Riccardo, ti ricordi…

(A Porto s’è svolta una importante mostra sull’opera di Riccardo Dalisi. Davide Vargas ci regala il suo affettuosissimo testo presente nel catalogo, e noi lo ringraziamo. G.B.)

di Davide Vargas

Riccardo è nato nella festa dei lavoratori del 1931 ed oggi è seduto con me su una panchina della Floridiana di Napoli sotto un grande tiglio frondoso. Sulle pendici del Vomero. Lui la sente la natura. Poi ci alziamo e facciamo quattro passi, sulla panchina liberata si insediano in un attimo due gatti che si leccano le zampe e rizzano il pelo a dire: è nostra. La villa della duchessa di Florida è un progetto unitario di architettura e giardino, autore Antonio Niccolini agli inizi dell’ottocento, perciò Riccardo viene qui da sempre. Camminiamo lentamente tra le transenne, lungo i viali curvilinei, fiancheggiando pini e palme californiane, cespi di ortensie e felci, yucca e alloro. Il retro dell’edificio nitido e bianco è pieno di sorprese. Uno scalone porta giù fino alla vasca con le tartarughe che si muovono nell’acqua verdastra. E oltre c’è la città, da un estremo all’altro, e il mare con le barche. Tutta qui Napoli, a portata di mano. Ora ci sediamo davanti a questa specie di atlante, l’uomo è stanco e mi sembra di essere partecipe di un momento magico, come quando in un altro tempo un uomo anziano fosse rimasto per un minuto o un secolo seduto su una vecchia sedia di paglia ad osservare un pezzo di terreno, i fili d’erba e i fiori di tarassaco, fino a leggere l’anima del luogo. Perché è così, se solo ci sai fare lo scopri che ogni luogo è una mappa, un canzoniere, un’epopea. Questo ha fatto Riccardo Dalisi con la sua città: la narrazione lunga una vita di visioni, sensazioni, leggende, odori, voci e suoni, energie, violenze e atti d’amore, frasi e silenzi, storie e frontiere, fantasie e spietato realismo. Cose così, una meraviglia. E lo ha fatto attraverso il progetto. Le parole [da ogni grammatica] del progetto. La natura, Napoli, i miti, le maschere della città, la creatività collettiva del popolo e degli scugnizzi, la partecipazione e la controcultura degli anni settanta, questi i temi. Io ho conosciuto da studente prossimo alla laurea il professore Dalisi alla fine degli anni settanta. Quindi mi sono perso le sperimentazioni del Rione Traiano Ma la lunga frequentazione mi ha trasferito l’esperienza complessiva della sua ricerca.

Ti ricordi Riccardo…

Quando Alessandro Mendini su Casabella definì nei primi anni settanta il tuo percorso ideativo “tecnica povera in rivolta”. Il che presuppone un interlocutore e un contro. Nel tuo caso l’interlocutore è un co-autore, di volta in volta un bambino o un vecchio del sottoproletariato, un artigiano o un disoccupato, la vicina del tuo studio sfinita nei sui cento chili o la giovane figlia bella come una ninfa plebea. Il contro è una metodologia specialistica. Ma tu il suo valore non l’hai mai negato, solo che vi hai aggiunto quel tanto di imprevedibilità che risiede nelle origini della cultura e annida nei suoi luoghi marginali. C’è una fotografia che racconta quegli anni: tre quattro ragazzini scugnizzi arrampicati sui ferri di attesa che spuntano dai pilastri di un cantiere senza alcuna protezione di sicurezza. Si dondolano, stanno a gambe divaricate tra le armature che si piegano sotto il peso, camminano e poi siedono come i famosi operai americani, o forse italiani immigrati, in fila a mangiare sulla trave sospesa di un grattacielo in costruzione, con le gambe penzoloni sul vuoto. Ma sono gli stessi scugnizzi festanti, vivaci, allegri, improvvisamente tristi, bambini e bambine, con i quali tu signore con i capelli già grigi compi da sempre e ancora l’incanto di saper parlare. Hai attraversato i margini con l’atteggiamento del rabdomante che con un bastone scrosta la superficie alla ricerca dei SEGNI che il mondo ben organizzato ha seppellito. E li hai reinventati con loro, i bambini. O meglio, sono loro che li hanno inventati, i cavalieri e gli scudieri, i pupazzi, gli angeli e i diavoli, infine le sirene e i matti. Con te.

