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Iosif Brodskij tra le rovine della città di K.

di Valentina Parisi

(Pubblichiamo un estratto da Valentina Parisi, Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte. Prefazione di Francesco M. Cataluccio, Edizioni Exòrma, 2019. Il libro racconta un viaggio verso due città che convivono in una. Entrambe fantasmatiche, vive e morte nello stesso tempo. La Königsberg di Immanuel Kant e la Kaliningrad dell’impero sovietico deflagrato da quasi trent’anni. Quello che più colpisce nella scrittura di Valentina Parisi è il suo spessore, dovuto alla sapienza dell’autrice, un dominio di più lingue e culture che le consente di creare connessioni che arricchiscono il testo di densità e strati. Ogni luogo sfiorato e raccontato accende collegamenti storici, letterari, autobiografici. Dunque per viaggiare bene bisogna prima sapere; eppure senza viaggiare non si sa nulla.)

È identica, pensò il poeta, rigirando distrattamente la bottiglia vuota tra le mani. Identica al faro che, fuori dalla finestra, ammiccava col suo unico occhio nell’oscurità.

Il faro – un’enorme bottiglia di vino da dessert, scintillando nel buio, indicava la via ai naviganti, soprattutto a quelli persi e solitari come lui.

Perché la somiglianza fosse perfetta, provò a farla girare come una trottola, tenendola per il collo. Il collo di lei.

Rivedeva la macchia di tempera verde acqua, sotto l’orecchio. Chissà come se l’era fatta. L’aveva presa per i capelli, torcendoli con forza, per costringerla a voltarsi e a distogliersi dal quadro che stava dipingendo. La risposta fu il solito sorriso, artificiale e sfrontato, e lo sguardo assente, sotto le palpebre pesanti.

“Parti?”

A Baltijsk, la città più a ovest di tutta l’Unione Sovietica, era giunto qualche giorno dopo, ovviamente non in veste di poeta, bensì di giornalista. La locale squadra giovanile di nuoto era stata defraudata di una medaglia durante la Spartachiade dei pionieri e la rivista Koster lo aveva mandato in missione per far luce sulla vicenda. Altrimenti non avrebbe mai potuto metter piede in quella base militare irraggiungibile per i comuni mortali privi di lasciapassare. Ma si sarebbe davvero perso molto se non fosse mai stato in quel porto sul Mar Baltico che non ghiacciava mai, neppure nel cuore dell’inverno? Cosa aveva di così particolare, a parte il fascino decadente dell’albergo d’anteguerra “L’Ancora d’oro”, quelle danze goffe e allusive tra marinai e l’alcol di contrabbando che vi scorreva a fiumi? Eppure quello era l’Occidente, rispetto a Leningrado…

Abbiamo vinto.
Abbiamo vinto noi.

Gliel’avevano ripetuto i responsabili della squadra di nuoto dei pionieri. E poi i pionieri stessi, adolescenti dalle spalle sproporzionatamente larghe e dagli occhi vacui. Come no, bastava vedere Kaliningrad per capirlo. Una città di vincitori, a soli cinquanta chilometri da Baltijsk. Una città ridotta a un cumulo di macerie, che sul mito della Vittoria sui nazifascisti aveva costruito tutta la sua precaria esistenza…

I capelli, avrei dovuto tirarglieli più forte. E la macchia sul collo, perché non l’ho leccata via con la lingua? Almeno mi sarebbe rimasto il suo sapore e non solo il volto…

Nascosto sotto le palpebre, come oppio,
Dai nostri stagni baltici, d’un soffio
Nella Prussia orientale entrando,
Il volto tuo introdussi, di contrabbando.

“Ah-ah-ah, un’altra poesiola!” avrebbe sicuramente esclamato beffarda al suo ritorno.

