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Storia del compagno Rick Gin

di Andrea Migliorini

1. All’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica si generano gerarchie: è legge di natura, di pseudo-natura. Il Capitale studentesco non è inteso come valore del lavoro, dello studio o della fatica: corrisponde bensì all’immagine che ogni studente costruisce di sé, tramite l’ausilio di doti innate che la comunità gli riconosce unanime. E le relazioni che si generano nelle trame di questo tessuto iconodulo determinano l’ascensione di una nuova élite, oltre che la conseguente frattura fra padroni e non padroni: l’egemonia dei pochi è garantita dallo Spettacolo non soltanto quando si discute delle astratte macro-dinamiche del metodo di produzione occidentale, ma anche — e soprattutto — all’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica, ovvero del sistema-terzaC.

2. In terza C — seconda porta del primo corridoio, Son Row School, Vike City — le forze storiche della dialettica assumono le sembianze d’una società matriarcale e vulvocentrica: dalla cui piramide sociale — non priva d’una propria particolarità raffigurativa — emergono le profetesse della Nuova Era: a sinistra mordicchia la matita certa Lisa More, futura attivista social wwf, ad oggi ancora teorica vegetariana non praticante; a destra si volta — e sorride non senza malizia — certa Linda Blunt, occhiali tondi e profilo bloccato per ragioni di sicurezza. Il potere, in terza C, è una diarchia bivaginale.

3. La coscienza di quest’infinito potere d’acquisto — tanto astratto quanto empirico — si palesa nella descrizione che le due paladine del sistema-terzaC giudicano quale opportuna sintesi delle proprie ambizioni esistenziali: ovvero le didascalie da esporre sulle vetrine dei mezzi di comunicazione di massa. Luogo di nascita: marchio d’un infanzia dura. Anno di nascita: giorno e mese sono opzionali, si venera il demone della Privacy nel politeismo digitale. Luogo di residenza, espresso con patriottico tradizionalismo, specie se coincide con quello di nascita. Passioni tecniche e sportive: giustificano l’esposizione muscolare nell’atto del cosiddetto uork-aut. Qualità scolastiche: giustificano le lamentele continue sui duri tempi della vita. Risorse fotografiche a disposizione: “Reflex”. Eventuale esperienza lavorativa: ben venga se questa sezione tradisce una qualunque esterofilia. Citazioni d’autore: le statistiche indicano come più quotato uno tra Murakami e Bukowski. Infine, la corrente filosofica d’adesione: generalmente il buddhismo zen.

4. La capacità di vivere negli egosistemi digitali si situa a metà fra l’ars e l’ingenium: una qualità innata e orizzontale, che necessita affinamento ed esperienza; un fiuto politico per il successo che deve essere coniugato allo sviluppo d’un moderato cinismo; il sorgere d’un individualismo proto-populista che nemmeno Darwin avrebbe considerato come fattore discriminante per la sopravvivenza della specie — e che d’altro canto si rivela necessaria per la preservazione dell’Io: chi non si vede, non esiste. Lisa e Linda eccellono in questa pratica sociale, che nel gergo accademico è definita con l’anglofona curva sonora di socialmedia-managing, nuovo ramo etimologico dell’antica radice del social-ismo. Eppure la diarchia istituzionale presuppone un confronto costante e serrato fra le due matrone di Governo, la cui indipendenza è relativa: bisogna creare due poli comunicanti, onnipresenti nella dialettica delle comunicazioni sincroniche. Per questa ragione, la costituzione dei profili sociali di Linda Blunt e Lisa More è speculare, l’una pensata in relazione alla fisionomia html della compagna; e quest’architettura a distanza non lascia spazio ad aperture nel vuoto apparente che le separa: nessuno spiffero, nessuna ipotesi così come nessuna certezza; soltanto una corrente continua di dati, senza sosta. La relazione umanoinformatica è ermetica, d’una dialettica figlia più delle binarie dicotomie kierkegaardiane che del triadico pensiero hegeliano, il quale comunque non si astiene dall’influenzarne indirettamente il paradigma. Nella realtà del sistema-terzaC non vi è sintesi, e alla tesi non s’oppone un’antitesi: la vittoria è della negazione che nega se stessa, non senza un briciolo alquanto sfavillante di burbero esistenzialismo camusiano. E’ questa l’affermazione: Lisa More e Linda Blunt restano — seppur simili, se non identiche — entità separate e distinte, nonché complementari: basti uno sguardo rapido ai volti espressivo-semiotici prescelti come manifesti dell’impianto messaggistico delle Vuote Zappe. Del resto, ubi scripta volant, l’epigrafe comune ai due profili è ugualmente rivelatrice: “io sarò per te condanna, L.”, affianco l’eros-kai-thanatos di due labbra disegnate, colorate di rossetto.

