Kurdistan
di Daniele Ventre
A tempo dato aprivano origini.
Sul tetto a raso i nibbi planavano.
Ci si attendeva. Un tempo d’ira
batte alla porta con pugni fermi.
Restava il piede in basso. Confermano
lo stallo al segno –al limite minimo.
Le voci rauche al buio dànno
segno di corpi venduti a peso.
Volava il totem oltre il confliggere
di rupi dallo stretto. Tessevano
le donne parche tele a tema
per le vendemmie del sangue calmo.
Cedevano agli impulsi dal margine
dei lembi neri. In fede firmavano
verbali di autopsie gli addetti
a registrare la morte in rosa.
Ripensano alle tracce anatomiche
di radiazioni e sciabole –accludono
referti medici sui segni
dello zodiaco alla carne impressi.
Raccolgono altre prove. Le insabbiano
le seppelliscono oltre la formula
di rito. Resta il corpo in serie:
i bagagliai carrozzati in rosso:
le committenze mediche. Ai margini
la piaga delle figlie a disperdersi
nel retroscena. Nel complotto
scelgono formule controsenso.
Riguardano altri casi. Riscaldano
minestre vecchie. In trame ritessono
cartelle mediche –ragioni
senza processo –ne resta solo
il corpo in serie. A volte combattono
sul fronte d’odio. Restano vittime
sorprese in mezzo al branco –il gioco
dei sacerdoti è lo stupro al cielo
aperto. Altrove eroi ritiravano
salario e truppe. Indietro cedevano
al fondo d’universo. Lingua
manca a descrivere il passo inverso.