A Ponticelli c’ero anche io, ai tempi della didattica partecipata…

Uno zampillo della fontana schizza sulla roccia, le tartarughe affiorano a pelo d’acqua e gli occhietti azzurri si fanno più attenti. Questa città ha ancora spazio per occhi stupiti. Ma gli occhi davvero stupiti hanno un che di determinazione, perché in quell’istante stanno scoprendo un segreto. La scoperta a Ponticelli fu che occorreva andare oltre i filamenti di una cultura popolare già contaminata, da mercato della nostalgia per intenderci, e ricercare le tracce di una rara autenticità. Ecco le periferie e a Napoli la periferia è ovunque popolata dei suoi figli migliori, periferici anche essi, da Troisi a Murolo, gente così. Quando un vecchio della Casa del Popolo racconta la stessa storia anche molte volte ha sempre gente in ascolto, e “la narrazione è arte che precede la letteratura, il teatro, l’architettura”, così ci dicevi. Quando un bambino disegna con i pennarelli come se carezzasse i petali di un giglio o taglia lamiere tenerissime con le forbici per poi ribatterle con il martello e infine ricucirle con il filo di ferro, gli stessi bambini scugnizzi che un istante prima si sono rotolati nel cortile come in una scena di Accattone aggrediti dalla propria incontrollata energia e gli stessi vecchi che hanno piegato il capo per la stanchezza come i poveri di Ratcliffe che Faulkner fa riunire nel retrobottega davanti a un architetto inutile [“Non avete denaro. Non avete neanche qualcosa da copiare: come potete sbagliarvi?”], entrambi vecchi e bambini ci stanno portando in un punto originario sottile rarefatto, persino ambiguo, dove c’è ancora un po’ di libertà di espressione. E non a caso viene in mente Faulkner. Non c’è molta differenza tra la Contea di Yoknapatawpha e il Rione Traiano o Ponticelli. La Contea americana non esiste geograficamente ma è un’invenzione letteraria. Perciò i suoi fiumi le sue praterie le sue rocce le sue città sono più vere del reale. Così il Rione Traiano o i cortili di Ponticelli sono esclusivamente una CREAZIONE dello sciamano napoletano. Unica riconoscibile e memorabile.

E dopo…

Tante altre cose. Per esempio…ora passeggiamo per la città verso Calata San Francesco dove c’è lo studio con la vista mozzafiato sul profilo femmineo dell’isola adagiata sulla linea dell’orizzonte come una gran dama sotto la luce perlacea di questo cielo tardo autunnale. Sirena messaggera di amore, provato per ogni cosa che richiedesse un rapporto, persone, donne, bambini, cose. Cominciano le scale che discendono al mare tra tufi dorati punteggiati di capperi, tra gramigne solitarie spuntate tra gli interstizi del basolato e piantine di narcisi dietro le inferriate panciute che racchiudono tutte le finestre. In uno slarghetto una band di giovani con barbe e orecchini e cappelli da cow boy suona il blues di Pino Daniele. Il batterista suona su piatti veri di batteria e su bidoni bidoncini e taniche di plastica. Roba di scarto. Al più un panno poggiato dove si abbatte la bacchetta. Per modulare il suono. Quante volte hai raccolto in terra carte di caramelle per trasformarle poi in abiti argentati, dorati, variopinti ancora intrisi del profumo di cioccolata nei disegni di donnine, i capelli fluenti allungati con il pennello imbevuto di colore in una infinita storia d’innamoramenti. Hai sempre detto che i rifiuti posseggono una “preziosità capovolgente”, che da essi si possono tirar fuori risorse e disponibilità. Ti ho visto raccogliere zollette di terreno in una busta di plastica e pezzetto dopo pezzetto trasformare un muro diruto in un’aiuoletta di gerani che i vicini hanno piantato e poi innaffiato. Così succede, che vengono fuori qualità sociali e umane inaspettate. Poi cosa importa se il muro è rimasto diruto e i fiori non sono mai germogliati. Uno fa queste cose, a Napoli poi, e non ha niente a che fare con gli stereotipi del folclore. Dall’altra parte dell’oceano i due protagonisti di Scarti, un bel libro di Jonathan Miles vivono degli avanzi che trovano tra i rifiuti e lo fanno serenamente. Questo è il punto. Per scelta. Per contestare il meccanismo. Ma qui ha a che fare con il territorio della fiaba dove un mondo migliore è possibile. Proprio quello che sognano i piccoli di Scampia dove si stanno coltivando i semi per un museo dei bambini radunati intorno a una sorta di moderno Pifferaio di Hamelin che non desideri altro che vadano per una propria strada luminosa. Si chiama “Tam Tam Scampia” il progetto. Tu stesso forse non sei vero ma appartieni alla fiaba.

