La geografia della mia infanzia

di Giacomo Sartori

Attorno alla vecchia villa dove vivevamo, la casa di mia nonna, c’era un territorio che era bello e accogliente, ma non ci apparteneva. Apparteneva ai contadini. Che erano esseri ignoranti e retrogradi. E infidi. Paradossalmente erano loro però che conoscevano i segreti di ogni recesso delle campagne e dei viottoli, solo loro erano liberi di percorrerlo a piacere. Lì fuori erano loro che dettavano il buono e il cattivo tempo. Lo constatavo parlando con difficoltà la loro lingua così diversa dalla nostra e entrando nelle loro case dagli odori forti, sperimentando a mie spese come potevo essere accettato. Per mia nonna erano quasi bestie, ma intuivo che sotto le sue frasi sferzanti li temeva. Erano loro i veri padroni dei vigneti, dei pezzi di bosco, delle scarpatine incolte dove cresceva l’erba medica buona per i conigli. I proprietari – i paròni – erano i possessori, ma in realtà regnavano ormai solo nelle loro ville secolari, nei giardini alberati che le circondavano. Al riparo dalle voci rudi, dagli sguardi. Fuori imperversavano loro, i bifolchi, che certo lavoravano, ma anche gridavano, sghignazzavano, e soprattutto guardavano, guardavano tutto. Perché i tempi – questo non potevo saperlo – erano cambiati, la mezzadria era stata abolita.
Bisognava difendersi dai loro sguardi. Mia madre si proteggeva tenendo sempre ben chiuse le tende che castigavano le grandi finestre, non sia mai che qualcuno potesse vederci in casa. Mia nonna per le spazzature faceva scavare una buca dietro gli annessi della villa, e le portavamo lì. Quando la fossa era piena, ma ci voleva molto tempo, il consumismo era solo agli inizi, dava fuoco al suo contenuto. E quando proprio tracimava la faceva coprire e ne faceva aprire un’altra. Non portavamo i nostri resti alla minuscola discarica, forse un metro quadrato, i residui allora erano davvero esiguissimi, all’entrata del paese, dalla quale spesso si elevava un incerto filo di fumo. Lì ci passavano tutti, i bifolchi avrebbero potuto vedere cosa mangiavamo, cosa facevamo, di cosa ci disfacevamo: non esistevano ancora i sacchetti per la spazzatura. E si trattava di resti molto diversi da quelli ai quali erano abituati loro, alcuni li avrebbero giudicati ancora buoni. Non era nemmeno concepibile questo attentato alla nostra intimità.
Mia nonna riceveva l’anziano contadino che lavorava la sua campagna, ora che la famiglia di mezzadri era andata via, nella sua cucina: lui entrava dalla porta sul retro, e salutava con la testa bassa, scalcagnato Sancho Panza con il cappello in mano. Lo stesso uomo sovrappeso avanzava però tra i filari di viti con ondeggiamenti spavaldi da vincitore. E quando lei transitava per la frazione con la Cinquecento per scendere in città, sbucando appena dall’altezza dei finestrini, quasi fosse tornata bambina, guardava fisso davanti. Era il suo modo di salutare, sapeva bene che tutti gli occhi la seguivano. A parte noi e gli abitanti dell’altra villa nessuno aveva la macchina, o anche solo una moto, o una bicicletta.
La domenica andavamo in chiesa, la prima fila della pieve del paesino più vicino, solo e esclusivamente per dovere sociale. Anche quello era un territorio che non ci apparteneva. In casa mia la religione era questo, l’incombenza di mostrarsi in chiesa la domenica, per non apparire superbi. Quelle pratiche sciocche erano necessarie per loro, non per noi, che avevamo l’educazione e la dignità di accettare la vita per quello che era. Lo stesso prete era dalla loro, ogni tanto ci arrivavano delle frecciate. I contadini maschi stavano nel balcone sopra la porta di entrata, al quale si accedeva da una scala esterna, separati dalle donne. O anche all’esterno sul ballatoio che lo precedeva, con il cappello in mano. Irrequieti, sarcastici, surrettiziamente riottosi, impazienti della sbornia domenicale. Noi bambini a tavola intonavamo l’Alleluia imitando la ü dialettale con la quale veniva cantata, che ci faceva morire dal ridere.
