Franco Cordelli, il critico militante come recensore
[Pubblico in una versione più estesa, un articolo apparso su “Alias” del 3/11/2019, con il titolo “Atletica della lettura, cioè ripensamento”]
di Andrea Inglese
Quando nel 1997 esce La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo scrittore, Franco Cordelli ha già alle spalle Partenze eroiche del 1980, altro libro di genere saggistico, che avrebbe però, a detta del suo stesso autore, il limite di essere una mera collezione di interventi critici, ognuno concluso in sé e autosufficiente. La democrazia magica, invece, pur raccogliendo di nuovo articoli e saggi scritti durante gli anni, è animato dall’ambizione di organizzare il molteplice secondo una prospettiva unitaria. Cordelli sostiene ora di tenere assieme il suo materiale con maggiore maturità e compattezza strategica. A ciò si aggiunga la convinzione, ben sottolineata nella prefazione, secondo cui egli si sarebbe liberato “dall’ossessione del romanzo”. In lui, d’altra parte, il critico non può mai essere del tutto disgiunto dal romanziere. Il tormentato rapporto con il genere romanzesco, infatti, è qualcosa che attraversa la sua duplice attività, di critico militante, e di autore di libri editorialmente assimilati al genere “romanzo”, ma che romanzi non sono del tutto o non vogliono essere. Insomma, Cordelli si dirige verso il nuovo millennio, consapevole di aver limitato il rischio di dissipazione e erraticità della sua prosa saggistica, e di essersi lasciato alle spalle l’ingiunzione superegoica, propria del modernismo letterario, di praticare il romanzo come forma privilegiata di conoscenza. Dopo cinque anni appena, però, per Le Lettere escono simultaneamente due corpose raccolte d’interventi, La religione del romanzo, a cura di Enzo Di Mauro, e Lontano dal romanzo, a cura di Massimo Raffaeli. Stando alla forma e ai titoli di questi libri del 2002, le buone intenzioni del Cordelli di La democrazia magica sembrano essere già abbandonate.
Oggi Theoria pubblica la sua quinta e sesta raccolta di “scritti letterari”, Un mondo antico, con postfazione e cura di Domenico Pinto, e Il mondo scintillante, curato da Enzo Sallustro e chiuso da uno scritto dello stesso autore. Ebbene? Lo scrittore che adesso è Cordelli ha sconfitto alla fine i suoi demoni, ridimensionando il suo interesse per il romanzo, dato per morto negli anni Settanta e risorto come nuovo circa un decennio dopo? Ha eluso i rischi di dissipazione, che la sua vocazione di critico militante assoldato dal giornalismo culturale paventava? Dei 113 interventi di Un mondo antico e dei 124 del Mondo scintillante, la maggior parte sono articoli usciti per “Il Corriere della Sera” e per il suo supplemento culturale “La Lettura”. E quasi tutti sono stati dedicati alla recensione di romanzi, che fossero prime edizioni o nuove edizioni di opere già apparse. D’altra parte, se il romanzo come genere campeggia ancora al centro del suo lavoro critico, Cordelli non l’ha mai neppure ripudiato seriamente come autore. È solo del 2016 Una sostanza sottile, romanzo stregante per intelligenza, ritmo compositivo, e rovello saggistico, dentro una lingua cristallina e impeccabile.
In realtà, negli attuali volumi sono proprio sia la quantità sia la brevità dei pezzi a fare la differenza. Sono questi aspetti che definiscono il profilo di “militanza critica” che più si addice a Cordelli. Dobbiamo, però, sancire il pieno fallimento del suo programma di fine secolo: nessuna democrazia dei generi e nessuna architettura saggistica ad ampie campate. Un mondo antico e Il mondo scintillante non sono altro, per lo più, che raccolte di recensioni dell’unico genere letterario, il romanzo, che l’editoria, il pubblico, la cultura dominante reputano universale. In questa apparente fragilità di risultati, o addirittura rinuncia, bisogna cogliere il punto di forza, e il carattere eccezionale, dell’opera critica di Cordelli.
