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Da “MaternA”

Hélène Bessette
(c)Eric et Patrick Brabant
(sdp)

[Finalmente posso ospitare la voce di Hélène Bessette su NI, e in italiano. Ora nessuno ha più alibi. E’ un’autrice straordinaria per quello che ha fatto del romanzo e della poesia. Sperimentatori e avanguardisti debbono consocerla, le scrittrici debbono conoscerla, chi vuol fare l’aggiornato deve conoscerla. La proponiamo grazie alla traduzione di Silvia Marzocchi e con una NOTA critica di Claudine Hunault. C’è anche una bibliografia italiana. Servitevi senza remore. a. i.]

di Hélène Bessette

Traduzione di Silvia Marzocchi

prima parte

A

Romanzo senza paesaggio.
Non ambientato.
Non c’è tempo per ambientare.
Secolo della velocità.
Il lettore ha fretta.
L’autrice ha fretta.
Il lettore legge a 60 all’ora.
…………………….a 80 all’ora.
…………………….a 35 nodi.
…………………….a 400 all’ora.
e:
I PERSONAGGI HANNO FRETTA.
– SU. ANDIAMO. MUOVETEVI.
………………………………………….SU.
Altri hanno descritto dei paesaggi.
Dei bei paesaggi.
C’è un tempo per ogni cosa.
Un tempo per i paesaggi.
Un tempo per la conversazione.
Sullo sfondo del tempo dei paesaggi (degli
altri) gli intrecci delle conversazioni.

La goffaggine, la volubilità, l’imprecisione,
l’incompiutezza, l’insoddisfazione delle lente
conversazioni della vita. Abbozzi.
Il pensiero timido, pigro. Casuale. Senza scopo.
Approssimativo. Relativo. Incerto. Difficoltoso.
Laborioso. Faticoso. Infermo. Bacato. Invalido.
Afflitto.

……….Delle conversazioni della vita.
Nel romanzo senza paesaggio:
……………….1 personaggio.
È una storia con
………………..1 personaggio.
È un romanzo
………………..mono,
………………..auto.
Su ogni pagina
lo stesso viso.
Su ogni retro
la stessa foto.
(Mono) tono.
Noioso.
Atroce.
Quando dura duecento pagine.
Quando dura due anni di tempo.
E ogni giorno come una pagina.
Ogni notte come un fronte.
Quando le parole della vita, l’esiguo Larousse del vocabolario quotidiano, si ripetono riproposte di giorno-pagina in giorno-pagina nello spento svolgersi di un film dalle immagini inconsistenti, ostinatamente ridisegnate.
Il regista manca d’immaginazione.

È un romanzo alla prima persona.
E all’ultima persona.

…………………TARZAN

Gli altri sminuiti, invisibili.
Minuscoli.
Voci soffocate.
Voci sconsolate.
Imbavagliate.

Romanzo ridotto ai minimi termini.
Nessun paesaggio e un personaggio.
– Lei non sta bene, urla l’Editore che trascura la forma,
influenzato dal gergo della giovane letteratura. Lei non sta bene. Si allarga un po’ troppo nella sua pigrizia. E come fa per scrivere?
Non ci capisco niente.
CHE INTENZIONI HA?
– Non ho IN-TEN-ZIO-NI, piange l’autrice, e asciugandosi le lacrime:
procediamo per associazioni d’idee:
Scrivo la parola che viene con la fine di quella precedente. O l’inizio di un pensiero con la fine di quello precedente.
– E va molto in là in questo modo, urla l’editore recalcitrante, quando scrive DEI romanzi?
– Si fa quel che si può, piange l’autrice.
– Via, non pianga, dice il mercante improvvisamente addolcito, e quando avrà fatto fortuna con i SUOI romanzi ci sposeremo. OK?
– Vabbè, risponde l’autrice sorridendo attraverso le lacrime.
e:
È l’unico modo per farmi pubblicare.
(È il primo matrimonio del romanzo, il frutto di un ragionamento sbagliato.)
Ma l’editore non sembra sentire: perché legge il manoscritto
……………….(a tutta birra)

