Incendio nel bosco

di Marco Candida

Fermiamo il riavvolgimento del nastro.
Guardiamoci intorno, nei pochi momenti in cui il fuoco è ancora creatura ammirevole, e dell’abete rosso e della farnia abbiamo detto, e a nord intrichi di larici, e vicino un leccio dall’aspetto così abbondante che mosso dal vento sembra masticare carnivoro i volatili che nidificano e si posano sulle sue braccia, e lì accanto una fioritura di maggiociondoli con i suoi fiori a grappoli gialli vivo, e cespugli di lentischio, ed erbaluigia, e a est olmi, e nel mezzo un pianoro ricoperto di foglie verdi rischiarato dal sole, e qui incontriamo un elemento che in mezzo a quell’incastrarsi di fusti, rami, creste d’alberi, foglie fa il suo effetto disorientante, e acquista anche una bellezza nuova.
Una borsa frigo.
E’ del tipo morbido, di colore azzurro, con ghirigori a decorazione, e bande bianche, e pallini rossi e arancione, a rappresentar mare, cielo, linee d’orizzonte, ombrelloni, una borsa frigo vistosa, artificiale, gommosa, che richiama immagini di corsie da supermarket, con la cerniera aperta a lasciare intravvedere tramezzini, fette di mollica bianco latte comprimenti miscugli colorati di cibo come insalata capricciosa, fette rosa di prosciutto cotto, lamelle di sottilette, e una bottiglia da un litro e mezzo di aranciata, e ai piedi della borsa-frigo un plaid kaki arancione e nero e sopra involti con dentro tramezzini sbocconcellati, piattini di plastica con qualche briciola semi-invisibile, oggetti che il fuoco divampando si divertirà a sterminare in un attimo liberando peraltro micro-quantità di diossina nell’aria, e il mostro mille-teste mangiandosi queste cose si mette sulle tracce di chi, forse, lo ha evocato: ecco il compito del mostro, inviato dalla natura per dare la caccia a chi si è provato a oltrepassare la realtà apparente per guardare al di là oppure che non si è curato della bellezza del mondo, oasi in mezzo a rottami cosmici, e l’ha sfregiata, e adesso il fuoco gliela farà pagare, si metterà sulle sue tracce e lo afferrerà e lo distruggerà.
E’ curioso, digredendo un momento, come i poeti si dedichino a mettere in versi un lauro e un barbagianni, e gli usignoli e le alche, e provino incanto per ciò che è oggetto di studio in botanica e zoologia, e si trova, in fondo, dal fruttivendolo e dal pescivendolo, o dal fioraio, o in erboristeria, in una serra o allo zoo, basterebbe scrivere in versi quel che si vede in questi luoghi quotidiani, e invece il poeta vuole trovarlo là da dove viene, e nel trovarlo prova incanto, lì, intatto, immobile, carezzato dal vento, sospeso tra cielo e terra, e l’elemento curioso in ciò è che in un mondo pieno di turpitudini al poeta basta una verza, aglio e cipolla, fin anche una cornacchia o una chiocciola per vedere l’immenso, l’infinito, provando sentimenti di fusione, come ignorando che l’abbracciamento universale comprenda anche la sozzura, come se la natura fosse cespugli di mirtilli e filari d’uva, luce, meraviglia, ed ecco la finzione, ecco che cosa provoca tutt’al più un sorriso amaro da parte di chi non capisce la poesia di un verso, non è in grado di percepirla, vedendo in essa una generalizzazione inaccettabile, ma forse il messaggio di fondo della poesia consiste nel far sapere che le cose belle nel mondo ci sono e che dovremmo guardarle e riprodurre qualcosa di simile a quello e non ad altro, come fabbriche, casamenti di cemento, ciclopi d’acciaio, utensili di plastica, anche se esistono tentativi di versificazione di questi paesaggi artificiali, e di esaltazione dell’opera dell’uomo, la poesia rimane cantare le bellezze naturali, e quando il poeta vuole esprimere sentimenti cupi e disperati sulla vita, sul suo senso, allora non descrive la disarmonia delle opere umane, sarebbe troppo facile, di quello già si occupa la prosa dei romanzetti e dei giornalisti della cronaca, ma alla natura si rivolge, guardandola sottecchi, un po’ di sbieco o alla rovescia, come Baudelaire nei “Fiori del Male” o come Montale negli “Ossi di seppia”, e pertanto non tradendo il magistero fondamentale di ogni poesia che sia poesia, ovvero che è la natura a dirci chi siamo e cosa dobbiamo fare in questo mondo, e se scrutata bene, ci dicono Montale e Baudelaire, la natura avverte sul destino delle cose, sull’esistenza dell’amico e dell’avversario, sul permanere in questa terra del bene e del male, e ci insegna, la natura, ci indirizza, con i suoi frutti, i suoi fiori, gli esseri viventi, già dice quel che bisogna sapere, e imitare, ed evitare, persino un gatto per Baudelaire è un avvertimento:

“Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato;
trattieni le unghie della zampa,
e lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi striati
di metallo e d’agata.
Quando le dita indugiano ad accarezzare
la tua testa e il dorso elastico
e la mano s’inebria del piacere di palpare
il tuo corpo elettrico,
vedo la mia donna in spirito. Il suo sguardo
come il tuo, amabile bestia,
profondo e freddo, taglia e fende come un dardo,
e, dai piedi fino alla testa,
un’aria sottile, un minaccioso profumo
circolano attorno al suo corpo bruno”.

Per Montale, invece, il ”mal di vivere” che cos’è?

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Possibile che a Montale non siano venute in mente altre immagini oltre a una “foglia riarsa” o un “rivo strozzato”? Invece, la poesia ci dice di guardare la natura e di comprendere i suoi messaggi, utili per la nostra vita, la nostra esistenza di uomini e donne. “Foresta di simboli”, scrive ancora Baudelaire nella sua celeberrima “Corrispondenze”.

E’ un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli òboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti.

Ha un suo senso questa fede nella natura da parte dei poeti, se si pensa che la natura è al mondo da molto prima dell’uomo, e non è da scartare l’ipotesi che possa esserci stata messa, in qualche modo, creata o fabbricata o predisposta, attraverso meccanismi evolutivi. Nel silenzio e nell’immobilità di sambuchi e carrubi può esserci una sapienza antichissima, preistorica e ancora intatta; e nelle spine di una rosa un comandamento adamantino: “Non toccare”, “Non manipolare”, “Abbi rispetto”; e se escludiamo i pidocchi verdi delle rose, o la virgola scarlatta di una mantide orchidea, e se escludiamo i baudelairiani gatti, che assaggiano fiori quali nasturzi e garofani d’India, e cosmee e monarde, e le rose, le rose!, le spine non sono forse messe lì per gli uomini e le donne?, i soli esseri che raccolgono rose, per odorarle e inghirlandarsi, ma forse per essere più esplicita la natura avrebbe dovuto innervare di spine i gambi di ogni fiore e i tronchi di ogni albero, chissà.
Il fuoco è la vera spina di piante e fiori.
La perdita d’equilibrio dell’ecosistema l’avvertimento naturale più evidente.
Adesso le spine della natura si allungano nel bosco, alla ricerca di chi le ha cagionate, radendo al suolo il più possibile, come avvertimento riguardo cosa accade se il diavolo viene evocato: “Se anche uno solo di voi non mi avrà compreso, io punirò tutti!”, e ora il vendicatore della natura si mette subito sulle tracce di chi ha osato farle male, studiando il plaid e la borsa-frigo con quel che c’è dentro, annusando come un segugio prima di addentare e fare a brandelli, e sulla coperta del pic-nic le fiamme ritrovano anche una forcina per capelli, e un altro dettaglio, una cintura, e prima di chiudersi su queste cose per divorarle, le fiamme capiscono su chi devono mettersi sulle tracce, un uomo e una donna, e il fuoco li troverà, oh se li troverà, e li arrostirà, senza fare distinzione come non fa distinzione per i muschi verdeggianti alla base dell’abete rosso, e nemmeno per le russule o le mazze di tamburo, per le vesce e i pinaroli, per i porcini e i prataioli tra distese di foglie o su qualche sporgenza sassosa con i loro cappelli dalle cuticule variopinte e ora viscide ora areolate ora pruinose ora verrucose, puf!, via tutto, appallottolandosi, annerendosi, erodendosi, polverizzandosi, e lo stesso sarà per l’uomo e la donna.
Ed eccoli, infatti, l’uomo e la donna, noi da quassù possiamo già vederli, stesi su un greto di latifoglie almate e lanceolate, lobate e rifogliate, piovute da pioppi e betulle e ontani, e ambedue paiono proprio avere un abbigliamento consono a un pic-nic con plaid e borsa-frigo, l’uomo indossando una maglietta di tela rossa, elegante, con il colletto e i bottoni, e un paio di calzoncini, con la cintura, e bottone e cerniera, la donna indossando un abbigliamento sportivo simile, una canottiera a righe bianche e rosa, non attillata, e una gonnella corta ma svolazzante, ed entrambi un paio di scarpe da ginnastica di tela blu quelle dell’uomo e rosse quelle della donna, e l’uomo e la donna si stanno amando, i corpi giovani intrecciati, e ignari, sospesi in una dimensione dove gli alberi hanno petali al posto delle foglie, e dalle sfumature infinite, e dai profumi più eterogenei, i tronchi blu, arancione, verde, creste fatte di margherite, di ciclamini, arance con la buccia celeste, castagne bianche, uva con acini neri e bianchi nello stesso grappolo, datteri rosa, limoni lillà, nidi di rondine opalescenti, ecco dove sono mentre si amano, in quale dimensione, in quale bosco.
Un bosco nel bosco.
Lui si chiama Fiore.
Lei Rosa.
La voglia di stringersi è un fuoco che arde entrambi.
Il bosco è parso luogo ideale per consumare la fiamma che da giorni e giorni, mesi, anni li brucia.
Per di più, questo bosco non è un bosco come qualsiasi altro bosco.
E’ un bosco speciale.
Il bosco di Silvano.
Silvano è il marito di Rosa.