Innanzitutto, abbiamo il caso di uno scrittore dalla duplice vocazione, romanzesca e critico-saggistica, alle prese con tutte le contraintes, i vincoli, del giornalismo culturale, e sappiamo quanto un tale rapporto sia difficile: l’arte del saggio o del romanzo e il mestiere giornalistico viaggiano non solo su binari diversi, ma spesso anche in direzione opposta. Nel Novecento, tra letteratura e giornalismo, non si dà solo una relazione più o meno intensa e opportunistica, ma anche l’occasione di manifestare aperta inimicizia. La parola sull’attualità che il giornalista tesse di giorno, il romanziere disfa di notte nelle sue esplorazioni intorno al reale. Ma vi sono stati casi esemplari, in cui la potenza dello scrittore ha stabilito, a differenza di quanto generalmente accade, un compromesso al rialzo nei confronti dei limiti imposti dalla comunicazione giornalistica. Penso, ad esempio, alla collaborazione settimanale di George Orwell per Tribune con la rubrica Come mi pare (As I please) durante gli anni cruciali che vanno dal 1943 al 1947. In piena guerra mondiale, con la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica che sostengono ancora da sole, e in un’alleanza forzata, l’impegno bellico maggiore contro il nemico nazista, Orwell prende di striscio l’attualità, commenta piccoli episodi quotidiani, si occupa dell’uso della lingua, ecc. L’esercizio giornalistico in Orwell era motivato da una finalità politica, quello di Cordelli, in tutt’altro contesto storico, lo è da una finalità letteraria, ma con ricadute inevitabili anche sul piano etico e politico. Quello che rende a miei occhi pertinente il paragone, pur nei contesti storici così diversi, è lo scontro tra intelligenza e caso, tra la monotonia di certe ossessioni e la varietà dei materiali e dei fatti su cui esse si esercitano, tra l’antidogmatismo dell’autore e le certezze del lettore, e tutto questo scandito dalla routine professionale (una certa quantità di battute in cambio di una certa somma di denaro). Cordelli, insomma, ha realizzato in questi anni una delle più efficaci e lucide forme di critica militante in quanto recensore, e lo ha fatto strappando il genere della recensione non solo al destino di genere minore, ma anche di genere irrilevante, in quanto forma di giudizio sempre più parassitata da esigenze di marketing editoriale.
Per che cosa, allora, milita il critico Franco Cordelli? Sul fronte del giornalismo culturale, egli combatte contro la pigrizia dell’intelletto e le letture distratte. Lo scriveva già in un pezzo di Lontano dal romanzo dedicato a Flaiano, “il male del giornalismo” è quello “di pensare per eredità ricevute, per frasi fatte, per convenzioni”. Il critico militante, quindi, in veste di giornalista, nuota costantemente controcorrente, intralcia la pacifica circolazione degli stereotipi culturali. Ma non è questo l’unico fronte lungo cui si definisce e distingue la sua pratica. Sul fronte del saggismo accademico, egli combatte gli eccessi dell’intelletto, la sua hỳbris, che per amore di sistema, di pulizia, di completezza, o di solidità dottrinaria, tende a canonizzare, da un lato, a dovuta distanza dalle opere, o a prodursi in cartografie ortogonali del contemporaneo. Come ha sottolineato Domenico Pinto, nella sua postfazione a Un mondo antico, Cordelli “sfugge alla dittatura della formula, per non dire della dimostrazione, sviluppando invece una misura di non finito e ripensamento che sono lo stigma, il ritmo della sua prosa, fatta di continui rovesciamenti di idea, fino all’abbandono e alla smentita.” Di questo, l’autore stesso è ben cosciente, perché già nelle pagine di Democrazia magica considera la propria scrittura saggistica priva “di qualsivoglia linearità. Procede a strappi, in modo sussultorio, in una parola: in modo emotivo. Pure, si tratta di discorso.”
