Il simbolo non schiaccerà i differenti resti. Pinocchio: un Atlante

Pinocchio, Giuditta Chiaraluce

Per mio monito il sacerdote porterà durante la processione nella mano destra una corona di rose appesa al suo sistro. Tu, senza esitazione, fendi la folla e immettiti nel corteo, contando sul mio favore. Dopo esserti piano piano avvicinato al sacerdote, come per baciargli la mano, prendi le rose e uscirai dalla pelle di questa bestia maledetta, che da lungo tempo mi è odiosa. Non devi avere paura né considerare troppo ardua nessuna delle mie disposizioni. Nello stesso momento in cui appaio a te, sto dando nel sonno al mio sacerdote le istruzioni per quanto verrà dopo.  Al mio comando, la folla pressata si aprirà davanti a te e nella gioia solenne della festa nessuno si ritrarrà da questo tuo orribile aspetto e nessuno ti incolperà interpretando malignamente la tua metamorfosi.

(da L’asino D’oro, Apuleio)

La forma della trasformazione per noi è la morte: e le ultime righe, che trattano della trasformazione di Pinocchio, raccontano la morte di Pinocchio. Durante la notte, durante il sonno, Pinocchio ha scelto di morire, ha chiamato a sé gli assassini, tutte le forme del fuoco e dell’acqua, l’omino di Burro, i febbroni, i fulmini delle sue nottatacce, il Serpente, il Pescatore verde. Egli ha usato tutta la sua leggenda, tutto il suo destino per uccidersi. Nessuno poteva uccidere Pinocchio, se non Pinocchio; nessuno se non lui poteva far morire quel suo legno «durissimo». Ma vi è del mistero in questa morte. […] Morto, è rimasto come salma «appoggiato ad una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondolonie con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo». Pinocchio guarda quel burattino misterioso, il «burattino meraviglioso» e «buffo». Nella casa del nuovo Pinocchio resta quella reliquia morta e prodigiosa, il nuovo e vivo dovrà coabitare col vecchio e morto. Quel metro di legno continuerà a sfidarlo.

Pinocchio Une Belle Histoire racontée en images par Corneille,
La Nuova Foglio Macerata

 

 

Pinocchio peraltro non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti, ricercatori di soluzioni umane, per rompere i propri limiti. Il primo suggerimento è frequentare i morti. Una morta. La fatina è una morta. È la femminilità eterna, epurata d’ogni traccia temporale. È l’idea della vergine matrice del cosmo come forza che dà nutrimento e forma al cosmo, plasmando, misurando, riparando. Per liberarsi dalla presa delle forze cosmiche vedendone la fine e il principio e la ragione, la matrice che le comprende, Collodi dà un suggerimento: “Imparare a vedere la fata nel sogno”. Non diversamente Dante o Petrarca. Non diversamente Apuleio. Che altro distingue Lucio uomo da Lucio asino se non la consuetudine di vedere Iside in sogno? A chi volesse saperne di più da un moderno, suggerirei di leggere le novelle di William Butler Yeats. Perché di operazioni interiori precise si tratta, non di frasi graziose. Ma come sapere se chi accenna a tali cose – che si possono chiamare, con proprietà d’aggettivazione, abissali -parla per abbondanza di cuore e per esperienza? Conosco un solo reagente. Che dal tesoro del cuore estragga vibranti di vita, nuovi, estatici simboli degli eterni archetipi, simboli che lascino stranamente trasognati, come dei déjà vu, come delle visioni intraviste e irritrovabili, chiaramente non di questo mondo. Ebbene: quando mai altri hanno come il Collodi scostato all’improvviso la cortina del mondo quotidiano per svelarci in un estatico istante una capretta di lana turchina ritta su uno scoglio in un mare sconvolto? Solenne, strana incarnazione della Fata o Sapienza, essa non può nascere che da una verace conoscenza.

(Rubina Giorgi, da Esercizi I)

Lorenzo Mattotti

[…] E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti al punto dove cominciava la spaziosa gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga. Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.

(da Le avventure di Pinocchio, Carlo Collodi)

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassú lassú si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento. Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaría cresceva, cresceva sempre piú, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile? Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprí le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

(da Ciàula scopre la luna)

[…]

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1 commento

  1. ALLA MEMORIA DELLA “PAROLA” DI RUBINA GIORGI,
    E IN OMAGGIO ALLA BRILLANTE NOTA SU “PINOCCHIO”,
    ALCUNE MIE “VECCHIE” (01 dicembre 2003)
    CONSIDERAZIONI SUL TEMA:

    INFANZIA E STORIA: DEMOCRAZIA, FIABA, E MESSAGGIO EU-ANGELICO. AL DI LA’ DEL MITO E DELLA LOGICA TRAGICA…. L’INDICAZIONE DI NELSON MANDELA E DON LORENZO MILANI (https://www.ildialogo.org/filosofia/demofiaba01122003.htm).

    Federico La Sala

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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