 

NdR: il testo che precede è tratto da “Incendio nel bosco”, di Marco Candida (Tarka Edizioni, Collana Appenninica, 2019)
Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Nessuno può uccidere Medusa

Marino Magliani intervista Giuseppe Conte
Io lavoro intorno al mito dagli anni Settanta del secolo scorso, quando mi ribellai, allora davvero solo in Italia, allo strapotere della cultura analitica, della semiologia, del formalismo, una cultura che avevo attraversato come allievo e poi assistente di Gillo Dorfles alla Statale di Milano.

Dogpatch

di Elizabeth McKenzie (traduzione di Michela Martini)
In quegli anni passavo da un ufficio all’altro per sostituire impiegati in malattia, in congedo di maternità, con emergenze familiari o che semplicemente avevano detto “Mi licenzio” e se ne erano andati.

Euphorbia lactea

di Carlotta Centonze
L'odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d'ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione.

Un’agricoltura senza pesticidi ma non biologica?

di Giacomo Sartori
Le reali potenzialità di queste esperienze potranno essere valutate in base agli effettivi risultati. Si intravede però un’analogia con la rivoluzione verde, che ha permesso l’insediamento dell’agricoltura industriale nelle aree pianeggianti più fertili, e ha devastato gli ambienti collinari e/o poveri.

Pianure verticali, pianure orizzontali

di Giacomo Sartori
I viandanti assetati di bellezza avevano gli occhi freschi e curiosi, guardavano con deferenza i porticcioli e le chiese e le case, ma spesso anche le agavi e le querce e le rupi. Sapevano scovare il fascino anche dove chi ci abitava non lo sospettava, per esempio nell’architrave di castagno di una porta decrepita o nell’acciottolato di un carrugio.

RASOTERRA #2

di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)
A Mommo gli orti e i campetti sono striminziti, in un secondo zampetti da una parte all’altra. E sono in pendenza, perché lì sul fianco della montagna non c’è niente che non pencoli in un senso o nell’altro, anche le case e le strade e i prati si aggrappano saldamente per non scivolare a valle.
giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: