Non solo launeddas
Quella sporca dozzina (+1)
ovvero un prezioso cofanetto di dischi sardi da consegnare agli alieni prima della capitolazione
di
Claudio Loi
1. MARCELLO MELIS. The New Village On The Left… (1977 Black Saint)
Ci sono arrivato un po’ tardi a scoprire questo album di Marcello Melis uscito nel lontano 1977. È stato quando mi sono messo a studiare seriamente la storia della musica in Sardegna e scoprire che si trattava di un lavoro importante. Per la prima volta venivano messi sullo stesso piano linguaggi tanto diversi da sembrare una forzatura da hipster retrofuturisti. Il Coro Rubanu di Orgosolo (in realtà piuttosto restio nella fase iniziale) seduto allo stesso tavolo di personaggi così avant come Roswell Rudd, Famoudou Don Moye e un giovane Enrico Rava. E chiaramente il contrabbasso e la sensibilità protosarda di Marcello Melis che, nel suo eremo di Manhattan, riesce a far quadrare la faccenda. Dal nuovo mondo inizia un nuovo mondo, fatto di incontri, scontri, momenti esaltanti e qualche delusione. La storia dell’etnojazz inizia così e diventerà una delle storie più belle da raccontare. Una storia che non è ancora finita.
2. PIERO MARRAS. Fuori Campo (1977 EMI)
In pieno boom cantautoriale sembrava quasi impossibile scalfire la cortina di ferro dei big italiani e invece Piero Marras ci dimostro che era possibile. Fuori Campo è un gran bel disco, pieno di belle canzoni, di quelle che ancora oggi si possono fischiettare con soave piacere. Tra cinquecento prenuragiche e richiami alla sarditudine meno scontata rimane un’opera che ha segnato il nostro destino di ascoltatori consapevoli e ci fatto conoscere le infinite sfumature della sua musica. Poi Marras è cambiato e anche noi ed è giusto così.
3. CADMO. Boomerang (1977 Vedette)
Antonello Salis, Riccardo Lay e Mario Paliano erano belli da vedere e da sentire: pieni di vita, di voglia di suonare, di abbattere schemi e barriere. Una miscela esplosiva di free jazz, rock, prog e anche qualche sfumatura di Sardegna a cui era difficile restare indifferenti. Hanno lasciato poche tracce discografiche per questo molto preziose: sono la fotografia di un mondo che non esiste più.
4. PAOLO FRESU QUINTET. Ostinato (1985 Splasc(h))
Eccolo Fresu al suo disco d’esordio alla guida di un quintetto che non conosce le dinamiche del tempo e la normale decadenza degli esseri umani. Era già tutto qui: i suoi riferimenti storici, la tecnica indiscutibile, la capacità di assemblare suoni e persone. Nonostante la giovane età Fresu riesce a concepire un disco maturo che regge bene all’ascolto anche dopo diversi decenni. Col tempo Fresu è maturato, ha ampliato la sua platea di partecipazioni, organizza, sposta masse e lo fa sempre con disinvoltura e nonchalance. E nel 1985 già si intuiva che non era qualcosa di effimero.
5. JOE PERRINO AND THE MELLOWTONES. Rane’n’Roll (1988 IRA)
Quando uscì questo disco Joe Perrino era al culmine della sua popolarità: concerti a raffica, interviste, articoli sulla stampa specializzata, passaggi televisivi. Il disco esce per la label fiorentina IRA una delle più attive etichette del periodo che aveva come filosofia quella di promuovere il rock italiano cantato in italiano. C’era anche lo zampino del giovane Gianni Maroccolo e una produzione di tutto rispetto che lo proiettava oltre cortina. Il disco ottenne ottime recensioni e la band ebbe l’opportunità di esibirsi anche oltremare. Quanto basta per consacrare Joe Perrino come il miglior rocker che la Sardegna abbia generato. Ed è ancora qui a regalarci la sua energia fatta di muscoli e tanta passione.
6. KENZE NEKE. Naralu! De Uve Sese (1992 KN Gridalo Forte)
Venivano da Siniscola e loro punto di riferimento erano i Clash e tutte quelle band post punk che vedevano il rock come veicolo di trasmissione di ideologie e di rivendicazioni popolari. E la Sardegna era uno scenario perfetto per questo tipo di proposte: temi come imperialismo, sfruttamento, isolamento hanno sempre fatto parte del loro messaggio musicale. E soprattutto la rivendicazione di una lingua, di una cultura, di un modo di esistere e di resistere. Per tanti anni hanno agitato la bandiera della ribellione e dell’anarchismo con grande seguito popolare. Poi il tempo passa e le cose mutano. Kenze Neke esplode in una miriade di esperienze collaterali ma l’idea di fondo rimane sempre quella e l’isola è ancora terra di conquista.
7. DORIAN GRAY. Matamoros (1995 Interbeat)
Dagli anni Novanta ai giorni nostri i Dorian Gray (ovvero Davide Catinari) senza soluzione di continuità e una proposta artistica in continua evoluzione. Dalle chitarre piene di elettricità dei primi album a un suono più intimo e rarefatto e un garbato utilizzo dell’elettronica. Qualche aggiustamento nell’organico e il ricorso a collaborazioni extra musicali (letteratura, poesia, arti visive, fumetto) dimostrano un approccio misurato e intelligente fuori dal comune e soprattutto fuori dai soliti cliché con cui viene identificato il rock. Matamoros è un lavoro di grande intensità che contiene tutte le ossessioni di Davide Catinari: il sudamerica alterato e psichedelico, gli States della beat generation, funghi, cibi lisergici e muraglie cinesi, lo spleen della poesia fin de siècle. Uomini e topi sempre alla ricerca di un mondo migliore (non necessariamente terreno).
