Articolo precedente
Articolo successivo

Da «Il male in corpo»

di Marisa Fasanella

[Pubblichiamo una pagina dal romanzo di Marisa Fasanella Il male in corpo, Castelvecchi 2019].

***

Mercoledì, 18 maggio. La stanza della memoria

Alle sei del mattino, nella clinica dormono tutti. L’infermiera veglia sul suo sonno, seduta sul letto è la sua ombra. È allarmata come un faro, va avanti e indietro e cerca il cellulare.

Svuoto gli armadi e mi porto via i vestiti con tutte le grucce: non c’è tempo. Le guardie chiamano il direttore e l’infermiera grida che non posso portarmelo via senza prima parlare con lui. Le valigie sono spalancate, piego ogni cosa con cura. Poi sono chiuse, sono gonfie come barili, sono pronte. Alzo mio padre e lo siedo sulla carrozzina: guarda fuori dalla finestra e non cede alla mia voce né ai miei sguardi. Frugo nel legno dei cassetti, nell’armadio, apro ogni pertugio, sotto il materasso nelle pieghe dei cuscini, osservo le cuciture con cura. Guardo persino dietro i quadri appesi alle pareti, dietro lo specchio, ma pesa come un morto. «Mi aiuti, non se ne stia lì impalata» grido alla guardia. Lo depositiamo sul pavimento e dietro c’è un vuoto, una nicchia, ci sono i suoi disegni arrotolati e chiusi in una federa. L’infermiera ha trovato il cellulare e si allontana, la fermo.

«A chi sta chiamando?» chiedo.

«A nessuno», e sceglie una delle tasche del camice per liberarsi le mani.

Mio padre trema, si aggrappa alle mani dell’infermiera come un naufrago. Gli infilo la giacca e gli infilo i pantaloni sul pigiama, gli copro la testa col cappello e le mani con i guanti. Esco nel corridoio, trattengo le lacrime, nascondo gli occhi dietro un paio di occhiali scuri. L’uomo di paglia allunga il passo sul viale, si passa le mani nei capelli. L’ho chiamato. Gli ho chiesto di venire. All’infermiera, ieri, è sfuggito il suo nome.

Scompaio dietro una colonna e aspetto: parla con l’infermiera, gesticola, chiede di me, dei disegni, del disordine. Abbraccia mio padre, gli sussurra qualcosa nell’orecchio, spiana le sue rughe.

Con le punte delle dita accarezzo i disegni: la carta è ruvida, strati di polvere mi separano dal tratto della matita. Perché non erano con gli altri?

Il direttore della clinica ha ceduto all’uomo di paglia e ci lascia andar via. Le mani di mio padre si agitano e la sua testa ciondola e digrigna i denti e grida e l’infermiera dice: «Arrivederci!».

I facchini dispongono la sua vita nel bagagliaio della station-wagon di Fabio: è di colore grigio con i sedili reclinabili e il tettuccio apribile, non ha più la vecchia cabriolet.

Mio padre ha gli occhi stretti e si lascia trasportare sulla sedia a rotelle e sale sull’auto e segue con lo sguardo il dito di Fabio che gli indica il cielo. L’infermiera si sporge dalla portiera e ripete ancora quella parola: «Arrivederci!». Guardo la clinica fino a quando non svoltiamo in una piazza e ce la lasciamo alle spalle.

Nella corte solo qualche gatto randagio, la attraversiamo e parcheggiamo sotto le finestre, nessuno bada a noi. Fabio lo solleva, ha il peso di una creatura, i farmaci dell’assenza lo hanno risucchiato. Lo siede sulla carrozzella e lo trasporta all’ascensore. C’è solo il mio appartamento e la scala che sale in soffitta e l’ascensore che si ferma al piano e guardo la cabina salire e mi affanno e lo guido nella casa. Abiterà la stanza degli ospiti, è di fianco alla mia e ha il bagno in camera. Rebecca e Cecco hanno dormito qui, ma in un’altra vita. Vado avanti e indietro, apro l’armadio, i cassetti, rimetto ordine nella vita che pesa nei cartoni e nelle valigie, rifaccio il letto. Il signor B non segue il mio periplo, si acciambella sulle ginocchia ossute e lo tiene caldo, lecca le sue mani artritiche.