Il poeta non poteva saperlo, ma da lì a pochi mesi avrebbe scoperto con stupore di non essere affatto un poeta, bensì un perdigiorno, un parassita e un mangiaufo che viveva perfidamente alle spalle dello Stato sovietico. E questo malgrado le spedizioni al seguito dei geologi, gli articoletti, le traduzioni e gli innumerevoli tentativi di vendere ai giornali le sue foto scattate ai quattro angoli dell’Urss!

In tribunale, dinanzi a un’accigliata giudice, il ventiduenne dai capelli rossi, accusato di scarsa dedizione alla causa dell’edificazione del socialismo, avrebbe difeso il proprio diritto a definirsi poeta, pur non avendo mai frequentato alcuna apposita scuola. Alla domanda: “E allora, come si fa a diventare poeti?” risponderà con aria smarrita: “Credo che venga da Dio”.

“Iosif Brodskij ha sempre guardato al suo paese tenendosi un po’ in disparte, autoconfinandosi in uno spazio che appartiene soltanto alla storia e alla poesia. ‘Lascia che l’artista, parassita / a un altro paesaggio dia vita’. Non scriveva forse così?” sorride Tomas Venclova, poeta lituano e slavista, amico di Brodskij fin dalla seconda metà degli anni Sessanta. Secondo alcuni fu proprio lui a contagiarlo con la sua bizzarra passione per la città di K. “Per Iosif”, continua, “era importante vivere alla periferia dell’impero, dove le usanze, l’aria, malgrado tutto, sono un pochino diverse”.

Di margini e di periferie Venclova se ne intende. Non per nulla è nato nel 1937 a Klaipėda, là dove la terra lituana con le sue dune sabbiose digrada e scompare nel Mar Baltico. Gli anni dell’occupazione nazista li trascorse leggermente più a est, a Kaunas, la città che nel ventennio interbellico era stata la capitale della Lituania indipendente. In seguito, al termine del secondo conflitto mondiale, si trasferì con la sua famiglia ancora più a est, a Vilnius. Le autorità della neonata repubblica sovietica di Lituania avevano assegnato a suo padre Antanas, poeta ed esponente di spicco dell’intelligencija filocomunista, un bell’appartamento in una villa al numero 34 di via Pamėnkalnio, oggi trasformata in un museo a lui dedicato. L’occhiuto vicino della porta accanto, al soldo della polizia politica, ogni tanto faceva capolino sulla soglia, per sorvegliarlo. Vilnius era tornata da pochissimo alla Lituania – la Polonia se l’era annessa nel 1922 – e uno dei primi ricordi di Venclova è un pomeriggio trascorso a vagare per il centro città, allora completamente distrutto. Al ritorno da scuola si era perso in mezzo alle rovine del ghetto ebraico e dei pochi passanti incontrati per strada nessuno era in grado di fornirgli indicazioni, perché nessuno parlava lituano. Sballottato di qua e di là per tutta l’infanzia, Tomas aveva appena trovato una città che avrebbe potuto diventare sua – peccato fosse ridotta a un ammasso muto di macerie.

(…)

Ausiliaria dell’Armata Rossa

E Brodskij? Anche lui, come i suoi amici lituani, aveva la sensazione di andare comunque in Europa, partendo per Kaliningrad: “Anche se praticamente distrutta, era comunque l’unica grande città europea depositaria del ricordo della tradizione culturale occidentale che potessimo vedere coi nostri occhi”, spiega Venclova. Calcando le orme di Karamzin e recandosi non più in Prussia, bensì ai margini estremi dell’impero sovietico, Brodskij si ritrovò in un’Europa di macerie. Mentre a ovest le città tedesche erano state ricostruite con aggressiva alacrità in tempi record, l’ex Königsberg serbava intatto il vuoto spaventoso delle distruzioni belliche. In alcuni luoghi le lancette dell’orologio segnavano ancora un’ora qualsiasi della seconda metà del 1945, anzi: l’incuria sovietica, il famigerato immobilismo russo, forse anche una punta di cinico voyeurismo alimentato dalla vista dai resti materiali della disfatta inferta al nemico, avevano fatto sì che a Kaliningrad la polvere si depositasse sulla polvere delle macerie, che l’inesorabile azione del tempo erodesse quelle che, ormai, erano rovine di rovine.