8. SIKITIKIS. Fuga dal deserto del Tiki (2004 Casasonica)
Sono stati il gruppo di riferimento degli anni Zero anche grazie a questo disco (e alla produzione di Max Casacci dei Subsonica): un esordio fulminante che è arrivato nel momento giusto e nel posto giusto. Hanno sdoganato situazioni che anni di manicheismo culturale aveva tenuto ai margini: le colonne sonore dei B-movies italiani, il soft porno, i poliziotteschi, west an soda and spaghetti, la musica leggera e quella popolare. Un lavoro di decostruzione postmodernista che ha funzionato (anche senza chitarre in origine) e che ancora stupisce. Piace la loro attitudine a sparigliare i giochi, a navigare nel sottile confine tra kitsch e cultura alta e a considerare il mondo un gran caos. Poi si sono divisi e sono rimasti i Siki con un pop raffinato e solido. Ma anche ottimi progetti collaterali come i cinematici Dancefloor Stompers.
9. IOSONOUNCANE. Die (2015 Trovarobato)
È nata una stella? È ancora presto per dirlo e due ottimi album non ci permettono di sbilanciarci più di tanto (ma non ho grandi dubbi in proposito). Ma Die rimane uno dei più interessanti dischi prodotti in Italia in questi anni e Jacopo Incani un punto di riferimento da cui ci aspettiamo grandi cose. Die contiene tanta roba: una vocazione cantautoriale di impostazione classica infettata da un’elettronica spinta e ultramoderna, una voce fuori dal mondo e persino inaspettati richiami alla tradizione ancestrale sarda. Un’operazione multistrato che rilascia ad ogni ascolto qualcosa di nuovo. Tutto giocato su più sensi (come il titolo d’altronde che può essere letto sia in inglese che in sardo) con la consapevolezza che niente è come sembra, che le cose e le idee non sono blocchi intoccabili. Musica da fine del mondo per un mondo destinato a finire (e forse a ricominciare).
10. THE RIPPERS. A Gut Feeling (2017 Slovenly)
Un dovuto omaggio alla più grande rock band che l’isola abbia conosciuto ma anche un omaggio a tutta la scena garage/psychobilly/surf/punk e cazzi vari che vanta una storia gloriosa (ancora in essere per la verità). I Rippers vantano un culto che travalica i confini dell’isola nonostante non abbiano mai fatto più di tanto per farsi conoscere. Ma bastava assistere a un loro set per capire la forza di questa band: un suono compatto e feroce, veloce e asfissiante e la voce del cantante che sembrava provenire da un altro mondo. Nessun compromesso, nessuna tentazione commerciale. Solo rock sparato alla massima potenza. Adesso sono in pausa ma aspetto fiducioso un loro ritorno, sono sicuro che saranno ancora in grado di spaventarmi.
11. DREAM WEAPON RITUAL. The Uncanny Little Sparrow (2018)
Avere Simon Balestrazzi in Sardegna è un dono del cielo. La sua enorme esperienza e sensibilità diventa patrimonio isolano e la scena elettronica/sperimentale/industrial/ ambient ne trae sicuro beneficio. Tra i tanti progetti portati avanti in questi anni questo è uno dei più mirabili e fruibili grazie all’apporto di Monica Serra che in qualche modo rende più umano il frastuono apocalittico di Balestrazzi. Richiami al passato, alla natura, a territori extraesistenziali per una pietanza che non ha eguali. Un vinile prezioso, raro, emozionante e fuori dal tempo.
12. SAFFRONKEIRA. Automatism (2019 Denovali)
Sempre in tema di elettronica una delle migliori sorprese di questi anni è l’apparizione sulla scena di Saffronkeira (aka Eugenio Caria di Castelsardo). Se ne sono accorti anche i tipi della Denovali prestigiosa label tedesca che lo ha inserito nel suo roster. Dopo alcune prestigiose collaborazioni (Maria Massa, Enzo Favata, Paolo Angeli e altri) questo disco ci presenta il lato più colto di Saffronkeira con richiami alla storia della musica elettronica (alcuni suoni sembrano provenire dalla sedute di registrazione dei primi Tangerine Dream) e lo sguardo sempre rivolto altrove. Un fluire sonoro ricco di suggestioni neoromantiche, distopie cerebrali, convulsioni ritmiche e altre invenzioni sorprendenti.
13. PAOLO ANGELI. 22.22 Free Radiohead (2019 ReR)
Paolo Angeli che mette mano al corpus sonoro dei Radiohead è una bella notizia che non sorprende più di tanto vista la grande apertura mentale del personaggio. Operazione rischiosa quanto stimolante che ci permette di avere a disposizione tutte le vie di fuga da lui intraprese in questi anni: una chitarra modificata e in continua evoluzione, la passione alla sperimentazione, il richiamo alla cultura isolana, la necessità vitale di non ripetersi, di non vivere di rendita. Su tutto il profumo estatico della potenza creativa dei Radiohead che si adatta in modo perfetto alla cosmogonia sonora del ragazzo con la maglia a righe.
I commenti a questo post sono chiusi
Bellissimo, Francesco!! Quella mia seconda terra, i suoi suoni (ché la Sardegna è una terra di suono)