Il poeta è un fingitore?
di Marina Massenz
Che cosa voleva dire esattamente Pessoa, autore dai molti eteronimi, quando scriveva: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”?[1] Penso che parlasse del “distanziamento” dell’Io dal testo poetico di cui è autore. È la distanza che permette di dire che, sì, l’autore prova davvero quel dolore, ma è così distante da fingerlo, grazie alla ricerca formale e nel tentativo di passare da ciò che prova quell’Io soggetto all’Io autoriale. È l’Io autoriale che a quel vissuto dà forma, cercando un modo per esprimerlo che possa parlare a tutti, o a molti, che faccia transitare il vissuto attraverso la trasformazione creativa e letteraria in un’espressione che, lasciandosi alle spalle il soggetto, comunichi un sentire più ampio e generale. Insomma, il lavoro di “distanziamento” è quello che consente a una poesia di non essere espressione di un singolo, ma potenzialmente, se è una poesia riuscita, dell’umanità in generale. La finzione non è dunque una falsificazione, bensì un allontanamento da sé, necessario se si vuole fare arte o poesia.
E, come la vita, questo è un viaggio sperimentale che richiede di pensare molto.
La poesia lirica – quale soggettività?
Esiste dunque una differenza tra l’Io dello scrivente come persona, l’Io autoriale e l’Io del testo. L’io autoriale s’identifica nella ricerca di una soggettività, o soggettivizzazione, che si esprima sì nella sua verità nella poesia, ma nello stesso tempo la guardi come da lontano, come fuori da sé. Si potrebbe dire che ci si pone in un atteggiamento di “osservazione partecipata”, in cui la messa a distanza consente di vedere di più e meglio, separando il proprio vissuto e bisogno espressivo dall’oggetto che si osserva, in questo caso il testo che si vuole comporre. Si tratta di cercare parole il cui valore e senso siano con il vissuto coerenti – la verità, dunque – ma nello stesso tempo non lo siano, nel senso che la forma che l’autore sceglie, le parole, il ritmo, il verso, l’immagine ecc. costituiscono gli strumenti di un lavoro artigianale rivolto a comporre un testo che travalichi il vissuto.
Tale riflessione ci riporta quindi all’idea di dialogo, ad una prospettiva di “parola” che vuole arrivare all’altro. Questo Io autoriale è quello del “laboratorio”, dove il testo viene composto, rivisto, ridotto, modificato; parole vengono sostituite, tolte, trasformate; immagini e suoni dettano il ritmo, emozioni e sensazioni trovano forma. È necessario molto tempo; una poesia necessita di molte revisioni che secondo me devono essere ripetute più volte, anche a distanza di mesi, anche a distanza di anni. Lo scritto ripreso dopo un tempo abbastanza lungo ci appare diverso; a volte banale, da rifare, a volte ancora efficace, da limare, modellare, ricucire…
L’Io del testo è invece la voce che leggiamo e non deve per forza esprimersi in prima persona; anche un noi o un verbo impersonale possono essere questa voce, che certo rimanda a un soggetto, a una persona, ma ha attraversato tanti e diversi gradini nell’opera di distanziamento. Dunque, come dice Pessoa, il poeta è un fingitore! Certo lo sfondo autobiografico esiste, ma la poesia – anche lirica – è diretta all’altro, prende distanza dal vissuto personale nella forma che assume; questa forma, scelta elaborata che si costituisce nel tempo come base della “poetica” di un autore, costruisce quel luogo terzo in cui, grazie all’essenzialità e alla ricerca sul verso nei suoi diversi aspetti costitutivi, il materiale personale può farsi “di tutti”.
Paolo Giovannetti ha trattato approfonditamente in un suo articolo[2] della natura del genere lirico e, in un passaggio in particolare, riferendosi al lavoro di Peter Hühn, ha parlato del tentativo di razionalizzazione operato da questo autore in riferimento all’io lirico. L’ha scomposto in quattro istanze: 1. autore biografico (quello che qui ho definito Io dello scrivente); 2. autore astratto (per me l’Io autoriale, quello della bottega di lavoro, del laboratorio, della ricerca); 3. Parlante-narratore o “Io poetante” (per me l’Io del testo); 4. personaggio (io non saprei distinguere il personaggio dal narratore…). Comunque, concordo con Paolo Giovannetti sul fatto che il ragionare sulla loro reciproca relazione potrebbe essere di notevole utilità.
