Tu
di Mehmed Uzun
Il protagonista del romanzo è in una cella d’isolamento, nel carcere di massima sicurezza di Diyarbakır, la principale città curda in Turchia. È stato arrestato e torturato perché trovato in possesso di poesie e libri in curdo. L’unico interlocutore a cui il protagonista può rivolgersi è un insetto, chiuso anch’esso nella cella d’isolamento. Qui, nel settimo capitolo, si lancia in una lunga descrizione della città di Diyarbakır e del suo valore simbolico per il popolo curdo. La vicenda ricalca la biografia dell’autore Mehmed Uzun, imprigionato negli anni ’70 per attività culturale in curdo. Morto nel 2007, Mehmed Uzun è ritenuto il più importante romanziere curdo contemporaneo, un pioniere del genere nella sua lingua.
Insetto, spero che tu mi stia ascoltando, che almeno tu mi senta. Perdonami, non posso alzare troppo la voce, altrimenti le guardie mi sentiranno.
Tu lo sai dove ci troviamo insetto? Come puoi saperlo! Tu cerchi solo luoghi bui, neri e sporchi. A te basterebbe lo spazio di una spanna. Ne saresti soddisfatto. Nella tua storia infatti sguazzavi nel fango degli zoccoli di cavallo. Per te uno zoccolo di cavallo può diventare una dimora. Chissà, questa cella buia e stretta quanto ti appaia ampia e grande.
Qui siamo a Diyarbekir, insetto mio. Diyarbekir! Siamo sotto la terra di Diyarbekir, nella prigione degli stranieri. Oh insetto, hai presente Diyarbekir? È la più bella del nostro paese, ed è il dolore dei nostri cuori. È la speranza della nostra vita ed è l’angoscia della nostra anima. È una città strana. Antica e ingegnosa. È voce, è colore, è luce ed è dolore, è bellezza. È una mescolanza, c’è dentro ogni cosa. E comprenderla non è facile. Ti dà la vita e ti uccide. Ama e odia. È sia devota e generosa che invidiosa e gretta.
Chissà se ora ha contezza di noi. Se sa che qui vengono uccisi ragazzi e ragazze per amore di lei, che vengono legati e incatenati.
Ah insetto… ah Diyarbekir… con le sue locande e i suoi macelli, le sue fumerie e le sue stanze di tortura, le sue sale da tè, i suoi bar e i suoi bordelli, è inchiodata nei nostri cuori. Ti fa star male e ti fa commuovere. Coi suoi vigneti, i suoi giardini e i suoi orti, le sue villette, i suoi parchi e le sue prigioni, è come una rosa rossa: il suo profumo inebria la gente, ma le sue spine provocano dolore.
È una città unica e illustre. Tutto è retto da una particolare armonia che mette insieme case, palazzi, strade, negozi e tutto il resto. Anche le persone sono in qualche modo parte della sua struttura. Anche tu insetto, anche tu sei una piccola parte della sua struttura. Anche la tua vita è una delle sue tante ricchezze. Da un lato ti rende felice mentre dall’altro ti fa essere triste, con lei si piange e con lei si ride. I guai e i dolori di Diyarbekir sono tanti. Lunga è la sua avventura. Le sono accadute cose strane ed incredibili. È ferita, è stanca, è afflitta e si lamenta; chissà a quanti re, principi e signori è stata residenza. Chissà quanti eserciti hanno messo piede sulla sua terra, quanti ancora di qui siano passati. E ancora il suo più grande problema è la libertà, l’indipendenza. Ma non le danno modo, gli stranieri non le danno modo di vivere indipendente e felice. Di fare ciò che vuole. Di vestirsi, di curarsi e di adornarsi come più le piaccia. Vedi insetto, gli stranieri se ne approfittano della sua ospitalità. Ogni volta lei apre la porta agli stranieri e li accoglie. Ma questi non sono venuti per essere ospiti, bensì per restare e derubare. Costoro rendono le sue ferite ancora più profonde e brucianti. Tanto che ormai lei stessa è diventata la misura del dolore e delle sofferenze.
