Raffaela Fazio, L’ultimo quarto del giorno

Nota di lettura di Giorgio Galli

Non è facile parlare della poesia di Raffaela Fazio, perché è una poesia intimamente autosufficiente, che si compie in se stessa e sembra refrattaria alla sovrapposizione di parole che non siano le sue. Eppure occorre che io ne parli, almeno per rendere conto della gioia che ho ricevuto dalla lettura de L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018).
Partiamo dalla musica: una musica discretissima, difficile da individuare all’inizio, ma chiara e tesa. Può ricordare, per l’essenzialità linguistica e il gioco semisommerso delle figure di suono, il primo Quasimodo. Ma è solo una suggestione, perché si tratta di un suono che è proprietà esclusiva dell’autrice. Sembra che le sue poesie vadano lette con voce sommessa ma ferma: una voce femminile melodiosa e intima come quelle delle doppiatrici dei film anni Cinquanta. Un suono affettuoso, ma anche astratto. Che in effetti è possibile realizzare, in tutta la sua ricchezza espressiva, solo nella lettura mentale, e che nasce proprio dal carattere astratto della parola, dalla consapevolezza dei limiti della parola. Non c’è nessun assalto all’ineffabile: solo un pensoso contemplarlo.
E’ una poesia interiorizzata ma estroversa: c’è sempre un Tu, ed è un Tu di cui il dettato poetico enuclea il ruolo affettivo, la quintessenza relazionale, tenendo semisegreto il suo io empirico. Nelle poesie dedicate ai figli, essi non sono mai “rappresentati”: appaiono come destinatari di un pensiero e di un amore di madre. Non ci sono descrizioni in questo libro. Sono assenti i dettagli. La parola è astratta. Concreto è l’amore. Ed è un amore declinato in tutte le sue forme, dall’amore materno all’eros all’agape, sempre come un sentimento germinale, come la scaturigine di una riflessione emotiva pacata e zampillante.
Tanto è peculiare lo stile, tanto è accogliente. Non accoglie solo il lettore, ma anche gli stili degli autori che chiama in causa. Eraclito, ad esempio, viene prima “affiancato” mutuando una sua metafora sul tempo, poi citato. Ma c’è dell’altro. Accogliere, dare, darsi, sono il sottotesto continuo di questa poesia. Anna Maria Curci ha definito “parola dialogica” quella di Raffaela Fazio, ed è una definizione che mi sento di condividere con tutto il cuore. In questa parola si assiste a uno scambio di interiorità. L’autrice rivolge un continuo invito a condividere un’esperienza al limite dell’esprimibile, e perciò solo lambita dal dire: “Vieni”, “rendimi fruibile”, “fa’ la tua parte, credimi”. Ma questo scambio induce una metamorfosi tanto dell’Io quanto del Tu: “a metà / di qua muoio / all’istante / di là / divento / più ariosa / fatta per amore / giardino pensile di un re / per la sua sposa”.
Poesia meditativa, ma che origina sempre dal corpo. Un corpo “sapienziale”, perché il corpo è colui che sente lo scambio amoroso, ma anche il luogo in cui si realizza l’azione del tempo, la morte continua e il continuo ricambio di cellule e tessuti, il “male universale / senza età”, che intacca la vita dei singoli, che è l’essenza tragica del creato: il “morire / in altre forme” che è essenza di un esserci che nasce corrotto, ma che è anche causa della generazione di altra vita, che “non lascia spazio sufficiente… a un pensiero di morte e di caduta”. Nel corpo che invecchia, muta e perde bellezza, ma che ama e che procrea si può realizzare il continuo rinnovarsi del dono: “Vantaggio dell’età / potermi offrire a te / come la copia / fedele minuziosa / di me stessa / darti la libertà / di lavorarmi ancora / senza posa / perché la mia materia / è più docile al pensiero / alla mano / di quella imperitura / dell’originale / che si è perso / nel corpo senza fughe / del reimpiego”.
Il modo che Raffaela Fazio ha di declinare il rapporto tra essere e tempo, tra amore e morte, non mi suggerisce nessun accostamento contemporaneo. Mi ricorda piuttosto Omar Khayyam, la saggezza antica, la Tyche non dei tragici, ma dei lirici: “oltre la morte solo l’amore è guardia di frontiera”; “Ho l’impazienza / della scellerata / ma sono felice e rassegnata / come chi sa / di essere impigliata / a morte / nell’eternità”.
Nella parte finale del libro, la poesia apre un varco al trascendente, che era rimasto sotteso fino a quel momento. Preludio forse alla riscrittura empatica del testo biblico nel successivo Midbar (Raffaelli Editore, 2019). O forse compimento logico di un percorso: l’amore terreno è la risposta cercata a un vuoto cui dappertutto si accenna (“Le tue perdite / strette alle mie mancanze / arrotondano il vuoto per difetto. / L’effetto / siamo noi che ci cerchiamo / e deprediamo il tempo / ma non in linea retta”), mentre l’amore trascendente sembra una risposta proveniente proprio dal centro del vuoto stesso. Un percorso, dunque, all’interno di quella domanda d’amore che è origine di ogni forma del dire.