La poetica dell’“Io flessibile”
Credo che l’io di ognuno di noi sia un Io poroso, un Io corpo poroso,[3] recettore di tutto ciò che nel mondo vive e accade, anche se spesso questa sensibilità non è conscia. Non viaggiamo come monadi nell’universo, ma siamo un insieme, “torme di tutto”,[4] e veleggiamo tra gli umori non solo intrapsichici, ma anche interpsichici e tra le tensioni dell’universo mondo. Partendo da questa convinzione, credo che la flessibilità dell’Io, al centro della poetica nella mia ultima raccolta,[5] sia da intendere non come svantaggio o difetto, ma anzi come un valore; una fragilità dunque da difendere e salvaguardare, senza negarla o cercare difese. Le teorie sulla poesia che volevano “uccidere l’Io narcisistico dello scrittore” hanno fatto il loro tempo; storicamente hanno avuto un senso e un valore, ma ora mi sembrano esauste. I grandi cambiamenti epocali e le trasformazioni del mondo tutt’ora in corso richiedono la presenza dell’Io come forma anche di testimonianza e di resistenza a un presente onnivoro e potenzialmente annichilente il soggetto. Nella contemporaneità abbiamo a che fare con una sostanziale, reale, fragilità umana.
Siamo sistemi complessi (la teoria della complessità, nata da studi biologici, ci spiega come la cellula cerchi sempre un equilibrio, pur passando attraverso trasformazioni continue[6]) che tollerano solo cambiamenti graduali e necessitano di metabolizzarli, di adattarsi; dal nuovo equilibrio trovato saranno poi in grado di assumere nuovi mutamenti. La rivoluzione informatica, le migrazioni planetarie, il disastro ambientale, richiedono all’essere umano grandi cambiamenti, assimilazione di nuove competenze e informazioni, accettazione di diversità destabilizzanti, assunzione di nuove abitudini comportamentali e sociali. In una prospettiva bio-psico-sociale sono forme di adattamento molto impegnative e richieste in tempi troppo rapidi, con grande destabilizzazione del sistema-uomo.
L’Io è oggi dunque in grande difficoltà: come sostenere l’urto di questi immensi e inquietanti cambiamenti? La poetica dell’“Io flessibile” che attraversa le liriche del mio ultimo libro non accetta di erigere muri a difesa o roccaforti protettive; promuove l’idea di un soggetto capace di accettare la sua oscillazione fra stare eretto e essere flagellato dai venti, stare come “peluzzi alfieri” (p. 33), erba diritta e giovane, ed essere sul punto di sfasciarsi, un soggetto che cerca negli alberi, così solidamente piantati con le radici in terra e la testa fra le nuvole, un modello di resistenza alle intemperie della vita, o chiede aiutanti fra gli altri esseri umani capaci di “fornire le bende” (p. 42). Costituirsi come questa forza flessibile, lasciarsi attraversare dai mutamenti senza rigidità, imparare l’arte di ciò che è essenziale e quella di avere una paura gestibile.
Livia Candiani parla di “Io leggero” riferendosi alla presenza della sua vita e autobiografia nelle poesie che ha scritto. La poetica che sento appartenermi è forse vicina a questo concetto, ma anche differente: è la poetica che altrove[7] ho definito dell’“Io fragile” , ma qui mi sembra di definire meglio chiamandola dell’“Io flessibile”. La fragilità rimanda ad un “crack” sempre possibile, la flessibilità al continuo mutarsi dell’Io a seconda dei contesti, delle esperienze, del tempo, in quel rimaneggiamento che fa di noi stessi qualcosa di sempre simile a sé, ma nel contempo diverso.
Nel convegno Lirica e società / poesia e politica, tenutosi alla Casa della cultura di Milano il 2 marzo 2019, Guido Mazzoni, parlando della presenza dell’Io nella poesia lirica – nella sua forma e nel suo senso, nel suo relativismo etico ed estetico – ha sottolineato come non si possa in quest’epoca negare l’Io, organo di controllo indispensabile. Se di “soggettività” c’è un’inflazione, con il rischio sempre aperto di autoreferenzialità, si può tuttavia vedere nel mondo lirico una forma di reazione, di protesta quasi, contro la reificazione dominante, in cui l’individualità è assoggettata. Esistono a mio parere due antidoti importanti contro i rischi della poesia lirica come “specchio” del soggetto, e sono l’autenticità della propria testimonianza (di cui ha parlato nello stesso convegno Maria Borio) e la forma, che è esito della ricerca personale e nel tempo può produrre un testo che abbia un valore estetico e si possa definire riuscito.
In un altro convegno, una “maratona dialettica”, tenutosi nel settembre 2017 presso la Libreria Claudiana di Milano,[8] Mariangela Guatteri disse: “Quando la scrittura suona con voce chiara e autentica, c’è un’autorità che si rivela, un’onda di realtà in tutta la sua potenza. La poesia è autorevole quando riesce a situarsi nella realtà con un’istantaneità di sguardo in cui il linguaggio stesso è all’altezza della realtà stessa: Il linguaggio poetico ha questa possibilità di aprire istantaneamente al mondo”.