Il castello dell’Ordine Teutonico si ergeva in mezzo alla città con la sua torre arsa e perforata dal tiro di artiglieria, simile a un enorme dente cariato. Tutt’intorno le facciate vuote delle poche case rimaste in piedi, puntellate da pali, sembravano archi di trionfo o ruderi di età romana, o ancora quinte teatrali di chissà quale opera fantastica. Il Duomo, privo di tetto, si levava in una fuga di archi tra cespugli e pozzanghere, e a un improbabile viaggiatore italiano di passaggio avrebbe certamente richiamato alla mente l’abbazia di S. Galgano. A differenza di quanto riferisce Alexander Kluge ne L’incursione aerea su Halberstadt, qui nessuna signora Schrader, nessuna impiegata di cinema, aveva imbracciato la pala della protezione antiaerea poche ore dopo il bombardamento, nella speranza di riuscire a sgomberare le macerie in tempo per lo spettacolo delle due del pomeriggio. Se per la Germania la precipitosa rimozione dei detriti e l’immediata ricostruzione sarebbero equivalse, dopo le devastazioni subite durante la guerra, “a una seconda liquidazione del suo passato” (W.G. Sebald), a Kaliningrad il passato in forma di rovina era ancora presente. I sovietici parevano averlo conservato come monito nel cuore stesso della città, perché fosse visibile. Certo non a tutti, data l’irraggiungibilità della zona – ma che almeno qualcuno vedesse. E Brodskij vide:

Se mi guardo alle spalle, posso ancora dire che siamo partiti da un luogo vuoto, no, meglio, da un luogo spaventosamente svuotato, e che intuitivamente ancor prima che consciamente, aspiravamo per l’appunto a ricreare l’effetto di una continuità della cultura, a ripristinare le sue forme e i suoi tropi, a colmare le sue poche parvenze superstiti, spesso totalmente compromesse, di contenuti nuovi, contemporanei, o che almeno ci sembravano tali.

Il Palazzo dei Soviet di Kaliningrad

Nel discorso di accettazione del premio Nobel che il poeta pronuncerà a Stoccolma nemmeno vent’anni più tardi riaffiora l’immagine lontana di Kaliningrad, “luogo svuotato” e perturbante per un’intera generazione. Per quanto inquietanti a vedersi, le rovine della città tedesca erano la testimonianza che, un tempo, era esistito anche altro rispetto all’ordine soffocante della società socialista. Rammentando la caducità di tutte le cose, esse costituivano paradossalmente uno spazio di libertà, poiché smentivano l’ottimismo forzato della narrazione utopista. E, al contempo, nell’immaginazione dell’intellettuale ribelle, prefiguravano il momento futuro – in realtà, neppure tanto distante – in cui anche della civiltà sovietica non sarebbero rimaste che rovine. D’altronde, l’aveva già detto Diderot: “posiamo lo sguardo sui ruderi di un arco di trionfo, di un portico, di una piramide, di un tempio e riveniamo su noi stessi. Anticipiamo le devastazioni del tempo e la nostra fantasia abbatte gli stessi edifici che abitiamo”.

Alla fine degli anni Cinquanta Venclova è di leva a Černogorsk, l’ex Insternburg. Presta servizio per un mese, poi scappa e s’imbosca a Kaliningrad tra le macerie.

Da lì nel 1968 Brodskij invia una Cartolina all’amico. In questi versi non esistono più né Königsberg né Kaliningrad: la città distrutta è ridotta alla sua sola iniziale e si staglia all’orizzonte, agitando le braccia di una lettera K:

Cartolina dalla città di K.