Sì, tante altre cose…

La caffettiera napoletana. La città si prepara alla festa più contraddittoria dell’anno. Tra i palazzi già sono sospesi i fili con le lucine da Mille e una Notte [ma devi guardare tra le ciglia di occhi socchiusi], per strada cominciano ad apparire i guitti sui trampoli, i pulcinella, i Totò, le streghe e i maghi. Praticamente i mille personaggi dei prototipi che hanno fatto impazzire Alessi. Ma si sa, la “napoletana” va oltre l’oggetto, è un processo di un design aperto che non risponde soltanto all’industria ma sa ascoltare le voci degli ultimi. Perciò c’è un’infinità di caffettiere/sculture che a quegli ultimi restituiscono un momento di dignità. Nuova icona di napoletanità, in evanescente dialogo con un Eduardo in bianco e nero seduto su un balcone della città mentre svela i segreti antichi per fare un vero caffè, rigirando tra le mani una caffettiera su cui ha messo un “coppitello” di carta. Sul becco, dice, per non disperdere l’aroma caldo del primo caffè, ripiegato come il cappello di Pulcinella o gli elmi le maschere che inventerai tu. E parla a un Professore. Ci andiamo a Rua Catalana tra gli artigiani che hanno realizzato tutto ciò, tra le botteghe dei vecchi lattonai con gli ingressi incastrati tra graffiti e cianfrusaglie pendenti. E poi sopra le nostre teste lo schieramento dei tuoi lampioni burleschi e irridenti. Imprevedibili, appesi ad una gamba protesa o a uno spillone o a una gigantesca molletta i lumi pendono e ondeggiano con le ruggini, i pezzi mancanti, i fili appesi e forse non si accendono più. E in ogni vetrina c’è un pezzetto di lamiera sbalzata filiforme o ritagliata che ha le sembianze fiabesche di un cavaliere o un Totocchio o una caffettiera animata. È un’eredità lasciata al quartiere. Un esercito di piccioni si dispone in formazione ordinata sui cavi da un palazzo all’altro. All’imbrunire radunati in squadriglie andranno a volteggiare come bandiere nel cielo del porto intriso di mare e palpito di rotte. Come a Nantucket.

E poi dico…

Dico l’Architettura. I segni importanti della città portano la tua firma. Anche la tua firma. Come la Borsa Merci, progetto vincitore di concorso nel 1964, dove il vero pezzo di bravura è lo spazio interno con l’invenzione della scala. Un nastro che sale, poi cammina in piano e infine si arrampica fino in cima con la luce che cola dall’alto, passa nei vuoti delle rampe e disvela le forme della galleria. La scalinata occupa tutta la lunghezza dell’edificio. Ad ogni piano incontri persone con le borse i telefonini e le sigarette elettroniche. E punti di vista. L’architettura l’hai insegnata a schiere di giovani con quel tanto di disincanto necessario per dare alla professione una vocazione. E hai insegnato “l’imprevedibilità” del progetto restituendo anche all’errore una specie di viatico verso l’idea libera. E a “progettare senza pensare”. Agganciandosi cioè alla totalità dell’essere umano, compreso la mente. La Borsa Merci è lontana e l’aria si è raffreddata. Questo girovagare seguendo la trama di temi luoghi e rievocazioni che hanno alimentato la tua ricerca ricevendone in cambio una presa di coscienza rischia di essere un viaggio infinito. La tua creatività è stata ed è inesauribile come gli itinerari di bellezza che la città disvela se solo il viandante abbia occhi per riconoscere. Linee, che le metti insieme e scopri che alla fine hai tracciato il tuo stesso profilo in una sovrapposizione pazientemente costruita. L’aria è pungente ed è meglio rientrare. Le luci nelle finestre sono tutte accese.

Ma una cosa ancora…

Te le ricordi, Riccardo, tutte le vagonate di poesie che ci hai lette? Sui prati di Morosolo dove rimanevamo fermi per qualche minuto davanti alla quercia, ai fili d’erba punteggiati di campanule azzurrine, ai cespugli di forsizia e alla balza di verbena, sotto il cielo di Jimenez che ricadeva fino alle sponde muschiose del lago, rimanevamo lì a cercare una risposta. O una domanda.

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Davide Vargas, 29 ottobre 2018

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1 commento

  1. E noi siamo li in uno spazio di tempo tra la luce delle stelle e un filo di erbetta che la rugiada ingigantisce. Nelle pieghe di un racconto che si insinua fino alle viscere dell’uomo, di una città. Resta, se ne va poi ritorna. Un mare tessuto e ondulato. Parlano di un uomo, di un luogo o di un sentimento allo stesso modo, la vibrazione parte da una sorgente unica e infinita.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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