 

 

………………………………………maternA

La A è importante.
L’infanzia infatti è la A della vita.
Ecco perché si scrive: maternA.
Ecco perché le eroine si chiamano:
………………………………………BrittA
………………………………………GrittA
………………………………………DjeminA
……………………………………….IolA
……………………………………….PierA
……………………………………….MonA
……………………………………….LisA

La A è dominante.
Il libro parla in A.
Storia senza uomini.
Storia di donne.
Nell’acqua delle bocche deformate delle donne,
la A come una foglia morta trasportata.
La A della vita.
L’immagine rammollita delle donne nell’acqua slavata
della loro vita quotidiana
e nei giochi di luci scialbe:

……………………………………..la A brilla.
……………………………………..la A in piedi.
……………………………………..la A viva.
La A della vita.
Le donne dal cuore fiaccato ma in quel cuore:
……………….La A rossa.
La A della vita.
Le donne dal viso illuminato dalla A della vita
che non si spegnerà.
Cosa ci rimane se qualcuno stacca la corrente?
Accendiamo la A.

…………….IN
……..REN E CO
…………….ZA

 

INCOERENZA

Il linguaggio insipido delle conversazioni molli.
Delle menti confuse, prolisse.
Immagini fluttuanti, inafferrabili.
Quello che nessuno vuole vedere,
vuole sentire,
vuole sapere.
Le bocche noiose, le bocche annoiate.
I visi grigi delle sere senza colore.
I tratti dei visi sfatti dalle parole
senza speranza.
Le donne che parlano una lingua morta.
Una lingua che non è quella dei romanzi.
Una lingua senza passione.
Una lingua dalle passioni piccine.
Dalle passioni nane di un attimo.
Presto suscitate, presto cancellate.
– Non fa per me, urla BrittA,
…………………………………….non fa per me.
……………………………..IO

 

ho un grande amore.

…………………………….IO

 

ho una grande passione.

La passione della

…………………………..A

Eppure,
………..;è il piccolo mondo delle donne
con un unico viso, un’unica bocca, un’unica
parola.
Senza sbagliarsi di molto, si può mettere la frase
di DjeminA in bocca a BrittA, la frase di BrittA
in bocca a DjeminA.
Senza sorprese. Una bocca vale l’altra.
Un viso vale l’altro.
Quando si chinano l’una verso l’altra, non ci
sono: BrittA, DjeminA. Un naso dritto, un naso aquilino,
un mento piatto, un mento tondo.
Ma un unico viso senza un disegno particolare.
Per sostituire la particolarità di un viso,
il colore unico delle donne, esattamente uguale,
assolutamente uguale.
Un colore senza nome.
Che non è contemplato nell’arcobaleno né
nelle combinazioni dell’arcobaleno.
E in questo piccolo mondo di un colore strano
si svolge un romanzo senza arie e senza canzoni.

Perché questa donna, DjeminA, di quarantacinque anni, sembra brutta, con gli occhi gonfi, le guance molli, il mento pesante, le mani da sguattera?
Per via della luce.
Il colore del romanzo.
Il colore senza nome.
Il “colore-donna”.
Perché questa donna, DjeminA, brutta (mancanza di luce), diventa improvvisamente bella, luminosa?
Perché BrittA le rivolge gentilmente la parola sorridendole.
DjeminA mormora teneramente:
– È venuta a parlarmi.
Questa la chiave del romanzo.
In questo romanzo indigesto dove migliaia di piccole azioni
striminzite s’intrecciano avviluppandosi. Senza sbocco. Senza logica. Smarrite. Un susseguirsi di parole senza seguito. Parole dette per essere dimenticate. Nessuna memoria.
Romanzo senza speranza. Senza un sogno. Tremendamente opaco.
Nessuno sapeva nemmeno che ci sarebbe stato un romanzo.
Le parole si sono ammassate, le azioni di un attimo moltiplicate, il tempo è passato.
Un tempo senza età. Un tempo rude. Senza sole.
Poi, voltandosi indietro, tutti i personaggi girati hanno visto che avevano appena vissuto un romanzo. Che era già la fine. Che non ci sarebbe stato più nulla. (Dato che è un romanzo e che i romanzi finiscono.)
I personaggi hanno capito, in un lampo, hanno avuto l’impressione, il presentimento, l’idea li ha sfiorati, che quelle brevi passioni spentesi in una parola urlata, in un lamento soffocato, erano forse il grido di allarme di altre passioni gigantesche, ardenti e segrete.
Romanzo senza uomini.
Noi, le donne, non abbiamo bisogno di un uomo per vivere un romanzo.
La nostra immaginazione fatta di parole banali e dozzinali, di parole casalinghe e culinarie, è all’altezza delle grandi passioni. Se abbiamo solo le nostre umili frasi futili per gridare non è altro che un difetto di presentazione.

