Troppo tardi per non credere in Dio. Lilith, di Davide Nota

 

 

In questi giorni esce nelle librerie Lilith, primo romanzo di Davide Nota -scritto tra il 2015 e il 2019-. «C’è, subito, il sentimento di una profondità. Il bisogno di aprire ferite» ebbe a scrivere Roberto Roversi in un commento ad una delle primissime pubblicazioni di Nota, e lo stesso appunto allarga la sua ombra sino a Lilith, diventandone l’ennesimo incipit: «[…] Il testo mi ricorda che non sempre nell’inferno c’è soltanto il fuoco.»

Le formule con cui la letteratura italiana attraversa oggi la narrazione della meccanosfera sono spesso sovraffolate di catastrofi. Stanche catastrofi. Ecco perché il mosaico di appunti che Davide Nota ha voluto capovoltare in romanza è una lettura decisiva, e lo è in quanto dichiara l’inattualità di ogni momento storico, e quindi l’invasamento dei tempi, la scollatura in cui inscenare un radicale ripensamento della tecnologia come luogo di riscatto degli universi sepolti e nascituri: «Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente.». Oppure: «Si torna alla figura dell’ebreo errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) eppure mai come spirito (libero). Il tempo che egli attraversa, non l’ha mai contenuto. Per questo non può esistere in nessuna dialettica (e dunque in nessuna avanguardia). E il suo ritorno non si svolge a ritroso.»

Ma decisiva lo è anche in quanto contravviene all’impiego della tecnologia per stuccare i mancamenti della pagina, le sempre più insistite defezioni rispetto all’imporsi di linguaggi altri. In questo senso, Davide Nota sceglie di abitare in pieno quel vibrante tracollo che è forse l’andamento proprio di ogni alfabeto nel momento della sua riscrittura: «Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma.»  Bene che Luca Sossella abbia saputo intuirne il fermento, e bene che il testo continui ad infittire la sua già vasta piattaforma di colloqui (alcuni nomi: Mariangela Guatteri, Alice Piergiacomi e il Collettivo ØNAR -con cui si è sviluppato un percorso di ricerca teatrale-) 

«Io mi sento davvero come dice Gide (altro angelo custode del testo) nei Nutrimenti terrestri solo un lettore» mi scrive Davide durante una nostra conversazione prima dell’uscita del libro, confermandomi così quanto già vien fuori da una prima lettura: l’autore ha da essere responsabile soltanto dell’orlo.

Torneremo a parlare di Lillith. Per il momento, ne pubblico alcuni estratti in anteprima.

 

13.

Il mio nome è Brenda ma non sono sempre stata io. Ero un bambino timido. Mi chiamavo Alexander. Le generazioni passano ma il mondo è sempre lo stesso. Come uno spirito vagante egli ora vive in me. Come un ricordo. Una barca. Una bara che arde nei mari del Nord. Ho fatto l’esperienza della morte. Della mutazione lucida. Ho costruito un cerchio di pietre sul pavimento della stanza. Al suo centro ho posto una sfera dove mi osservo capovolta come nell’occhio di un ciclope. Una biglia è una biglia di smeraldo sa di terra nera e felci. Adesso suonano alla porta. È il mio omicida ma io non lo ricordo. Così farò finta di danzare, di esserne lieta. Gli offrirò un drink. Lui mi darà in mano cinque banconote. Poi mi condurrà nel piccolo corridoio in ombra dove inizierà a toccarmi spingendomi da dietro, come un breve assaggio prima del pasto finale. Eccolo, mi strangola. Ora ricordo. Uscendo dalla cucina avevo sempre la visione di un manichino bendato. Aveva un largo seno e vaste gambe da atleta. Non aveva le braccia e dall’incavo del collo si espandeva questo fungo di plastica nera che mi terrorizzava. Dal vetro della por- ta-finestra s’affacciava un gatto ed io pensavo che voleva dire la morte. La sorte. Quando iniziai a masturbarmi sognando di avere una fica era troppo tardi per non credere più in Dio. Così scelsi di avere entrambi i sessi ed entrai nella mitologia.

 

57.

Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente. L’uomo è tornato cieco, finalmente. Ha partorito il suo intelletto. Adesso non gli appartiene più. Adesso può toccare il sole.

 

76. 

(per Mariangela Guatteri)

Il carro ha l’incarnata assassinata che si è persa tra le foglie da cui cade la yogin, la riassorbita. Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma. Ma esiste un terzo livello (lei dice) in cui l’immagine viene toccata. A questo ci prepara il culto che prepariamo. Lilith tesse le felci, le piante tintinnano in coro. Lega un anello di crini al ramo giovane d’un faggio mentre un seme ad elica vola come fuggendo lontano. Era il linguaggio delle streghe quando rubavano il cavallo. È più profonda lei dice la vita senza più simboli quando l’icona non predice altro che sé stessa.

 

83.

Endimione

 

I.

Tutto è raccolta. Quando l’astro eclissa

come un veliero l’uovo luminoso

da cui risorge Fanes, esistiamo.

E tutto è luce. O dove il caos si schiude

una saetta improvvisa. E il fiume scorre.

Qui siamo, nelle forme destinate,

accolti. Non io o tu ma questa palpebra

di luce prenatale, questa sfera

che ora chiami “il motivo”. È come un sogno dove

non scisso ma infinito il flusso

di energia e materia pervade il fine.

E dunque nasce. Un grattacielo ha occhi

di fuoco e mille pensieri. Il pianeta

è in fiamme. Io contemplo lo sbocciare degli eventi

come rivelazione. È un vento tiepido di marzo

nella notte fatale, dove tutto accade.

I lampioni esalano sangue. Il seme.

 

95.

L’Yggdrasill è addobbato. Prende fuoco, si spezza. Le luci erano dolci ma non furono risparmiate dall’evento sterminatore. Gli infissi cedono. Una fotografia, una foglia di ippocastano, una mano serrata di cadavere è un guscio vuoto che affonda nella terra nera. Siamo giunti allo specchio di noi stessi che sono tutte le cose nella solitudine in cui svanisce la menzogna di credersi in un cammino. Eppure non è vero, perché anche queste sono solo parole, utili al giudizio, a chi ha una posizione. I ripugnati mangino merda quanto gli scettici! La stirpe dei terrorizzati è stupida quanto quella del lume. Ribellarsi allora signifi cava contemplare senza interpretazione il giano bifronte delle possibilità. Ma anche l’impossibile sarebbe a portata di mano se solo prendessimo atto di non essere un uno ma in uno. Non secondo nostra volontà, tuttavia, ma in Cristo, Buddah e Allah nostri signori e nella figlia loro e sposa ventura Fatima, vale a dire lo spirito santo, vale a dire la Maddalena madre Maria degli universi sepolti e nascituri.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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