La nostra vera patria era lontana e indistinta. Nemmeno io lo conoscevo, mi accorgo a posteriori. Era New York, era Buenos Aires, era soprattutto la bella l’Avana, dove mia madre e le sue sorelle erano nate. Mia nonna diceva basura, non spazzature. E asco, non schifo. Era la prima classe delle navi sulle quali avevano traversato tante volte l’Atlantico. Era l’accademia militare di Modena frequentata da mio nonno assieme all’amico Giovanni, il futuro senatore Agnelli. Era la collina di Torino, dove viveva la sorella di mia nonna, che era stata sposata con il fratello di mio nonno. Le due sorelle e i due fratelli erano primi cugini, tutto restava in famiglia. Era Milano, dove vivevano gli zii ricchi, che sfoderavano sempre gli ultimi ritrovati della tecnica, che ci lasciavano a bocca aperta. Di quei posti così alieni i contadini non avevano idea, perché dalla nostra frazione nessuno era emigrato: la polenta bastava per tutti. Il viaggio più lungo era scendere in città per la fiera annuale dell’agricoltura. I maschi andavano lontano una volta, in Italia, per fare il militare. O per la guerra. Il padre del mio amichetto mi raccontava la ritirata di Russia con le lacrime agli occhi, lacrime di struggente nostalgia: per lui non era stata una tragedia dantesca, era stata l’esperienza più bella della sua vita.
Anche mio padre aveva dei posti che gli appartenevano. Facevano capolino di rado, e erano meno eclatanti, più dimessi, ma esistevano. Il paese già quasi veneto dove era cresciuto, dove compravamo il formaggio del giorno da mangiare scottato in padella, con una consistenza elastica di plastica, e un delizioso gusto di erbe di montagna. E il villaggio di lingua tedesca dove suo padre era stato mandato come gerarca. I crucchi erano suoi nemici, perché li considerava – anche questo lo ho appreso dopo – i responsabili della caduta del fascismo, e anche doveva combatterli sui cantieri stradali dove lavorava, visto che la maggior parte erano lì da loro. Suo padre non ci aveva pensato due secondi, come Cesare Battisti, a arruolarsi nell’esercito italiano, per combatterli (lui ci aveva rimesso solo l’uso di un braccio), e mandarli via. Quel toponimo italianizzato lo nominava però strascicando dolcemente le consonanti.
Certo il vero posto che rimpiangeva, l’unico dove si sentisse davvero a suo agio, era la GUERRA. Ma quella non c’era più, gliel’avevano tolta. Il suo esilio era forse ancora più severo del nostro. Era – lo ho capito solo molto più tardi – un rinnegato. A casa poteva dire quello che voleva, e anzi provocare gli invitati di mia madre, dandogli dei voltagabbana, ma fuori doveva tenere profilo basso. Signoreggiavano i democristiani, i preti, i sindacati. Adesso era così.
Restavano le vette delle montagne. Quelle sì ci appartenevano, erano anzi l’unico spazio che avevamo in comune. Appena ci allontanavamo dalle strade e dalle altre persone eravamo nel nostro dominio famigliare privato. Il cielo immenso era nostro, e anche i larici e le rocce, e gli odori di resina e di vento. Ci andavamo la domenica, l’inverno con gli sci, e l’estate con il sacco sulle spalle. Lì, e solo lì, eravamo una vera famiglia, coesa e appagata. I miei non litigavano, o molto meno, e ognuno aveva un suo allegro tornaconto.
