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Premessa allo spalancamento. Container, osservatorio intermodale

 

Dia•foria ha recentemente presentato Container, oggetto-rivista e osservatorio intermodale diretto da Daniele Poletti e Luigi Severi:

«Il nome fa riferimento al trasporto intermodale dei prodotti umani di ogni natura, sostanza stessa del nostro mondo: nel container convivono mercanzie di diversa specie, in una somma di cose, tracce e messaggi che costituiscono pensiero e storia in movimento. Il transito e lo scambio di oggetti e parole da sempre determina la realtà attraverso una pluralità di apporti, cioè l’incessante gioco di emissione e ricezione multigenetica e multilingue. Del concetto di “container” dunque non ci interessano l’indistinzione dei materiali, cioè la congerie in sé, quanto piuttosto due fenomeni che da quell’indistinzione possono procedere: il differenziamento di organismi anche molto diversi tra loro, e la loro possibile ibridazione. Da questa particolare specola il nostro obiettivo è puntato sull’effrazione del codice dominante in percorsi divergenti, capaci di slogare i canoni moltiplicandoli attraverso un atto continuo di sperimentazione, intesa questa come attitudine esplorativa che si rinnova continuamente in una gnoseologia complessa.»

Come anteprima sul transito multiforme di contributi presenti all’interno della rivista, pubblico qui un estratto da Luigi SeveriNomadismo e contromemoria della scrittura in epoca di complessità.

Per richiedere una copia cartacea è possibile scrivere a: info@diaforia.org

 

9. Complessità come riconoscimento della molteplicità

L’osservazione della complessità, aprendo alla natura di problema propria di ogni fatto naturale ed umano, apre anche alla sua sostanza, costituita da molteplicità e differenza, cioè da incontro nella distanza. Miscuglio, combinazione, ibridazione sono le regole, aperte per implicita definizione, dell’universo di senso così dischiuso, tra massima disponibilità conoscitiva, e ricerca di alcuni centri di gravità morali, che da tale allenamento all’apertura traggono in fondo la loro prima radice.

È un punto decisivo. L’osservazione acritica del molteplice è per certo una resa passiva all’indifferenziato, di indole (in termini neocapitalisti) postmoderna, e in quanto tale giustifica la riprovazione di molti, come forma di ignavia accettante. Per Žižek, ad esempio, l’atonalità molteplice, vagamente educante a una tolleranza apatica e indifferente, deve essere combattuta attraverso la riaffermazione dell’elemento che salda il mondo «in una totalità stabile». Dire insomma che «quando ci si confronta con un mondo che si presenta come tollerante e pluralista, disseminato, privo di centro, si deve attaccare il principio strutturante e soggiacente che sorregge la sua atonalità, ad esempio il carattere segreto di una sua “tolleranza” che esclude come “intolleranti” alcune questioni critiche», significa combattere l’indistinzione morale sedativa di ogni impulso critico, obbligando il mondo (cioè il potere) a venire allo scoperto, ovvero a «”tonalizzarsi”, ad ammettere apertamente il tono segreto che sta alla base della sua atonalità».

Il che può avvenire precisamente nel momento in cui dall’abbandono al molteplice si passa alla coscienza acuta (persino sofferente) della molteplicità in quanto somma di differenze: sul piano dell’incrocio di linguaggi, con l’accumularsi «a valanga [de]i portati delle scienze “umane” (e delle altre), con acquisizione di fatti e segni verbali alla cui luce forse si [può] più fondatamente tentare qualche cosa di – davvero – nuovo, in un lunghissimo processo che, se è cominciato, è appena cominciato»;43 ma anche sul piano dell’eterogeneità di culture e di presenze, in un meticciamento fecondissimo, che può diventare metodologia di lavoro, come già in molta arte e in molto teatro: ad esempio in Sellars, i cui spettacoli «sono lenti di rifrazione, spazi di contraddizione e di dibattito pluralista che permettono la costruzione di molteplici soggettività […] in società ossessionate dall’individualismo».