Vi è qui qualcosa di unico nel panorama italiano, uno stile critico che coniuga, da un lato, uno sguardo panoramico su di un paesaggio intimamente conosciuto e definito da una quantità di punti di riferimento indiscutibili, e, dall’altro, un sentimento che è attraversato da continui trasalimenti e inquietudini, poiché il moto storico, aperto e caotico, e l’incompiutezza della vita del critico, costantemente minano ogni immagine fissa che ci siamo fatti dell’opera, o dei valori che essa dovrebbe incarnare. Questa oscillazione tra prontezza del giudizio, e sua repentina fragilità, tra impressionante ampiezza di letture, e rinnovata ignoranza, non solo rende il gesto critico di Cordelli quasi abnorme rispetto a quello giornalistico, inteso soprattutto a motivare i lettori – non a destabilizzarli con dubbi e ripensamenti –, ma anche rispetto a quello accademico, che deve esibire un sapere più platonico che socratico, ossia definitivo e ben strutturato. Ciò costituisce il suo punto di forza che è innanzitutto anti-ideologico, nel significato marxiano di contrasto e critica nei confronti del discorso dominante, e nel significato che poeti come Williams Carlos Williams o Francis Ponge potrebbero dare a un tale termine, di priorità nei confronti delle cose e della loro diretta esperienza rispetto allo scintillio disincarnato dell’idea. Questo secondo aspetto è particolarmente importante in sede di critica, in quanto rende immune la scrittura di Cordelli non solo da mode e gerghi intellettuali di matrice universitaria, ma più in generale da ogni catechismo, fosse pure quello dello studioso variamente progressista, che finisce per affrontare la complessità dell’opera letteraria con il goniometro etico-politico.
L’universo del romanzo, che sia quello dell’epoca eroica (il mondo già “antico” del Novecento), o quello attuale (“scintillante” e novissimo nelle pretese), non appare mai in Cordelli nella bidimensionalità della mappa urbanistica o catastale, ma come una selva a molteplici dimensioni, dove ogni opera emerge nell’intreccio di influenze con altre opere e stratificata da letture precedenti, in modo tale che non si legge mai un libro se non attraverso altri libri, e non lo si critica se non rispondendo ad altre critiche. Recensire Bussola del francese Mathias Enard comporta, allora, rettificare, smontandola come “risentita”, la stroncatura di Nicola Gardini al medesimo romanzo, trovare adeguate parentele (Lawrence Durrell), contrappore due estetiche del romanzo (Beckett contro Lukács), rileggere opere precedenti dell’autore francese (Zona) alla luce di apprezzamenti formulati da un altro autore italiano (Giuseppe Genna). A volte, però, è il Cordelli attuale che se la prende con il se stesso passato, criticando freddezze e diffidenze, grazie al mutato contesto di lettura.
A chi, a questo punto, chiedesse delle istruzioni per l’uso allo scopo di affrontare “serenamente” tale profusione di titoli, nomi, percorsi, rimbalzi, risponderei con le parole che Giuseppe Montesano ha premesso alle milleottocento pagine del suo volume Lettori selvaggi, uscito per Giunti nel 2016: “È un libro che si usa come si vuole, e come si può. Si comincia dal primo rigo o dal decimo, a metà di una pagina o a partire da un nome, per curiosità o a caso, si legge una pagina o cinque, si apre, si chiude, si riapre: secondo l’umore, secondo il piacere.” (A quest’opera di Montesano, ne assocerei un’altra che, per voracità conoscitiva, mi ha fatto pensare a Un mondo antico e Il mondo scintillante di Cordelli. Mi riferisco a Un dialogo infinito di Massimo Rizzante, uscito nel 2015 per Effigie.) In conclusione, questi due volumi vanno considerati come una magnifica palestra in cui ogni scrittore, romanziere o saggista, possa confrontarsi con l’atletica della lettura e del giudizio di Cordelli, imparando ad eseguire con lui (o magari contro di lui) i più spregiudicati esercizi. Ciò vale ancora di più per il semplice lettore, che sarà invitato a un andirivieni costante tra l’intrico dei testi e lo spessore dell’esistenza senza che mai gli sia concesso l’alibi della medietà o, all’opposto, quello dell’erudizione sazia di sé.