5. Ogni società rielabora le medesime ingiustizie, variandone tuttavia le forme, i significanti. A seconda della prospettiva, ogni individuo può essere considerato sia oppresso che oppressore. Tuttavia, è innegabile l’esistenza d’una sorta di classifica primigenia di qualità inalienabili, la quale si condensa in doveri e divieti e diritti. Per quanto concerne questi fattori primi, la struttura della classe scolastica si può tradurre nella forma di un triangolo isoscele — la suddetta piramide non priva di particolarità — che non si esibisce d’altronde come una consueta piramide socio-economica: la descrizione alto-bassa delle classi non termina alla base ampia e larga del disegno. Si produce, invece, una deviazione opposta e contraria al di sotto della comune piramide. Una spinta newtoniana scava le falde del terreno per dare un posto ai dannati, rendendoli sommersi: un disegno di studi cosmologici danteschi, senza amore e senza stelle. La parte inferiore della nuova figura appare come un riflesso pittorico nei campi francesi di Renoir: non meglio definito, non meno rappresentativo. E il quadro finale somiglia, più che a un panorama egizio lungo il Nilo sanguinoso, ai campi perfetti della geometria di Flatlandia: un rombo incomunicabile. Sbiadito, tumefatto. O meglio, un assetto romboide in cui l’asse inferiore perde consistenza; di cui l’ultimo gradino è rovesciato e minuscolo: si direbbe tana di formiche, a vederlo. La vera rivoluzione — quella pratica, quella autentica; non intellettuale — dovrebbe sorgere da qui, ma ne mancano le forze piuttosto che la coscienza, nonostante le presenza sporadica di qualche profeta: talvolta è più arcigna e violenta la volontà dei salvati di salvare i sommersi piuttosto che quella dei sommersi di salvare se stessi.

6. Gauss è cristallino. Per la maggioranza degli studenti la medietas rappresenta una condizione accettabile: di debole sopravvivenza, con gradi differenti di sconfitte e mutilate vittorie. E’ la normalità che dà la normatività. La teoria di Gauss suggerisce dunque che ai vertici opposti si concentrino i numeri più bassi, nel Bene e nel Male: infatti, nel sistematerzaC sono pochi i padroni dei mezzi di produzione; allo stesso modo i veri miseri — ovvero coloro che nemmeno prendono parte alle dinamiche di mercato — rivelano la propria esigua quantità. Costoro si trovano apparentemente fuori dal sistema, e vengono inglobati solo nei momenti di furore mistico: quando si ha necessità d’uno sfogo inerme. Sono accolti per la loro negatività intrinseca: null’altro. Stanno appostati alle gambe nel banchetto dei grandi, si nutrono delle briciole della nuova avida sapienza: fra questi, sgattaiola carponi e sgomita anche l’affamato stomaco di Rick Gin, futuro compagno cui la tradizione epico-scolastica — tanto quella orale quanto quella epigrafica — ha affiancato l’epiteto formulare di “Scopa”, nelle seguenti varianti: “Rick Gin la Scopa”, “Rick la Scopa Gin”, “la Scopa Rick Gin”, o, per brevità e licenza poetica, semplicemente “la Scopa”. Il gusto perverso dei nomina –- quae ne sunt consequentia rerum, sed opposita –- sussume varie circostanze che smussano l’autostima mai appuntita del compagno Rick Gin — metaforico compagno, s’intende. Non è forse una condizione tragica quella cui è sottoposto l’eroismo del giovanissimo proletariato post-moderno? La domanda si alza e la risposta è lo specchio dopo la sveglia delle 7:30, in pigiama, i traumi mattutini di Rick: le mani sudate; il cuscino sbavato; l’iride di sterco, la forma mandorlata delle palpebre, così poco fascinosamente orientale; i capelli duri come il frumento, il cui colore richiama il giallo d’urina che indora la paglia campestre nei mesi più afosi — prima di “la Scopa”, gli aedi avevano proposto una pena nominale per contrappasso: “e se lo chiamassimo il Biondo?”. E poi quella statura da sedicenne in attesa, che ancora sogna. I piedi che cominciano a somigliare a quelli di un Bilbo Baggins; il meteorismo inestinguibile come la sete. Ma s’aggrappava a una frase, Rick, all’alba delle mattine più dure: una sententia antica pronunziata con la voce grave e calda degli adulti più cari, la più alta delle speranze post-pubertà: “fino ai vent’anni; fino ai vent’anni si cresce” — s’era dato quel limite prima d’ammettere la sconfitta del metro e settanta. L’ultimo gesto compreso nella ritualità del risveglio consisteva nell’indagine delle foreste ascellari: quell’odore sapeva creare un’aurea circolare attorno alla sua figura, pareva descrivere una lotta furiosa fra ormoni in conflitto, che s’incornavano l’uno con l’altro a graffiare i respiri. Tempo al tempo: un giorno, era sicuro, ne sarebbe andato fiero. Il profumo non era altro che una moda: sarebbe passata.