Ti dirò
di noi
sarò precisa
come è preciso il richiamo
di un piccolo animale.
Per le parole serie
chiederò
materia al volo.
E per l’infinito
che le sperde
non molto:
il buio
del gioco
tra il folto dei rami.

*

Vieni
sui miei possedimenti
nell’abbaglio delle falci
sui terrazzamenti
dei più arditi pensieri
sulle distese contigue
del tempo a noi più simile.
Rendimi fruibile
accendi queste caviglie
non guardarmi.
Fa’ la tua parte, credimi
anche se dico una bugia
e nel goderti mi approprio
di una bellezza non mia
che la vita mi dà
come un’altra terra ignota
al marchese di Carabà.

*

Nella vita pare che tutto
vada restituito.
Il crollo del corpo
alla sua lievità
il dolce di un labbro
alla prima matrice
il fuoco guerriero
al fodero di pace
la bellezza (sempre)
all’alterità
la verità di un’arte
all’insieme e l’insieme
alla più piccola parte.
Va riportata
ogni prova di amore
al mistero
e lasciata
fuori dall’inventario
una cosa soltanto
un fendente di gioia
assoluta insolente
non necessaria.

*

Il corpo è un trapasso
continuo: smistamento
di cellule e tessuti
in tempi disuguali.
Durante questo lutto
del tutto personale
accade
che mi si avventi contro
su da un fosso
una diversa forma
piccola animale
riversa in un’ingiusta
fissità.
Niente
mi costa quella morte
non è mia.
Eppure
mi confessa
che porto nelle ossa
un male universale
senza età.

*

Piccoli accorgimenti

Deglutisci
se ad alta quota
un antico vuoto
fa male.

Se piove a vento
dentro le parole
aspetta.

Quando indivisa
è la notte
non la spartire
neppure con l’amore
guardala
da sotto
cercane l’odore
di scura mammella
– nessuna patria
nessuna risposta –
solo una lenta
animale
suzione di stelle.

E vedrai

un giorno
la notte finisce.

Deglutisci.

*

Ora di punta
(per i miei bambini, dicembre 2015)

Come in un’eterna
ora pendolare
in cui il corpo è sorretto
dal vicino
e superfluo
è perfino un appiglio
così anch’io rimango in piedi
grazie a voi
che vi moltiplicate
ogni giorno un pochino
e aderente
al vostro bisogno
mi tenete
non mi lasciate
spazio sufficiente
per uno scarto muto
che un po’ somigli
a un pensiero di morte
a una caduta.

*

Stai attento
quando con me giochi
al dono e al furto.
Ho l’impazienza
della scellerata
ma sono felice e rassegnata
come chi sa
di essere impigliata
a morte
nell’eternità.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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