A Tomas Venclova

Rovine: trionfo dell’ossigeno
e del tempo. Un novissimo Archimede
potrebbe aggiungere all’antica legge
che un corpo, piantato nello spazio,
dallo spazio è soppiantato.

L’acqua
frantuma in uno specchio nuvoloso
i ruderi del Castello; ora quello dovrebbe
udire le profezie del fiume, meglio
che nei giorni arroganti
in cui il Maestro lo edificava.

Qualcuno
vaga tra le rovine, rivanga
il fogliame dell’anno scorso. Il vento,
figliol prodigo, è tornato alla casa paterna
e di colpo riceve tutte le lettere.

Con il riferimento inequivocabile al Castello – che, per di più, pochissimi mesi dopo verrà abbattuto per far posto al Palazzo dei Soviet – la Cartolina dedicata a Venclova inserisce K. (Königsberg + Kaliningrad) in una linea nobile della poesia europea: quella degli epitaffi a Roma. Elemento comune a tutti questi componimenti è la contrapposizione tra le vestigia del passato illustre di Roma e l’unico dato che permane intatto nel presente, sebbene a prima vista possa sembrare il più effimero e transeunte di tutti: le acque del Tevere.

Sostituendo a quest’ultimo il fiume Pregel, Brodskij fa della città di K. un simbolo universale e sovratemporale dell’inconsistenza delle ambizioni umane. Riflettendosi nelle onde del Pregel – ovvero nello specchio del tempo, poiché per Brodskij l’acqua è “forma condensata del Tempo” – i ruderi del Castello cessano di essere soltanto macerie e si trasformano in rovine. Non sono più la testimonianza di una distruzione recente – il segno tangibile della “follia della Storia”, come dirà Marc Augé – ma esperienza del tempo puro, estrapolato dagli eventi storici. Una forza che erode e consuma qualsiasi manufatto umano, rendendolo sempre più indistinguibile dalla Natura. Per cui chiedersi di che cosa le rovine di K. siano i resti è del tutto irrilevante: Brodskij non è più in grado di estrarle dallo stratificarsi di immagini e di riferimenti culturali che hanno evocato in lui. (…) Come per tutti i poeti, il reale in sé per lui non conta nulla. Proprio per questo la sua città di K. emerge dalla superficie cangiante dell’acqua con sembianze sempre nuove: ora le onde lasciano affiorare il volto della donna amata e, insieme, i contorni della città natale, Leningrado, anch’essa edificata in riva al Baltico; ora il Pregel riflette un paesaggio di rovine, richiamando alla mente nientemeno che la Città eterna.

Prima che in Cartolina, la sovrapposizione con Roma si era già delineata in Einem alten Architekten in Rom, una lunga poesia composta in esilio nel 1964 e ribattezzata dagli amici del poeta semplicemente Königsberg. Qui i contorni reali di Kaliningrad sfumano per lasciar spazio all’immagine puramente mentale di Roma caduta in mano ai barbari. Brodskij sogna di percorrere in carrozza le vie semidistrutte della città fino a raggiungere un luogo assai vago, ma identificabile con le rovine della cattedrale e la tomba di Kant. Quella che emerge però è una veduta da capriccio settecentesco, ideata accostando elementi reali ad altri fantastici, arcaici, schierati esclusivamente in virtù della loro eufonia:

Acanti, nimbi, colombi e colombe,
atlanti, ninfe, cupidi e leoni
pudichi celano dietro la schiena i moncherini.

A completare il quadro non manca neppure una capra, intenta a fissare la vegetazione che divora le macerie, mentre un “archeologo in erba” raccoglie cocci nel cappuccio della giubba – forse un riflesso dei tanti bambini reali che a Kaliningrad giocavano per strada con i vecchi mattoni tedeschi? I confini tra città e campagna si stemperano, la natura si appropria delle architetture cadute in rovina, e non è un caso che la presenza di Königsberg persista unicamente nel cinguettio degli uccelli o nel fruscio delle foglie, ovvero in quegli elementi naturali sempre uguali a sé stessi che trascendono le alterne vicende umane. A Kaliningrad solo gli alberi sussurrano qualcosa in tedesco:

Cik. Ich liebe dich.
Cik, cik, cirip. Cik-cik. Tu guarderai in alto,
e in forza della tristezza o, meglio, dell’abitudine,
in mezzo ai rami sottili vedrai Königsberg.