…………………………….maternA

La A si è accesa nella grande casa che ha l’aspetto di una prigione.
La casa con venti finestre.
La casa con dieci porte.
La casa con trecento vetri.
La casa con quattrocentoventi vetri.
Sporchi.
Li laviamo solo una volta all’anno quando torna la primavera.
E tra i muri di porte e finestre, di vetri grigi di polvere e pioggia:
……………..la A della vita.

Tra i muri scoloriti:
…………….la A della vita.
…………….la A rossa.
…………….la A in piedi.

*
maternA Copyright Eric et Patrick Brabant/ Le nouvel Attila

*

Nota su Bessette

di Claudine Hunault

traduzione di Silvia Marzocchi

Hélène Bessette nasce nel 1918 à Levallois-Perret, alla periferia di Parigi. Le figure del padre, che non conoscerà, e della madre diventeranno temi ricorrenti nei suoi romanzi e il nome della madre, Rose, compare in due titoli: Garance Rose e Le Roman de Rose.

La sua formazione letteraria comincia nel 1934 nella biblioteca dell’École Normale di Alençon, in Normandia, istituto che forma le maestre elementari. La giovane Bessette ha le chiavi della biblioteca, di cui è responsabile, e vi si rifugia per scoprire i classici e la letteratura del suo tempo.

Maestra diplomata, tutt’altro che per vocazione, sarà costretta per ragioni economiche a esercitare accettando vari incarichi nelle cittadine di provincia buona parte della sua vita.

Durante la seconda guerra mondiale s’innamora di un pastore protestante, si converte, lo sposa e nel 1946 lo segue con i due figli in Nuova Caledonia dove lui è stato mandato in missione.

L’iniziazione religiosa si svolge per Bessette in un contesto di guerra e distruzione. Eppure la fede che nutre non è estranea al suo volgersi alla scrittura quando con sgomento constaterà l’ipocrisia della Chiesa e il silenzio di Dio:

«Questo Tribunale con il quale ci minacciano dalla notte dei tempi.

Questo Tribunale terribile.

Posto nell’alto dei cieli.

E dal quale dipendiamo.

Perché, mia cara Dora,

Questo Cristianesimo che opprime il mondo.

Per mezzo del dramma e del melodramma.

Questa croce che hanno innalzato come un arredo di scena.

Queste viltà e questi silenzi intrecciati insieme.

Per fare una storia.

Non è altro.» scrive in La Rottura, pubblicato nel 1963.

E nel 1973, riferendosi al ruolo della Chiesa durante la Seconda Guerra Mondiale, scrive nel romanzo ancora inedito Fading:

«Non capire. Non vedere. Non indagare. Non sentire. Non rispondere.

Questa negazione totale, forza invincibile e senza pari.

Non credere all’evidenza, alle verità terrificanti».

 

La scrittura di Hélène Bessette si sviluppa dapprima in Nuova Caledonia, grazie a una rivista di propaganda protestante sulla quale firma la maggior parte degli articoli nei quali difende la necessità di una vita spirituale, a maggior ragione quando l’orizzonte umano va sempre più restringendosi al piano materiale.

