova a intervenire su una realtà cui non partecipa: se la ragazza non commetterà errori sarà per non tradire le aspettative dell’uomo che le ha detto: bellissima. sorride appena, batte sulla tastiera, osserva, stampa, domanda una firma, lo congeda.

vuoi campare o vuoi morire?,  il medico si serve di una brutalità sagace, come dire: la vita è tutto; se vuoi morire, continua, continua a fumarti quaranta sigarette al giorno, in un anno al massimo avrai raggiunto il proposito, si compiace dell’arguzia, se vuoi campare, devi smettere non oggi, conclude, ma ieri. due anni prima gli è morto un cugino di tumore allo stomaco, un pezzo d’uomo di un metro e novanta, neppure di fargli visita prima che si spegnesse del tutto se l’è sentita. prima o poi Si muore nell’indifferenza.

l’ultimo dei fratelli, il favorito della sorte: avevano già fatto tutto gli altri, gli fu concessa un’adolescenza tranquilla: il maggiore patisce l’intervento della sclerosi, un altro si dispera per una malattia di cuore; delle femmine conosce poco.

il vino lo abbruttisce; appena la testa gli si posa sul cuscino della branda comincia la ruminazione; la mente che prima gli era riuscito di concentrare sul solo orizzonte della strada sin quasi a lambirlo proietta sul soffitto (sempre più basso) ambizioni di pensiero: brani, nient’altro che brani: propositi, residui di memorie, lampi discorsivi. finché il sonno che viene è un sonno esausto, cattivo. non dirò dei sogni poiché non si può conoscerli, tuttavia qualcuno lo racconta. il padre il padre…, se di giorno lo opprime soltanto negli abiti a lutto con cui si obbliga a ricordarlo, nel sonno si personifica in coscienza: allora parla, valuta, interdice. fa il suo mestiere di padre.

la madre in vent’anni non l’ha mai sognata.

lo accoglie da sveglio lo stesso orizzonte, un accenno di crepuscolo, unica promessa nella fluttuazione: l’orizzonte, come la strada nelle line continue e tratteggiate, nelle strisce pedonali, nei pedoni inaccorti, è stabile; gli sembra a volte di partecipare a quella stabilità; basta che qualcuno gli si affianchi perché il gioco riprenda. la radio trasmette del progetto ONE+, da giorni non si discute d’altro; comunica un paio di incidenti: un’ambulanza ha tamponato un’auto; un autoarticolato, di che azienda? un rumeno ubriaco…, è scivolato fuori dalla strada: nessun morto. non correre, pensa a noi, e accelera. dovunque, musica leggera.

si crede di non raggiungere il traguardo dell’età adulta, poi si comincia a lavorare: prima i cocomeri venduti in cambio di patate, mele, lattuga, infine la strada: per il latte in polvere del figlio. quanto ne beve, l’ingordo; latte di farmacia perché cresca sano e forte, com’è cresciuto lui a carne di cavallo. non gli è più consentita possibilità d’errore, è un padre ormai, deve starsene per strada lucido e sano. con un ago intriso d’inchiostro si era bucherellato l’apice della spalla sinistra sino a raggiungere una forma di cuore tutta storta: senza ragione; diceva soltanto che se l’era fatto in carcere, non era vero.

la strada si dirama, sono stanco, pensa, stanco. sei anni prima il padrone gli aveva detto: scènditene, avrebbe potuto occuparsi delle relazioni con i nuovi assunti: certo nessuno straordinario lo avrebbe mai distinto da un impiegato d’ufficio; la strada gli restituiva nelle privazioni un’ombra di libertà. un lupo solitario, così dice. sta bene, sta bene dice alla moglie al cellulare, sto per fermarmi, adesso mangio qualcosa: sanno parlare solo di cibo, quegli altri. una cassiera gli sorride, avrà neppure vent’anni: trent’anni di meno

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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