Il trattamento della marea – terzo movimento

di Chiara De Caprio

[Qui il primo e il secondo movimento]

Movimento di uscita

III

 

 [Sonoro: Phebe Lou, She]

 

Nizza, parco-giochi dell’Esplanade Francis Giordan, mercoledì 24.7. A. e M. entrano ed escono da una figura metallica azzurra

 

(a). 5. [se sia poi un sorriso questo irriflesso incresparsi]

 

pure, qualcosa la trattiene. Riconnette la fonicità del suo nome ad una comprensibile sintassi. L’aria calda è smossa dal vento di un treno che attraversa la stazione lungo il suo binario; ma è solo un attimo: ora è già un punto in fondo al nero. Abbandona la panchina e il tabellone luminoso senza destinazione; richiude la porta e risale la scala

risale. Risale per gli sforzi di quella creatura che, dentro di lei, è in corsa lungo una traiettoria: come l’onda che colpisce e poi si ritrae; risale grazie a quell’altro sé stesso, piccolo e fisso, che si muove, ma pure resta lì: fermo e immobile come uno scoglio. Onda e scoglio, fissamente intenti a perimetrare la strada lungo cui ci si scioglie come sagome di cera: Prima della calma piatta, della bonaccia da cui non si ritorna, lungo quale rotta credi si debba attendere?

ripensa. Ripensa, ora, alla spooky action at distance. Se esistesse fra gli esseri umani, entrerebbe questo nell’azione a distanza: le sospensioni involontarie e gli arresti, gli strappi e le accelerazioni impreviste, il contorno dei toni e i benevoli naufragi nel riso, le fenditure. Qualcosa che non ha dizione, ma una sua propria paziente ricomposizione per tratti, contorni e gentile evocazione: come se una costellazione di materia tacita e densa si riaccendesse progressivamente, corpo stellare dopo corpo stellare, corpuscolo dopo corpuscolo 

si sposta. La trafittura è solo un serrarsi più deciso al manico della borsa, lo scatto con cui procede per raggiungere la carrozza, schivando il vuoto. Avanzare per calcolate approssimazioni e tentativi istintivi; è sempre un terreno che si perlustra, è sempre un guado, o un muro: che si salta spostandoli oltre e avanti, il tempo e il confine. Yes, then she caught a hole in the fence and she ran

and she ran (ma è sempre un terreno che si perlustra, si perlustra, un terreno che)

 

Vista dal treno che dal Principato di Monaco porta a Nizza, domenica 28.07

  

(b). 5 [fissamente intenti a perimetrare]

 

Entrano nel mio orizzonte visivo mentre procediamo lungo il tratto finale della Promenade du Paillon, quando la luce si tinge di rosa e viola. Sono in alto e immobili; sembrano fare della loro stasi un principio di forza e consistenza; è il colore, invece, a essere soggetto a cambiamento: tonalità di verde, rosa, blu, e viola si rincorrono ad intervalli regolari.

Li osservo, e mi domando in che modo possano suggerire una conversazione; e come si dia lo spazio flessuoso del dialogo in quell’immobilità delle posture, gli uni con le spalle e la nuca rivolte agli altri, le braccia lungo il busto o in avanti a stringere le ginocchia: come un raccogliersi e fare perno su un punto che salda il baricentro interno delle sagome al suolo. Saldi perché immobili, e silenziosi. Mi chiedo se, quasi invisibili, di tanto in tanto, scendano poi dai loro spazi aerei: e quali possano essere i modi del loro spostamento, l’articolazione possibile per i loro suoni. Immagino, per quelle luminescenti cortecce di materiali trasparenti, lievi i passi, flebili le parole.

Torno a fissarli, quasi in una diversa vicinanza. Sopraggiunge un pensiero: la stasi che io attribuisco loro è forse contradetta dal cambiamento di colore che li attraversa. Provo a modificare il mio stesso parametro di riferimento e a considerare più attentamente gli effetti del mutamento di colore. Verifico così che sono soggetti a modifiche intermittenti, ma progressive e inarrestabili. La postura fissa – ora concepisco questa ipotesi – coincide, allora, con la possibilità stessa del loro consistere: quasi l’argine di cui si dotano per sottrarre calore e luce alla minaccia della dispersione, per rendere visibile, pertinente e distintiva la successione del verde, del viola e del blu, del rosa.

Mi ricordo di quando, nell’allarmato silenzio di viaggi in auto, nel mio stretto sedile posteriore, opposto a quello di mio padre, mi figuravo che le prime stelle della sera mi stessero scortando, come astronavi in viaggio fra galassie: e che, infine, creature aliene si sarebbero sottratte, per un istante, alla loro regale invisibilità per donare la fiammella di un’inestinguibile luce grigio-verde a un’articolazione sensibile e ragionativa che sulla terra chiamano giovane vita umana. Immagino vi siano, sparsi nella città di Nizza, bambini che quegli stiliti colorati li hanno visti scendere dai loro sedili e, di tanto in tanto, vegliare sui loro sonni.