La cima della montagna sopra la città era un caso un po’ speciale, ci apparteneva solo fino a un certo punto. Lì mia nonna dopo la guerra aveva finanziato la costruzione del rifugio che i miei per qualche anno avevano gestito, prima di gettare la spugna. I tempi erano prematuri, e loro non erano proprio tagliati per gli affari e il commercio. Qualche domenica ci tornavamo, anche se La Selva, diventata nel frattempo albergo, era ormai circondata da casermoni più moderni, e noi non ci avvicinavamo. Pure lì in fondo eravamo stranieri, ma anche a nostro agio. La guardavamo come si salutano da lontano delle vecchissime conoscenze che nel frattempo sono diventate ricche e frequentano altre persone.
In città c’era gente più simile a noi, persone che parlavano la nostra stessa lingua, o insomma potevano passare da una all’altra. Con la Cinquecento di mia madre traghettavamo verso quella zona che ci era meno ostile. Lì c’erano i negozi dove lei faceva la spesa, non certo il bugigattolo sfornito vicino alla nostra frazione, lì comprava i vestiti e portava a sistemare la pelliccia di visone, lì c’erano i cinema ai quali mi portava anche a me, il Vittoria e l’Italia, lì vivevano le sue amiche, c’erano i locali dove le incontrava. A me piacevano i compagni delle elementari, e soprattutto quelli già malandrini, quelli che poi sono stati falcidiati dall’eroina. Sapevo risultargli molto simpatico, mi prendevano per uno di loro, e mi piaceva sentirmi accettato. Pur non facendo i compiti come loro ero il secondo della classe, sfruttando la cultura famigliare, ma non me ne volevano. C’era qualcosa di profondamente struggente in quelle amicizie. Certo poi quando tornavo sulla nostra collina mi sentivo a casa mia, potevo scorazzare come mi piaceva, entrare nelle stalle. A differenza dei miei avevo messo le radici in terra nemica.
Le cose si sono chiarite quando sono entrato in classe il primo giorno della quarta ginnasio. Ero arrivato in ritardo, e quando ho aperto la porta tutti gli occhi si sono girati su di me, come si guarda un forestiero vestito di stracci. Avevo i capelli lunghi e la mia giacchetta sdrucita di jeans, e masticavo una gomma. Sono andato a sedermi nell’unico posto libero, accanto alla bionda un po’ grossa vestita come un’anziana baronessa (non a caso adesso dirige il Museo del Castello). Ho capito subito che lì c’erano altre regole, altre gerarchie, e che l’aria era molto pesante. Mia madre aveva avuto la bella idea di iscrivermi alla sezione di tedesco, io che non sapevo una parola di tedesco. E quelli – anche questo è venuto fuori dopo – erano i rampolli delle famiglie che consideravano il tedesco una lingua più importante dell’inglese. Le famiglie che per secoli avevano intrallazzato con i conti di Tirolo. Lì si era ancora in pieno ottocento clericale, l’Italia era ancora molto lontana. Mi sono aggrappato al professore comunista, che parlava di Bertolt Brecht e di Antonio Gramsci e di Cesare Beccaria, e di internazionalismo, come a una corda di salvataggio. Sapevo già che sarei andato via, nel mondo.

 

NdA: questo testo è il mio contributo alla raccolta “Lettere da Nordest”, a cura di Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron, edita da Helvetia (2019), alla quale hano collaborato diciotto autrici e autori veneti, friulani, e trentini: Ubah Cristina Ali Farah, Gianfranco Bettin, Francesca Boccaletto, Antonio G. Bortoluzzi, Roberta Cadorin, Alessandro Cinquegrani, Elisa Cozzarini, Fulvio Ervas, Angelo Floramo, Patrizia Laquidara, Luigi Nacci, Silvia Salvagnini, Giacomo Sartori, Federica Sgaggio, Tiziano Scarpa, Gian Mario Villalta, Stefano Zangrando, Francesco Jori. Scarpa ne parla qui, sul Primo Amore.

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5 Commenti

  1. eh … il Trentino è un posto remoto di montagna, la modernità ci ha attechito solo superficialmente (anche perché ci è arrivata con le guerre, non si può pretendere). Speriamo che non grattino via anche quel poco. La curiosità però è cosa possono trovarci sotto, adesso

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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