7. Son Row School, Vike City, seconda porta del primo corridoio. L’intervallo è concluso: gli alunni tornano ad occupare i punti del sistema. Rick Gin non si è alzato: ha seguito i movimenti di Lisa More, il docile oscillare delle gambe dalla porta al banco. Ora, dal basso, osserva con cupida brama la cima della piramide, partecipe ignaro dello Spettacolo. E gli sovviene un fruscio estivo ma fresco, una brama tattile e prensile, che sviluppa le immaginifiche capacità del pollice opponibile: ovvero Rick Gin, cadendo lo sguardo sulla scollatura di Lisa More che s’era voltata verso una collega, s’accorge d’un tratto che vorrebbe toccarla, la vetta. Toccare. Già. Osservare non lo sazia più. Rick si convince che la contemplazione non può essere l’ultimo stadio dell’itinerario della mente: non può esserlo se ancora avanza un desiderio più concreto e fisico. Toccare. Già, perché più gli occhi restano concentrati, più i neuroni impazziti s’informano di dettagli succosi: una leggera oscillazione del campo visivo mostra che la vetta della piramide è bipennata. Toccare. Non solo Lisa More, anche Linda Blunt. Toccare. Toccare le vette, di Linda Blunt. Di Lisa More. Le vette. Toccare. Toccare. Toccarle. Strizz-“Oh!”, una voce maschile, estranea lo distrae, un gomito lo sfiora: “sta entrando la Mc Pie”. Rick respira con più calma, finge una smorfia di ringraziamento. Stringe le dita, che quasi gli dolgono. Lo zoom visivo si allarga, ponendo gli oggetti ermeneutici nel loro contesto storico-naturale. Eccole lì: una fila di banchi davanti alla sua, l’una di fianco all’altra. Le vette. Toccare.