Sempre sulla stessa rivista, «Évangile Sud», Hélène Bessette pubblica il suo primo romanzo, Marie Desoublie. La singolarità del romanzo colpisce l’etnologo Maurice Leenhartd che ne parla a Michel Leiris che a sua volta lo segnala a Raymond Queneau.

Tra il 1953 e il 1973 Queneau pubblicherà con Gallimard tredici romanzi dell’autrice, tornata in Francia nel 1949 dopo il doloroso divorzio dal marito.

Pochi lettori ma alcuni sostenitori irriducibili, un processo per diffamazione che stronca Les petites Lecoq, romanzo concepito per un pubblico più largo, una scrittrice che malgrado la sorte avversa continua con fermo intento a costruire la propria opera, i suoi libri che non si vendono, i suoi libri fuori catalogo, poi dimenticati.

Dal 2006 al 2012, dopo la morte avvenuta nel 2000, i suoi romanzi saranno di nuovo pubblicati, a cura di Laure Limongi, dalle edizioni Léo Scheer. E di nuovo finiscono fuori catalogo.

Infine, dal 2017 è in corso l’edizione integrale dell’opera, compresi gli inediti, da Le Nouvel Attila grazie all’editore Benoît Virot.

 

I romanzi di Hélène Bessette si riallacciano a problematiche e situazioni concrete – il nodo amore/odio tra una madre e la figlia in Lili, l’universo dell’Istruzione pubblica in maternA, il parricidio, tratto da un fatto di cronaca, in Venti minuti di silenzio -, che l’insolenza e il ritmo della lingua, l’impiego poetico del mondo, attento e di feroce chiaroveggenza, svincolano dal ritratto di una condizione sociale o psicologica. L’autrice sceglie di raccontare il nostro mondo smontandone i meccanismi che lo sottendono e lo fa al di fuori dei codici nei quali quello stesso mondo si riconosce.

Hélène Bessette non aderirà mai ad alcun circolo o movimento, letterario, femminista, politico, pur tuttavia continuando a sovvertire le convenzioni del romanzo, inventando nuove forme e creando un linguaggio che le varrà l’ammirazione di scrittori quali André Malraux, Marguerite Duras, Nathalie Sarraute.

Il romanzo poetico di Hélène Bessette, genere che crea e definisce nel suo manifesto letterario, scritto nel 1954 ma pubblicato nel ’69, sulla rivista «Le Résumé» da lei stessa fondata, si sviluppa a partire da ciò che non è formulato, che si rintana in fondo alle vite e agli esseri, e che il ritmo, le ripetizioni, le associazioni inedite riescono a far emergere.

Come scrive in «Le Résumé»: “La Letteratura ha cinquant’anni di ritardo sulla Pittura, l’Architettura, la Musica. Le altre Arti non esitano a servirsi di materiali nuovi. Come mai la Letteratura non si affranca dalla tradizione letteraria (…) Che una forma cosiddetta “poetica” entri a far parte della scrittura è nella continuità logica dell’evoluzione letteraria (…) Forma poetica che può esprimersi attraverso una disarticolazione della frase, una scissione. Una sorta d’impressionismo letterario, di tachisme. Di fonetismo (…). Un movimento è in atto. Si tratta, come in Pittura, di passare dal Figurativo all’Astratto”.[1]

E se le parole vengono a mancare, Bessette esprime l’”informulato” con lo spazio lasciato bianco sulla pagina, dove l’inaccessibile verità continua a battere.

.

maternA romanzo dada

maternA esce nel 1954. È il secondo romanzo poetico dell’autrice.

La lettura di maternA, romanzo composto come un poema in versi liberi, è un’esperienza singolare: stretti nella morsa della lingua corriamo fino all’ultima riga, dalla prima all’ultima parola, da INCOERENZA a VACANZE, non c’è modo di staccarsi o distrarsi, leggere è urgente. La scrittrice ci ha avvertiti, non c’è tempo per ambientare il romanzo, lei e i suoi personaggi hanno fretta.