La percezione uditiva istiga la visione, la realtà si rivela allo sguardo solo dopo essersi manifestata come suono, sentire è indispensabile per vedere. Il mondo è una trama fittissima di assonanze e il compito del poeta consiste nell’udire giustamente, scriveva Marina Cvetaeva. Forse era a lei che pensava Brodskij, quando si chiedeva: “Perché un uccellino non dovrebbe chiamarsi Caucaso, Roma, Königsberg, eh? / Quando tutt’intorno ci sono solamente mattoni e ghiaia, /gli oggetti non esistono più, ma solo le parole. / Ma non ci sono labbra. E risuona il cinguettio”.

Malgrado la cacciata di coloro per cui il tedesco era la lingua madre, Brodskij vuole vedere a tutti i costi gli ex abitanti di Königsberg a Kaliningrad. E alla fine ci riesce, grazie al canto di un uccellino.

A sua volta Venclova risponderà all’amico, con un’altra Cartolina da K., inviata esattamente agli albori del nuovo millennio, nel 2000. Brodskij è morto da quattro anni e nella Kaliningrad post-sovietica ogni traccia del passato tedesco sembra essersi dileguata per sempre tra il gas di scappamento delle Toyota e il monossido di un quartiere biancastro, fitto di caseggiati tutti uguali. “I caratteri gotici / son rimasti solo nel fogliame”; più in basso soltanto il tracciato di alcune vie e le rotaie del tram parlano di Königsberg:

Nuova cartolina dalla città di K.

Tu dici: se gli uomini reclamano vendetta,
per le città assassinate diventa subito amaro,
si ripaga con stizza e alterchi melmosi.
Esse tutto perdonano. I tramvai tintinnano
nel corso dove soltanto rotaie e fondamenta
ricordano un cielo che piove a schegge.

Persino allorché il mondo si fa polvere,
non mutano le rotte dei vagoni né i dettagli
minuti della rete viaria. Ma dietro l’angolo
sbiancano lastre di cemento e il parco
s’arrende all’asfalto. Le volte della cattedrale
pregano Iddio per una morte lieve.

Uno stelo d’artemisia spunta dal cemento.
Muri graffiati occultano il giallo
soprabito dell’estraneo e qualche ruvida
folata incontra un ostacolo insignificante:
quel corpo mortale, cui capitò d’essere
in questo giorno piovoso in un paese straniero.

[…]

Non nasce la parola (forse sono solo brandelli).
Finché presso a parallelepipedi agglutinati
apparirà l’alba appiccicosa del continente,
il sogno, avvolti i corpi come il vento,
rotolerà per la città dove il tempo ha vinto
e perfino perdita più non v’è.

Notte fonda. Scheggia, era, costellazione
inarcano la latta. Nel feroce presente
sull’orlo di lande ormai senza nome
come in un nascondiglio attendiamo il mattino,
senza più vederci l’un l’altro,
senza intendere se siamo noi o altri.

***

Le traduzioni dal russo delle poesie di Iosif Brodskij sono dell’autrice, mentre quella dal lituano della poesia Naujas atvirukas iš K. miesto (Nuova cartolina dalla città di K.) di Tomas Venclova è di Pietro U. Dini. L’autrice ringrazia sentitamente Tomas Venclova per l’incontro a Vilnius e la conversazione su Iosif Brodskij.

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1 commento

  1. È stata una lettura avvincente, meravigliosamente ispiratrice, con una vivacità ricca di arte, che mi spinge non solo a comprare il libro di Valentina Parisi ma a conoscere questa autrice.

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