L’uomo di paglia apre il frigo e scuote la testa: «Vado a fare la spesa, per farti perdonare mi inviterai a cena. Cucinerò io, naturalmente».

Non lo fermo, lo guardo dalla finestra, sale in auto, scompare. L’uomo di paglia conosce l’infermiera. L’uomo di paglia ha sempre saputo dove trovare mio padre. L’uomo di paglia legge le sue labbra.

Nessuno aveva pensato alla sua lingua, dopo l’incidente, la tata aveva curato con le sue erbe quello che sembrava il morso di un cinghiale, ma non era un morso. Maria Schiavone, dopo la morte di Margherita, era andata a trovarlo, la sua lingua era sporta dalla bocca come la bava di una lumaca e ne mancava un pezzo. L’aveva riferito alla tata quando era tornata, me lo ricordo come fosse oggi, e la tata si era segnata la fronte e aveva chiuso le finestre come per un nuovo lutto.

L’uomo di paglia ci proteggerà, padre: ha dato lavoro all’orfana di Margherita, l’ha allontanata dalla verità, ha bruciato l’archivio della fabbrica per non permetterle di frugare tra le vecchie carte. Custodivano la firma di Mimì Ferraro? Allunga le mani sulle ruote della carrozzella e si avvicina alla finestra, guarda attraverso le tende i tetti delle case e una forma di azzurro che forse è il cielo. La barba di un giorno cresce spaiata sul viso rinsecchito, sono peli bianchi distanti l’uno dall’altro, spoglio le finestre. Che succede, padre? Sono un animale notturno, solitario, ma sto guardando il cielo.

Mi siedo sul divano, prendo i disegni dalla borsa e li apro, la carta è ruvida, liscio i fogli a uno a uno, guardo con attenzione: gli agnelli camminano in coppia, ma su righi diversi, il caprone li guida. Gli altri disegni, quelli che si sono portati via, erano solo pecore smarrite, scancellate. Si alza, all’improvviso, e cammina sbilanciato in avanti, si ferma davanti alla libreria, guarda gli scaffali, si volta e i suoi occhi sono sguardo. Un attimo dopo trema, muove la testa, faccio appena in tempo a metterlo seduto e svolta gli occhi. Preparo una fiala di Valium e gliela inietto. Va tutto bene: parlo agli occhi sbarrati, alle pupille ferme. L’uomo di paglia avrà cura di noi, padre, quelli là fuori si fidano ancora di lui, è il custode della tua memoria. Massimo era uno dei tuoi agnelli? Se n’è andato, padre, è morto. Hanno ucciso anche Margherita. Non può ascoltarmi, il Valium lo ha fatto suo.

Raccolgo i disegni, li chiudo in una cartella, li affido alla prima vita, nella stanza della memoria. La porta ha la consistenza del muro, dello stesso colore bianco delle pareti, nessuno è mai entrato in quella stanza.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

“Dear Peaches, dear Pie”. La corrispondenza privata tra Carlos e Veronica Kleiber

di Roberto Lana
Ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare Veronica, la sorella di Carlos Kleiber. Nel corso di uno dei nostri incontri, Veronica mi ha consegnato l’intera corrispondenza con il fratello, dal 1948 al 2003

Funghi neri

di Delfina Fortis
Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario

di Anna Toscano
Osservare, ascoltare, guardare la vita degli altri, assistervi, parteciparvi, lottare. Grace Paley, della quale ricorre oggi il giorno della nascita, era una donna fuori luogo, una scrittrice fuori luogo, una che non amava stare dove la mettessero

Dente da latte

di Valeria Zangaro
A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso

“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno

di Francesca Lazzarato
È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista.

Il Dimidiato

di Astronauta Tagliaferri
È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: