Le macchie indelebili di Philip Roth

di Stefano Marino

1998, esplode il sexgate: una delle pagine più pruriginose della storia della politica Occidentale.

2000, esce La Macchia Umana, di Philip Roth. Ultimo romanzo di quella parte di produzione dello scrittore statunitense che prenderà il nome di Trilogia Americana.

2019, Camille Paglia, intellettuale, sociologa, lesbica, femminista, diventa oggetto di una petizione sottoscritta da alcuni studenti con l’intento di allontanarla dal ruolo di professoressa all’University of the Arts di Philadelphia, a causa di alcune dichiarazioni della stessa sul MeToo e sui transgender. La petizione chiede che la Paglia “venga sostituita da una persona queer di colore”. Il Preside della facoltà decide di non accogliere le richieste avanzate dagli studenti che hanno firmato la mozione.

Senza entrare nel merito delle opinioni espresse da Camille Paglia, la vicenda in cui è incappata consente di riflettere sulla contemporaneità che pochi e selezionatissimi capolavori della letteratura sanno esprimere in qualsiasi momento storico.

La Macchia Umana è un romanzo che si muove nell’ipocrisia, trasuda ipocrisia, non risparmia nessuno, risaltando le contraddizioni di ogni classe sociale. Fin dal principio, mette in luce tutto il perbenismo di cui era impregnato il sexgate. Il libro inizia nell’estate del 1998, “l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo (…) subentrò (…) il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata (…) ravvivarono la più antica passione collettiva americana (…): l’estasi dell’ipocrisa”. L’America era ghiotta di notizie su Clinton e la Lewinsky, e l’appetito di una nazione sembrava impossibile da saziare, così come la sua voglia di puntare il dito verso dinamiche che sembravano assolutamente estranee alla quotidianità di ogni cittadino: l’adulterio era diventato un qualcosa di alieno alla vita del popolo, le narrazioni di quel periodo lo collegavano a filo diretto con l’elite. In queste prime righe è già addensato ciò che La Macchia Umana sarà per 395 pagine e sono ben evidenti quali siano i nervi che Roth saprà colpire con maniacale precisione e durezza per tutto lo svolgersi narrativo: il sesso, la dabbenaggine, l’ipocrisia, il conformismo, i segreti, le accuse. E la cultura. La cultura che non nobilita, non rende liberi da nessun istinto volgare e basso nel giudicare i propri simili. “Tanta istruzione e non serve a nulla. Nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero”.

Coleman Silk, il protagonista del romanzo, è un accademico progressista, preside di facoltà e professore di letteratura. Dopo poche lezioni dall’inizio del semestre, durante un appello, definisce “spooks” – spettri – due studenti che erano sempre stati assenti nelle sue ore. “Spook”, però, in anni ben più bui di quelli che stava vivendo Silk, veniva anche usato come epiteto razzista nei confronti della comunità afroamericana. Quando emerge che i lassisti studenti sono in realtà di colore, lo scandalo esplode in tutta la sua vastità, lasciando dapprima Silk avvilito e inerme per l’ingiustizia subita, per poi in seguito prorompere in un moto di rivalsa e rabbia che si impadronirà del suo essere, fino a spingerlo a combattere una guerra personale contro tutto e tutti. Una guerra per cui Coleman Silk chiede l’aiuto della personalità locale, lo scrittore Nathan Zuckerman – alter ego di Roth –, una guerra che probabilmente si sarebbe potuta concludere in brevissimo tempo e scagionando l’incolpevole professore se solo non fosse stato lui stesso vittima di inenarrabili ipocrisie e segreti. Perché ne La Macchia Umana tutti sono vittime, ma nessuno è innocente.