È la nostra città più grande, insetto. La più importante, la capitale di un paese occupato e di un popolo sottomesso. Per questo motivo ha da tempo dimenticato gioie grandi ed importanti. Gli stranieri hanno imprigionato e negato queste sue grandi gioie. Le sue gioie, oggi, sono piccole, quotidiane. Bastano a farla contenta l’incontro fra due giovani amici, oppure due stelle che brillano in cielo, la nascita di un bambino, di un vitello o di un agnello, il cinguettio di un usignolo, il nitrito di un cavallo, o il canto di una quaglia, le gocce di sudore che cadono dalla fronte di un muratore che costruisce una casa, o lo schiudersi dei fiori a primavera. È infatti una città che ama le primavere. Sembra tornare di nuovo alla vita quando senti nei parchi le grida dei bambini che giocano, lo sferragliare di coltelli, spade e scudi giocattolo, le risate di giovani e acerbe ragazze. Fascia e cicatrizza le sue ferite, e sebbene per un tempo breve, dimentica i suoi guai e le sue afflizioni, fomenta speranze e allarga le sue ali ad abbracciare i giovani, ragazzi e ragazze.
Si soddisfa di piccole gioie e bellezze quotidiane. Le basta questo.
Ha quattro porte. Apre il suo abbraccio agli ospiti provenienti da est, da ovest, da sud e da nord. E dice: venite compagni dei giorni piovosi, c’è posto per voi, venite! E dice: venite anche voi, nemici dal volto tetro, c’è posto anche per voi, venite! Prendete la vostra bontà e la vostra cattiveria, la vostra purezza e la vostra nefandezza, la vostra amicizia e la vostra inimicizia, lealtà e ipocrisia, e prendete la vostra lingua e tradizione, credenza e cultura, i vostri carrarmati, le vostre bombe, il vostro oro e le vostre tasse e venite. Venite, o re! Venite ministri e segretari. Venite scalzi e senza cappello. Venite meschini e sobillatori, venite cagne rognose di sette città. Venite combattenti coraggiosi, venite oh savi.
Con lamenti e stridori si aprono le sue porte. Venendo da ovest, quando ci si è lasciati alle spalle le cime del Tauro e il vulcano dormiente del Karacadağ[1] e si è entrati in una pianura dorata, allora appaiono le mura, i torrioni e la porta occidentale di Diyarbekir. E sembra quasi che si sia rifugiata lì ai piedi delle montagne per proteggersi da stranieri invasori e nemici, da diavoli, sobillatori ed ipocriti.
Venendo da nord bisogna scavalcare le cime dei monti Dodan,[2] Golap-Cimat, Xezine, Erxenis e Erbat. Dopo il monte Zulkif la pianura si distende ormai come un piatto dorato. Ad est questa pianura raggiunge le montagne Reman, Xerzan, Kendalan e Resiyan. Sulla cima del monte Raman si nota una macchia color grigio scuro. Quella macchia apre una spaccatura nel cuore della montagna e diventa una valle. Scendendo per quella valle, dopo aver attraversato fiumi, laghi, ruscelli e torrenti si arriva alla porta orientale di Diyarbekir. Da sud invece, si arriva alla pianura dopo aver superato le cime di Stewr, Kercews, Hermis, Kerbend, e Germav.
Chissà se questi nomi, questi luoghi ti dicono qualcosa, insetto. Ci capisci qualcosa? No vero? Ma non fa niente. Tu ascolta e basta. Ascolta per il bene mio e quello di Diyarbekir. Diyarbekir, che corteggiamo da migliaia di anni, Diyarbekir l’avventura della nostra storia…
[1] Vulcano dormiente alto quasi duemila metri, situato pochi chilometri ad ovest di Diyarbakır.
[2] Nomi di cime della catena del Tauro che circonda la pianura al centro della quale si trova la città.
Parla e spiega all’insetto (da notare che non specifica di che insetto si tratti, per quanto è presumibile immaginare che egli lo sappia bene, e dunque la scelta di non dirlo costituisce una precisa strategia retorica e narrativa) come se fosse un bambino… Commovente.