8. Nonostante l’ingresso della professoressa Mc Pie, Rick ritorna all’analisi autoptica. L’attitudine allo studio lo conduce all’elaborazione d’una precisione chirurgica della volontà: lo zoom si restringe, il campo torna a concentrarsi sulle cime della piramide. Un primo piano d’autore di film per adulti. Non vorrebbe più soltanto toccarle, le vette. Vorrebbe averle, entrambe: possederle nella totalità grassa e unta del mondo vero. Averle entrambe: stringerle. Già. Strizzarle. E poi apparire con esse: apparire era l’ultimo punto, ma contava meno. Era speculativo. Arrivò a provare dolori simili a quelli che i Werther d’ogni adolescenza — insicuri e imbottiti di retorica — provano per il feticcio romantico del possesso: ma la causa ora non era Amore, era il conflitto. Immerso in queste riflessioni, Rick non s’accorge di ciò che appare nel mondo dei fenomeni: la pressione del suo sguardo dev’essere così graffiante da portare una delle due — Lisa More, come per istinto — a compiere una scattante proiezione del torace verso la radice pulsante di quell’energia ossessiva, di cui l’inconscio borghese avvertiva l’inadeguatezza. Rick, sconvolto tanto dalla velocità quanto dalla leggerezza dei gesti — i capelli avevano seguito il corpo in crescita come un cagnolino distratto segue la padrona — mantiene la fissità generatasi dal terrore, le sopracciglia paiono gonfiarsi di folte preoccupazioni, le mani sudano, scivolano dal banco; piove sulle foreste ascellari, sulla pianura frontale, sui piedi da Hobbit. “Ehi, Linda, guarda un po’”, “Guarda ‘sta Scopa”, “Cosa?”, “Ci fissa”. Non appena si voltano —entrambe, questa volta, sempre mantenendo la speculare struttura tanto misteriosa quanto naturale delle mestruazioni parallele — lo sguardo di Rick, quale passero poggiato sul ramo, s’invola spaventato verso le mete ignare della prima finestra disponibile: appena in tempo, prima che il fuoco fatuo dei cristallini si riveli fuoco incrociato. Ma la simulazione — così come la spontaneità — non costituivano la specialità personale del repertorio qualitativo di Rick Gin, ed ogni gesto risuonava nell’aria vuota come goffo, imprudente accusa alla società intera: società incarnata, in questo frangente, dalle paladine della giustizia interna. Ogni gerarchia — dalla comunità medica al microcosmo d’ogni classe scolastica — si autoregola: è come un termosifone troppo intelligente.

9. Lisa gli parlò: non era una domanda elevata nella forma. Si chiedeva, a metà fra retorica e sincero disgusto, quale specifico tributo dionisiaco-fallico, ligio alle usanze d’alcune tradizioni giapponesi, desiderasse da loro. La semantica violenta non giunse alle remote zone della psiche di Rick Gin: quegli spazi che traducono i concetti recepiti — ininterrotta musicalità — e li digeriscono, quali molecole alimentari, scindendoli in foni, fonemi, morfemi, sintagmi. Il tutto rimase nel limbo delle percezioni interrotte, nel traffico mattutino delle metafore pendolari. Ciò che contava, nell’universo costruttivista di Rick, stava nel destinatario: il destinatario, era il messaggio. Ed era lui, il destinario. Era lui che contava. Era la prima volta che si rivolgevano a lui — già, proprio a lui — con la seconda persona? “Tu, Gin?” Davvero? La frenesia delle circostanze pervadeva la classica razionalità che lo contraddistingueva nelle fervide lotte di Pokemon alle elementari. Ma era vero: Lisa parlò a lui –- già, proprio a lui –-, la voce era ormai quella dei sogni per il giovane Rick, ammaliato ed estasiato dalla sola apostrofe iniziale. Eccitato: un sincretismo di folklore digitale s’alzava; ed era gioia e imbarazzo.

10. La reazione alla domanda di Lisa More non giunse: non vi fu risposta. Non fu tanto un’assenza d’azione, quanto un’incapacità psicofisica, pineale. Conscio della propria goffaggine, Rick preferisce rispettare il principio della conservazione di massa, mai pienamente compreso nelle lezioni di fisica –- bisogna dire che Rick la Scopa Gin era rappresentazione icastica dello stereotipo scolastico ribaltato: molto impegno e molta applicazione, risultati scarsi. In principio, Lisa e Linda non colgono il nesso fra l’attacco e la reazione vuota –- sempre più attesa, come un segno del nemico in una guerra di posizione. Quando il silenzio e l’immobilità paiono volgere, come neve, su ogni fonte di luce, l’animo bellico di Linda ha un sussulto che si direbbe d’orgoglio, se non d’affetto verso il proprio universo razionale: privarle d’un confronto, ma come si permette, ‘sta Scopa?!, ‘sto scemo!, ‘sto coglione!: già, ’sto fetente!. “Gliela facciamo pagare, questa!”. “Aspetta che la Mc Pie si gira”, “Non farti beccare”. Rick restava immobile: nella sua mente conservava la massa, ed era la scelta migliore. Fuori dalla finestra, oltre le fessure delle tapparelle, un corvo muto e scuro: elegante fugge.