Da qui si sviluppa il romanzo, con un turbine di personaggi memorabili e situazioni che sanno costantemente puntare il dito su un’attualità che vent’anni dopo stiamo vivendo. Con un senso di tremendo déjà-vu, si leggono le righe in cui Les Farley – un personaggio sconfitto, violento e con un disturbo da stress post traumatico a causa della guerra in Vietnam – accusa i “professoroni” e gli immigrati di avergli tolto un futuro che pretendeva gli spettasse per diritto di nascita. E ancora Coleman, con i dilemmi su ciò che si può dire e ciò che è meglio tenere per sé: un esercito di suoi colleghi, sicuri che nell’anziano professore non vi fosse il minimo afflato di razzismo, gli faranno capire, senza troppi giri di parole, la non convenienza nello schierarsi dalla sua parte; perché in una università non si può difendere una persona accusata di un crimine così grave, anche se innocente. Ci sono prima le apparenze da mantenere. E poi Delphine Roux, la giovane professoressa francese emigrata negli Stati Uniti e colma di un sentimento di rivalsa intellettuale talmente bruciante da renderla un’antagonista al pari del già citato Farley. Delphine che per invidia e vendetta non esiterà a scagliarsi contro Silk, dopo lo scandalo, nel tentativo di rincarare la dose nei confronti di un uomo che non la trattava con la deferenza che lei riteneva di meritare. Delphine Roux, tratteggiata magistralmente, e vittima di un’esistenza vissuta col freno a mano tirato per rispondere alle aspettative e salvaguardare le apparenza. Delphine Roux, convinta di essere un’intellettuale anticonformista, meritevole del meglio – sia in amore, sia lavorativamente – e che proprio per questo suo modo libero di pensare, crede di essere ostracizzata dall’ambiente accademico americano. Invece, nella vita di Delphine, di libero non v’è nulla. Solo l’apparenza ha importanza. Apparenza che non mancherà di mietere le sue vittime anche in ambito sentimentale, perché sullo sfondo di tutte queste ipocrisie e ingiustizie, i pochi lampi di pace Coleman li troverà tra le braccia di Faunia Farley, ex moglie di Les, e di quasi quarant’anni più giovane.

Sono due sconfitti, Silk e Faunia, per motivi diversi. Due sconfitti pronti a spalleggiarsi e a ritrovare una spinta vitale che sgorga da una relazione tenera e voluttuosa, non peraltro “voluptas” sarà il soprannome che il colto Coleman affibbierà alla giovane amante analfabeta.

Il loro amore produrrà nuova legna da ardere in onore del fuoco dell’apparenza: il professore razzista, non pago, sfrutta pure una povera e derelitta analfabeta, ex moglie di un violento, e che ha già dovuto subire la morte dei due figli; Coleman Silk diventa a tutti gli effetti il mostro che una comunità progressista si sente in dovere di combattere. A uno sviluppo del genere, non esiste altra soluzione che rinunciare al ruolo socialmente assegnato, per rivendicare la propria scelta personale. È questa la riflessione che fa Silk per ritrovare un po’ di pace e riassaporare la libertà che una parola travisata gli ha fatto perdere in un istante. Diventare altro; ciò che loro non si aspettano da un tipico settantenne in pensione e con un percorso accademico di tutto rispetto alle spalle: tornare libero. Che non vuol dire darsi alla dissolutezza e esprimere concetti che vadano contro ogni logica e etica. No, vuol dire semplicemente reclamare il proprio spazio intellettuale e sentimentale: un diritto che dovrebbe essere garantito a ogni essere umano.

In un certo senso, è la parola la vera protagonista del romanzo. “(…) ho detto spooks perché volevo dire “spettri”. Mio padre aveva un bar, ma insisteva perché il mio linguaggio fosse preciso, e io non l’ho tradito”, questo dice Coleman, quando, incredulo, deve difendersi dall’infamante accusa che lo colpisce dal nulla. Coleman Silk crede nel potere della parola e nella precisione del suo uso. Come tale, riconosce pure una stratificazione delle parole con le diverse accezioni che ogni persona dovrebbe quanto meno maneggiare. Coleman Silk non si capacita della semplificazione subita dal suo linguaggio, attuata senza remore dalle persone attorno a lui. Una semplificazione che al giorno d’oggi è radicata nella nostra quotidianità: dai messaggi “semplici” berciati tramite social da politici e utenti, per attecchire come un morbo, fino al livellamento verso il basso di alcune discussioni nate da indignazioni fini a sé stesse e schiave di una perbenismo che miete vittime, oltre che intelletti. Il linguaggio ha perso potenza e autorevolezza: “quando sarebbe cessata la dabbenaggine?” si chiede Coleman. Già, quando.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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