È dunque ancora lo stile a mediare tra soggettività e oggettività, intesa come tempo e contesto in cui si vive.
La postura autoriale
Ho sentito spesso parlare di “postura autoriale” del poeta. Poiché il termine “postura” appartiene al mio linguaggio professionale (di psicomotricista), non posso che analizzare questa affermazione facendo riferimento all’equilibrio posturale, che determina la stabilità di un corpo in una data posizione. Vorrei perciò mettere in discussione questo termine, perché mi sembra non risponda all’atteggiamento di fondo che potrebbe assumere un poeta oggi; più che di equilibrio, parlerei di continue oscillazione o disequilibri, che non portano alla rottura, al tonfo, ma si lasciano investire dal presente e faticosamente ritrovano o mantengono una parziale stabilità.
Inoltre mi viene da chiedere: quale postura? Eretta, seduta, in ginocchio, prona, supina…? Nel presente cupo e opprimente che ci assedia vorrei poter assumere una postura eretta, intendendo con ciò un’attitudine a fronteggiare le asperità drammatiche del presente per lo meno con una sorta di atteggiamento di opposizione frontale, diritta di fronte al danno, anche se impotente come tutti ci sentiamo. Una sorta di resistenza senza nascondimento che tiene la posizione, la saldezza della propria contrarietà. Dunque eretta, ma non rigida; infatti l’urto del presente comunque arriva e solo con la necessaria flessibilità lo stelo si può piegare al vento senza spezzarsi.
In una o forse diverse mie poesie questa ricerca si concentra sull’osservazione della natura, in particolare degli alberi; come resistono al gelo, al vento furioso, alla grandine, al peso della neve? Li osservo e con ammirazione noto che non crollano a terra, come a me a volte verrebbe naturale. No, è naturale mantenere la propria posizione: come loro, gli alberi, tenendo i piedi/radici ben ancorati alla terra e lasciando che la testa vaghi tra le nuvole, oscillando senza imbragatura e piegandosi al peso senza spezzarsi.
Quale Io?
Chiuso o aperto al mondo? Come ho già detto, credo che ognuno di noi sia un Io poroso, un Io corpo poroso, sensibile recettore di ciò che intorno a noi avviene, nel mondo prossimo come in quello distante. Questo non significa che ognuno sia in contatto con queste emozioni e sensazioni che lo attraversano; anzi, si potrebbe dire che nella maggior parte dei casi l’Io si difende assumendo un atteggiamento di chiusura a testuggine, specie rispetto a tutto ciò che è scomodo, diverso, difficile da integrare nel proprio pensiero cosciente. Chiuso a testuggine, l’io si dimentica della sua porosità, la rinnega, vive cose che non sa da dove arrivino e cosa significhino, è in balia delle situazioni, inconsapevolmente si esprime per agiti emotivi/pulsionali senza controllo né coscienza: in sostanza reagisce alle difficoltà piuttosto che comprenderle e gestirle. L’io poroso ci espone certo di più, ma nello stesso tempo si allena alla continua trasformazione; solo così, senza chiudersi negandosi all’alterità che sempre incontriamo e che ci viene vicino, possiamo essere recettori sensibili, empatici come, in quanto esseri umani, siamo per natura.[9] La flessibilità e la porosità sono dunque oggi importanti valori da difendere, e il nostro Io è l’unico punto interno psichico capace, con fatica, di mediare e modellare differenti tensioni e direzioni, istinti e ragioni, pensieri ed emozioni.
Questo articolo è apparso in una prima versione più corta su “Il segnale”, n° 113, giugno 2019.
[1] Fernando Pessoa, Il poeta è un fingitore. Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1988.
[2] Dopo il testo poetico. I molti vuoti della teoria, in “Il Verri”, LX, 61, giugno 2016.
[3] Vedi Didier Anzieu, L’io-pelle, a cura di Antonio Verdolin, Roma, Borla, 1987.
[4] Giancarlo Majorino, Torme di tutto, Milano, Mondadori, 2015.
[5] Marina Massenz, Né acqua per le voci, Milano, Dot.com Press, 2018.
[6] Vedi Alain Berthoz, La semplessità, trad. it. di Federica Niola, Torino, Codice, 2018.
[7] In “Il segnale”, XXXIX, 113, giugno 2019, pp. 30-31.
[8] Diversi degli interventi pronunciati al convegno si possono ora leggere in Teoria & poesia, a cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese, Milano, Biblion, 2018.
[9] Vedi Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina, 2006.