In un colpo solo, questo cambio di ottica unisce insieme prospettiva estetica ed etica, de facto civile. Poiché, come per tempo ha spiegato Deleuze, «le differenze di molteplicità, e la differenza nella molteplicità, sostituiscono le opposizioni schematiche e grossolane», sgominando in pratiche eversive quelle visioni tranquillizzanti, unilaterali, che oggi pigramente si riaffermano in Europa (e altrove). È proprio «la nozione di molteplicità che denuncia» al tempo stesso «l’Uno [il principio dell’assoluto, nel cui nome la violenza irrompe nella storia] e il molteplice [la placida in-differenza, la resa piacevole all’atonalità]». La percezione della differenza, nata dall’osservazione del mondo complesso, spinge all’interpretazione permanente dei fatti, naturali ed umani, in quanto metamorfosi ed incontro, e all’esperienza costante di accostamento, sconfinamento, ibridazione. Sperimentare la differenza, in quanto motore di un discorso che moltiplichi le possibilità di confronto, ovvero che moltiplichi sé in altri e attraverso gli altri, è sperimentare «un pensiero che dica sì alla divergenza; un pensiero affermativo il cui strumento è la disgiunzione; un pensiero del molteplice – della molteplicità dispersa e nomade».
Questo perpetuo addestramento alla differenza, fondato sull’esercizio della complessità nel senso di pensosità interpretativa, di ascolto sempre all’opera, di dubbio quasi ossessivo (soprattutto contro la tirannide delle certezze), ha una sua rigorosa tenacia politica. Esattamente in questo senso, la condizione di migrazione, o di nomadismo, è un punto limite di conoscenza attiva, continuamente rimescolata, e capace di trovare la verità (umana e non solo umana) nel proprio stesso procedere verso l’altro. Gli intellettuali critici in quanto soggetti nomadi «hanno dimenticato di dimenticare l’ingiustizia e la povertà simbolica: la loro memoria è viva, controcorrente: mettono in atto una ribellione dei saperi sottomessi». Il lavoro della coscienza della molteplicità è un perpetuo lavoro di ritraduzione: una pratica inattuale di memoria, che «non rimpiange patrie perdute», ma le riattraversa tutte, e da questo trae la propria forza, il proprio mestiere.

La scrittura è dunque da intendere come perpetua vocazione e azione traduttiva e ritraduttiva, in modo crescente col crescere della coscienza del mondo come molteplicità caotica ma inter- relata. In un suo saggio decisivo del 1972 il poeta Henri Meschonnic scriveva che «tradurre un testo è un’attività translinguistica quanto l’attività stessa della scrittura di un testo». Questa affermazione, che sintetizzava più di un decennio di lavoro teorico, poetico e artistico, deve oggi più che mai essere presa alla lettera. Da sempre, ma in modo accelerato e sempre più evidente in epoca di complessità, il lavoro di traduzione e il lavoro di scrittura (d’arte, di linguaggio quale che sia) si intersecano, condividendo lo stesso statuto. In questo modo, il mondo si rivela «una collezione di eterogeneità», ovvero «una sovrapposizione di testi, ognuno leggermente diverso dal precedente: traduzioni di traduzioni di traduzioni», così che «ogni testo è unico e, nel contempo, è la traduzione di un altro testo». Da qui l’estrema delle necessità, che cessa di essere una condizione di partenza, per diventare un’inestinguibile potenzialità di visione e di prassi: lo scrittore diventa «poliglott[a] all’interno di una stessa lingua», capace di trasformare lo scambio e l’intersecazione in discorso.

Questa condizione di poliglottia concettuale da una parte è legata alla natura cognitiva umana, avendo tutti gli individui pensanti in comune lo stato mentale della traduzione (come sosteneva la Kristeva); dall’altra, se portata alle estreme conseguenze permette di «liberare le parole dalla loro natura sedentaria, destabilizzare significati comunemente accettati, decostruire forme tradizionali di coscienza».

Concepire la scrittura (letteraria o artistica) come sistema aperto, dunque, capace di accogliere, per prossimità o per contrasto, materiali e codici di origine diversa, spalanca nel testo uno spazio di incontro delle differenze (o delle similarità impensabili, scaturite dalla trascrizione di differenze), per cui anche il rumorio saturante della complessità spicciola mediata dal web può diventare discorso altro, discorso di altro. Sopra tutto dunque nell’epoca, pericolosa se azzerata di senso, dell’essere-tra (secondo la definizione di Floridi), portato sociale della tecnologia comunicativa, questo continuo attraversamento di confini è, per tramite di una scrittura-traduzione del mondo, premessa e carburante allo spalancamento di uno «spazio liminale (in-between)» come «luogo del mutuo animarsi in un campo di forze di approssimazioni e inflessioni».

da Luigi Severi, Nomadismo e contromemoria della scrittura in epoca di complessità

 

Fabio Alessandro Fusco, La città peninsulare, 2011

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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