11. Rick non parlò e non si oppose durante l’esecuzione della condanna, subìta non senza una coerenza giurisprudenziale interna, il cui verdetto inappellabile fu “colpevole”. Di cosa, poi, ben non si sapeva: figurarsi su quali basi. Rick patì senza dare aperta mostra di rassegnazione, come si accetta un’esistenza priva di senso: la coscienza d’essere un capro espiatorio. Doveva farsi eroe, per sopravvivere. Per dare una speranza a se stesso e alla classe dei sommersi: qualcuno lo avrebbe ammirato, oltre che compatito. Fu una visione progressiva, che iniziò con quella sopportazione inattesa e volgare. Maturare una tacita svolta. Era deciso a sviluppare una vendetta, nell’incomunicabile mutismo della sofferenza umana ingiustificata, nonché inevitabile. Comprese che era giusto, doveva essere così: che non potendo attuare una rivoluzione collettiva nel sistema-terza C — une vera Lotta di classe — l’oppresso doveva agire con tecniche di rivolta individuali. Uscì per ultimo dall’aula, sotto gli occhi impotenti e pietosi della signora Mc Pie, il cui pensiero va pur sempre alle vittime. E gli sovvenne un’intuizione, sul pullman, a Rick Gin: logica conseguenza delle prime ammissioni. Una conoscenza intuitiva a corroborare la tempra delle tesi precedenti, stratificatesi ormai nell’inconscio. Venne come un ladro, come le istanze dell’Essere: mentre osservava dal finestrino le gocce di pioggia ferme, immobili prima di cadere, condannate. Le gocce che poi si trascinavano giù, come lumache. Ripensò al corvo, ultimo fotogramma prima della tragedia: si disse “mai più”, con la convinzione del tossicodipendente. Lo colse poi una serie di questioni, una raffica psicologica d’origine masochistica: c’era un piacere nell’essere sopraffatti? E la risposta, ora come per i successivi quesiti, fu sempre la stessa. C’era un senso nell’etica del dolore? Mai più. Perfino la libertà può essere oggetto d’alienazione? Mai più. E le sensazioni? Mai più. Provava rancore? Mai più. Che cosa cercare, illusioni? Mai più. Mai più: mentre cadeva l’ultima goccia del quadro sovvenne l’idea finale, parvenza di orizzonte totale sul cosmo al crepuscolo. L’illuminazione politica, personale. Non era una risposta. Era una forma del pensiero che superava le canoniche dinamiche della quaestio. La verità svelata d’un tratto, sui misteri del tempo umano, sulle leggi della dialettica, sulla condizione dello Stato e sull’amore puro, sulla Rivoluzione: più che articolarsi per essere comunicata, questa verità si tradusse in un proposito d’azione.

12. Rick entrò in camera, chiuse la porta a chiave. La madre — Dorothy Fletcher — sentì il rumore della serratura e della chiave che gira, un vuoto di cecità giocastica le corse lungo i reni: atavico ed eterno. Un lampo le illuminò ogni errore di madre: la separazione genitoriale si traduceva nei confini interni alle mura domestiche, entro le quali non si viveva come in una comunità, ma come in un groviglio di solitudini destinate a marcire: la conoscenza procede per illuminazioni irrazionali; si direbbe eredità cristiana. Dorothy Fletcher si fermò: si sedette. Dorothy Fletcher accese il telefono ed espose sulle bacheche immateriali la trasposizione linguistica stereotipata del proprio disappunto, per affermare con volto piangente che “Dorothy Fletcher è preoccupata”.

13. La nuova società di vergogna spingeva Rick a farsi utente passivo delle comunicazioni mediatiche, piuttosto che leader attivo e propositivo: un’esistenza silenziosa a non rendersi noto, a scomparire nell’ombra. L’esperienza orizzontale non si adattava al verticale senso delle cose vissute, che si facevano storiche nella memoria; e coloravano le stanze. E questa stanza: dell’infanzia, di noi che siamo terra e gioco. Saper giocare è essenziale. Ma ora, adesso: quale ruolo nel grande gioco del mondo? Che cosa poteva mostrare Rick Gin ai pollici del cosmo? Quale parte fisica di sé poteva prostituire nella sublimazione degli sguardi passionali? Le domande erano giuste, sensate. Ma la vendetta doveva passare da qui: dai loro mezzi, oltre i filtri razionali. Mai più, s’era detto. Rick accese il telefono — lo aveva spento per evitare di notare racconti d’icone rappresentanti la trasmissione della propria tragedia — ed entrò nel network. Attraversò la foresta derisoria delle nuove tribù digitali. Passò per la violenza e il degrado, per la stagione del calore e i ghiacci, per le teorie di Girard e gli uomini di Malinowski, per i terrori apocalittici e le profezie di Babele. Passò fra Lestrigoni e Ciclopi: fra hipsterici vestiti ed egocentrici urli; noiose vanità notturne nascoste nel linguaggio dell’anticonformismo radical. Passò fra natiche panoramico-marine di ninfe in bichini, fra superfici d’amicizia e clientele cesariane. E vette. Enormi vette. Finché, ormai fatto savio e stanco — era impossibile tornare a Itaca: dov’è Itaca? — giunse al caloroso nocciolo della propria alienazione, annunciato dall’epigrafe: “Io sarò per te condanna, L.”. Alla fine del viaggio Rick Gin ebbe come l’impressione d’essersi lasciato alle spalle un deserto. Alle spalle il peso di un Dio turbinoso e fraudolento. Come se il rumore, nell’eccesso, avesse raggiunto quella soglia oltre la quale ogni suono ritorna nel silenzio. Rick continuò nei suoi propositi: la prima vittima della vendetta sarebbe stata Linda Blunt, la quale, fra le due matrone di Governo, era parsa agire con maggiore rabbia nell’applicare la colla vinilica ai capelli color paglia — non che a un trattamento simile sarebbe sfuggita, in seconde nozze, anche Lisa More. Rick poteva ammirare, assieme ad altri mille pollici, le immagini che Lisa — previa accettazione iniziatica — aveva scelto per presentarsi al mondo: l’insieme lo colpì, poi l’analisi delle singolarità lo spinse a scorrere verso il basso; era una forza gravitazionale dell’estetica corporea. L’attenzione si fermò sui prodotti della stagione estiva: i più gettonati dagli utenti sconosciuti, oltre che i più riconoscibili. Si fermò lì dove la kantiana cosa in sé si mostra intellegibile, sebbene non esplicita: ai confini fra il conoscibile e il noumeno delle curve e dei seni — d’altronde bisognava che ci fosse della creatività nell’atto vendicativo. L’occhio cade poi su alcune figure particolari, che tradiscono una confidenza intima e, si direbbe, teneramente femminile con il terreno, su cui poggiano le ginocchia sporche di bianca sabbia. E’ il momento della vendetta: Rick si slaccia la cintura. Una mano a reggere lo schermo, l’altra a cercare il falco alto levato della repressione sconfitta, della rivolta individualistica e minoritaria, del mondo sommerso di coloro che non comunicano, del “Mai più” -– “Dorothy Fletcher è preoccupata”, e a quattro persone piace questo elemento. Rick Gin agisce senza un pensiero, coglie la radice dei problemi con la precisa volontà d’alleggerire il bagaglio dell’oppressione: s’aggrappa all’arma del risorgimento proletario. Tutto sarebbe partito da qui.

14. L’epilogo della lotta, breve e priva d’amore, non è altro che un ghigno. Sul viso di Rick Gin resta una smorfia impossibile da connotare in positivo o in negativo: il fulgore rivoluzionario s’attenua piano; si comprende soltanto l’odore sudaticcio e acre del fiore goduto, bergsoniano inno all’amarezza dei piaceri. Un alone di tristezza lo avvolse d’un tratto, una volta appoggiato il telefono sul comodino. Oltre le tende pensò esserci il corvo della mattina: non parlava. L’epifania di Rick Gin fu tragica e tardiva come quella d’Aiace Telamonio: alla pazzia si sostituisce una frustrazione che non conclude e non distrugge; che è sottile, asintotica. L’epifania di Rick Gin fu la realizzazione che esiste soltanto una vendetta per l’oppresso, ed è una vendetta autoreferenziale, priva di riconoscimento. Che esiste un distacco fra il reale corso delle cose e l’universo delle icone. Che nello spettacolo delle illusioni, il problema resta la proprietà privata dei mezzi di produzione. L’epifania di Rick Gin fu sintetica, fu un seme disperso nei campi dell’intelletto: che le immagini non si possiedono, mai. Che i sommersi resteranno sommersi.

15. E poi c’è l’alienazione, ovvio. L’alienazione.

(foto: Perry Como, When you were sweet sixteen, New York Public Library)

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