Tutta l’opera di Hélène Bessette è portata da una lingua scolpita nel vivo, estremamente ritmata, maternA però ci afferra con una rabbia e un’ebbrezza inconsuete e ci conduce in un regno che Madame Bessette conosce bene, che non le ha risparmiato niente e al quale lei niente risparmierà: il piccolo mondo, pieno di sé e autosufficiente dell’Istruzione Pubblica, brulicante di donne, maestre, presidi, ispettrici, al servizio della A – «l’infanzia è la A della vita» -, nobile causa per eccellenza, che esige la devozione fino al sacrificio, fino al martirio.

maternA anatomizza con un’allegria contagiosa le convenzioni, il conformismo, il presunto buon gusto. Siamo nel grande grembo dove vengono plasmate le giovani intelligenze. Ognuna di queste signorine deve dimenticare quello che ha vissuto o quello avrebbe potuto vivere. Un disprezzo mellifluo e silenzioso aleggia su tutto quello che non è dovere e abnegazione. Sono uscite dall’École Normale, convento senza crocifisso, dove hanno imparato, con orgoglio, a padroneggiare, a riprodurre, a ridistribuire una lingua. La scrittrice s’impossessa, con particolare brio, della lingua dell’asservimento e della dominazione per sbrigliarla e farla finalmente parlare e dire la legge che domina quel piccolo mondo: i corpi bambini appartengono alla Scuola e le vite delle maestre appartengono al grande Corpo Insegnante. Ciascuna di loro è costretta a fare atto di vassallaggio, a render conto della propria vita e del proprio impiego del tempo. Non aderire anima e corpo implica tradire la causa e sottintende una differenza, mentre la regola è chiara: in queste false fratellanze non una testa dev’essere più alta dell’altra, salvo quella della direttrice. La paura è ciò che le unisce. Accusa e condanna sono il blasone della casa-prigione.

Qui le parole divorano, fagocitanti i bambini, quello che hanno fatto, fatto bene, non fatto, fatto male, poi d’un tratto li si coccola furiosamente per dimostrare che ci se ne prende cura meglio delle madri (quelle incapaci!). Ci si sbrana a vicenda tra colleghe, i guai dell’una, i problemi dell’altra, per rinvigorire un’esistenza meschina. Queste signorine dalla vita anemica hanno un appetito feroce dei grandi e dei piccoli dolori altrui, quali giusta ricompensa a un dovere gravoso: infarcire le piccole teste. È il grande circo dell’ammaestramento, il music-hall del sacrificio.

Formate, istruite, diplomate, arruolate, le maestre esercitano sotto lo sguardo vigile, e sotto il giogo, dello Stato-Papà. Brave cittadine fanno allegramente e con severità circolare la legge dai cortili alle aule, dai refettori ai WC. Ogni cosa a suo posto, disporre dei bambini, detestare le donne, venerare gli uomini.

 

*

 

Di Hélène Bessette sono disponibili in italiano:

Lili, traduzione di Tommaso Guttieri, Edizioni Barbes, Firenze, 2008;

La rottura, traduzione di Silvia Marzocchi, Nonostante Edizioni, Trieste, 2016;

Ida o il delirio, traduzione di Silvia Marzocchi, Nonostante Edizioni, Trieste, 2017.

Venti minuti di silenzio, traduzione di Silvia Marzocchi, Nonostante Edizioni, Trieste – di prossima pubblicazione -.

[1] Hélène Bessette, Le Résumé, in Ida ou le Délire, Editions Léo Scheer, Paris, 2012, pp. 194-195.

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17 Commenti

  1. Non capisco perché l’editoria italiana continui a importare testi inutili dall’estero e tralasciare un’autrice così. Le sole tredici pubblicazioni con Gallimard giustificherebbero almeno una traduzione italiana.

I commenti a questo post sono chiusi

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