La sera è calata, e le luci artificiali si fanno troppo intense per i miei occhi chiari: come un lampo che mi riporta fra auto e pedoni, sgombra la mente dalle intermittenze delle creature aliene e dei bambini. Nell’allontanarmi da Place Massena, la danza dei colori mi appare come un inventario di suoni, pattern e significati che ancora non ho appreso. Mi volto verso una vettura e il suo finestrino: definisco sorriso questo irriflesso incresparsi delle mie labbra verso il basso.

 

Nizza, Place Masséna, martedì 23.07. Persone in procinto di attraversare la strada; alle loro spalle le sagome dell’installazione di Jaume Plensa dal titolo Conversation à Nice

 

b. 6. [presumerebbe di conoscere]

I musei di Nizza ci avvolgono con la loro densità silenziosa. Con A., M., e L.E., in un primo pomeriggio di allerta per il caldo, ci rifugiamo fra le braccia della storia naturale: un addetto gentile e dalle spiegazioni minuziose ci lascia il passo nell’unica sala di cui è composto il museo. Sentiamo lo scricchiolio dei nostri passi sul legno, e l’odore denso e umido della stanza. Questa restrizione relativa all’estensione dello spazio da percorrere lascia che la nostra attenzione si distenda in tutta la sua concentrata profondità: provo a memorizzare i nomi delle specie, leggo le proprietà delle rocce del suolo delle Alpi, mentre le bambine, assorte e pazienti, riempiono i loro taccuini di schizzi di animali e forme di specie vegetali.

“Sono finti o sono morti?” domanda L.E. “Sono stati vivi”, le risponde M.; e mi chiede a che cosa siano servite le ali lunghe ad alcuni, i denti aguzzi e le scaglie ad altri e altri ancora: il nesso intimo fra la forma e la sua funzione come residuo di bellezza, come nodo che oltrepassa lo sgomento. Giro per un’ultima volta nella sala, scribacchiando anche io nomi in latino e in francese. Nel riflesso che produco sull’ultima teca, non scorgo la denominazione della mia specie; mi domando se sia già estinta, e se io abbia usato le forme per le appropriate funzioni: se vi siano ali o code o altri organi che abbia dimenticato di possedere.

Desideriamo visitare i musei di Matisse e Chagall. Raggiungerli, nella calura delle ore della tarda mattinata, attraverso la città e le sue colline, ci cosparge di sudore e impazienza. Ma ci accolgono spazi vasti e luminosissimi, l’arido della terra e delle foglie accartocciate nei giardini esterni qui e lì intervallato da filari di olivi, o digradante in costruzioni di vetro e pietra bianca. Scendo le scale di Matisse, e poi ancora quelle di Chagall. Si raffreddano le gocce sulla pelle, il silenzio che le sale promanano ne attraversa i pori; con la sola alternanza di luce e ombre, porte e finestre suggeriscono una direzione: in questa quiete che due volte mi si para dinanzi, vorrei cogliere una promessa o il suo lembo estremo.

Nella sala che ospita il Cantico dei Cantici, mi soffermo dinanzi al secondo dipinto della serie. Forse, mi colpisce la dedica a Valentina Brodsky: quel dirla gioia e allegria. Nella tonalità cangiante dei rosa, la figura femminile è salda e fluida ad un tempo: come dotata di una stupefacente qualità della sua massa corporea che le permette di unire la stabile consistenza della sua forma e la massima libertà di distensione dei movimenti.

Si direbbe che dorma su una superficie che la accoglie senza sforzo e che le trasmette impulsi e vibrazioni: come se seguisse a occhi chiusi, istante dopo istante, una direzione che conosce internamente. Come se galleggiasse su acque che non la svegliano, o volasse secondo correnti d’aria che non disturbano: forse perché né troppo calde né troppe fredde, le prime, né troppo deboli né troppo violente, le seconde.

La guardo ancora, e seleziono i singoli dettagli che ne costituiscono la forma. Memorizzo le gambe morbidamente accavallate, con le ginocchia a fare da perno; gli occhi chiusi e le labbra arrese in un sorriso; le braccia disposte lungo due linee simmetriche ed opposte: quasi un abbraccio a sé stessa, che dal pube risale sino alla sommità della testa. Mi sembra di ricevere quella sua alata postura d’abbandono e presenza come un dono inaspettato: come un movimento che non ignora.

Nizza, Muséum d’histoire naturelle de Nice, venerdì 26.07. M. disegna animali, piante e minerali sul suo taccuino

(a). 6. [non ancora colonizzata, ma crudele e inospitale]

 

le operazioni d’imbarco sono terminate. Entra nel metallo dell’aereo come in uno spazio necessario. Il portellone si chiude, l’aeromobile si prepara al decollo sotto una linea lieve di pioggia; rinuncia alla gravità, bussa alla notte. Presto sarà alto sulla città e i dormienti: punto luminoso in movimento, a rischio di caduta

ha già voglia del caffè lungo, dell’ipnotica sequenza di gesti che la separano dalla sua meta. Prende la tazza; ne scruta il fondo e la linea di contatto con la sua mano. Con impazienza e timore, decide che per ora ha finito; muore al giorno: come se la strada fosse già percorsa, come se la pioggia che ora le fa da soglia calmasse l’occhio con la sua propria sorpresa

se uno di quei viaggiatori in volo voltasse lo sguardo nella sua direzione, direbbe prime manifestazioni del rilassamento i suoi movimenti: le gambe che si distendono e incrociano, le dita che scivolano fra le riviste e si muovono fra spazi già fitti di parole, un braccio che risale quasi a cingere la testa, l’altro poi abbandonato in basso. Sorride; perché non ha perso il volo nonostante la folla ai taxi e le file per l’imbarco, perché ha ottenuto il viaggio e l’impegno di scrittura

presumerebbe uno di quei viaggiatori, di conoscere il mistero di vivere nella sua pelle, di saper fronteggiare l’inondazione di giubilo e ispirata catastrofe che la solleva e sprofonda: e la consegna, infine, ad una galassia aliena e interdetta. Non ancora colonizzata, ma crudele e inospitale per altri esseri umani: e soprattutto per sé stessa

è forse tardi, lo sa. Mentre l’ascesa verticale dell’aereo la fende e oltrepassa, chiude gli occhi. Rinuncia alla gravità: come se la pioggia, con la sua propria sorpresa, accecasse lo sguardo; come se la linea che ora la trafigge aprisse ad un’altra dimensione grata e benevola per altri esseri umani (ma non per lei stessa). No, forse non saprebbe dire con certezza se si dà un altro spazio; ma pure riesce a tracciare mentalmente la direzione per un movimento: come di foglie che non ignorano ove si schiuda la porta

per altri esseri umani (ma non per lei stessa): come foglie che non ignorano, che non ignorano

Nizza, Musée National Marc Chagall, parete con il dipinto Cantico dei Cantici II, dedicato a Valentina “Vava” Brodsky Chagall («Vava, ma femme, ma joie, et mon allégresse»), della serie ispirata al Cantico dei Cantici, venerdì 26.07

 

Explicit

0.

Ritorno nel punto finale della Coulée verte, dove il verde cede al grigio della pietra resa lucida dal riflesso del sole sull’acqua. Prima dell’aria fresca e delle gocce che schizzano in molte direzioni, s’imprimono nella pelle i silenzi attoniti che precedono ogni nuovo scroscio, le voci che esplodono quando il getto si fa intenso e pieno; e poi la varietà delle carnagioni degradanti le une nelle altre, le diseguali lunghezze degli abiti, le gambe nude di alcune, il capo velato di altre, il gioco di fogge e colori dei costumi da bagno, ammessi per i soli bambini. Una molteplicità che abbaglia e stupisce, nello splendore caleidoscopico di quanto si offre ai sensi: come una coesistenza possibile.

Non provo a ricomporre immagini e suoni in una serie ordinata, a decrittare le vibrazioni che giungono al corpo; lascio sia solo un flusso ininterrotto che si offre al sensorio, l’esplosione di movimenti e gioia, di allégresse e stupore. Rinuncio a chiamarli indizi, a decodificare i possibili segnali latenti di crisi.

Sopraggiunge la domanda di due voci squillanti e imperiose: loro pure chiedono, quasi vogliono che io sappia. E io abbasso lo sguardo verso chi la pone, mi sposto in modo impercettibile e mi accingo a rispondere. La risposta che ancora non conosco, appare nell’atto stesso della sua dizione: resta questo soffio, questa joie che pure si dà.

 

[Sonoro: Soap&Skin, Wonder]

 

Nizza, giochi d’acqua della fontana della Promenade du Paillon, martedì 23.07. M., LE e A. giocano con i getti d’acqua

 

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4 Commenti

  1. Non sono un letterato, non ho “La patente” per commentare un testo ma, “lasciando sia solo un flusso ininterrotto che si offre al sensorio, l’esplosione di movimenti e gioia, di allégresse e stupore”, vi confesso che dopo aver letto la prima frase non sono riuscito a fermarmi fino all’ultima, vi ringrazio, questa lettura mi ha giovato anche se non so ancora spiegarvi il motivo, non credo sia indispensabile capire tutto, buona giornata, Michel <3

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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