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Il catalogo è questo. Sulla mostra “Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica”

Giandomenico Tiepolo, Il ciarlatano, 1756

[Si inaugura oggi la mostra “Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica” al Museo di Capodimonte di Napoli. Pubblico in anteprima il testo di Giuseppe Merlino, tratto dal catalogo della mostra, che uscirà per Electa a cura di Sylvain Bellenger (ottobre 2019). ot]

di Giuseppe Merlino

“J’aime le luxe et la mollesse,
tous les plaisirs, les arts de toute espèce.
La propreté, le goût, les ornements”.
Voltaire, Défense du mondain ou l’apologie du luxe, 1736

 

Quando incomincia il Settecento, al di là della cronologia? Non lo chiedo alla memoria storica, che risponderebbe che il secolo si apre con la Guerra di Successione spagnola e si chiude con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche.
Lo chiedo piuttosto alle scienze umane – come fa questa mostra, Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica che mi forniscono un gran numero di indizi e di segnali. Li cito come vengono dalla mia memoria e poi ne riprenderò qualcuno più a fondo.
Si passa dal fasto del sovrano, che ammalia lo spettatore e lo conferma suddito riconoscente, al lusso che è “il superfluo infine conquistato e consumato con diletto e ostentazione”; la ricchezza, iscritta nel lusso, non è più il simbolo di un mondo ulteriore e invisibile, un’anticipazione di paradiso, ma apre il secolo all’esordio trionfale del consumo: Lussuria, Lusso e Capitalismo (Liebe, Luxus und Kapitalismus) è la triade a cui il sociologo Sombart (1913) attribuisce la nascita del mondo moderno.
Si passa dalla fede nell’anima eterna alla osservazione del corpo sensibile e peribile; la vita quotidiana è la preoccupazione centrale del secolo: si erotizza e si estetizza; niente basta a riempire questa breve durata della vita fisica, il savoirvivre è un obbligo e un miraggio dell’uomo di mondo. L’uomo settecentesco, per intelligenza e per cultura, è un arpenteur, cioè un esploratore-agrimensore-disegnatore-osservatore, che guarda il mondo come una grande proprietà personale da esplorare e conoscere passeggiandovi; innumerevoli sono i repertori, i compendi, le collezioni, le nomenclature, le classificazioni che quel secolo ha prodotto e tramandato per dire che il mondo materiale, mentale e passionale è conoscibile, manipolabile e godibile.
Per il Settecento le collezioni sono figlie della curiosità e della passione possessiva, ma sono anche il modo per affermare che tutto quello che è raccolto e repertoriato – dai minerali alle piante, ai fossili, agli oggetti rari, preziosi o remoti, e fino alle passioni più eccentriche e scabrose (Sade è l’incomparabile collezionista delle posture sessuali) – è significativo, intellegibile, leggibile con l’aiuto, però, di un grande discorso interpretativo; da qui derivano i Discorsi universali, le Teorie ipotetiche, le Genealogie di intere parti del mondo, e le Relazioni delle grandi esplorazioni geografiche e commerciali.
Nella vita quotidiana i piaceri – almeno per le classi privilegiate, un’aristocrazia esautorata e una borghesia nobilitata –, sempre pensati al plurale e mescolati, si alleano con le arti della decorazione, dell’arredo, della moda, della tavola, della chioma e del romanzo.
Il Settecento è un gigantesco cantiere di idee e di esperienze del piacere; l’arte della felicità è una pratica di vita ma è anche l’oggetto di una ricerca intellettuale con trattati e manuali. Un solo esempio: nel Settecento si moltiplicano le costruzioni destinate agli amori non coniugali, si edificano ai margini della città, sono “follie”, “capricci”, e sono concepite secondo un disegno, una pianta, che allude al risveglio e ai progressi del desiderio. Si arriva in un giardino inebriante di profumi, la rivoluzione olfattiva richiede ormai la più lieve fragranza vegetale, poi la sala da pranzo fiorita, dove si festeggia l’appetito evitando l’accumulo barocco delle portate e mostrando la ricchezza con eleganza, poi, il cabinet per il gioco delle carte e per la scrittura di lettere e riflessioni – nel Settecento si scrive molto e con maestria –, e la sala della musica, con le sue gradazioni dal pianissimo al molto allegro, necessaria all’avventura seduttiva. Dopo il gusto e l’olfatto, si celebra l’udito, e alla fine si entra nel boudoir, il soggiorno dell’intimità amorosa e della seduzione riuscita: luci attenuate, penombre lambris che imitano dei tronchi d’albero, e una profusione di mobili suggestivi: ottomane, sultane, duchessese bergères! Lo charme dell’Oriente, unito con quello della grande aristocrazia e dell’idillio pastorale cospirano per sconfiggere la modesta pudicizia. Questi casini di campagna, inventati per sedurre, sono i teatri della schermaglia amorosa, sempre più impaziente e carnale; i comportamenti obbediscono d’istinto a una coreografia dell’agréable; in queste petites maisons si entra già mascherati e istruiti sul proprio ruolo, da recitare con disinvoltura: la devota, la lasciva, l’ipocrita, l’infedele, il marito, il libertino, l’ingenua e l’ingenuo dalla virilità sbrigativa e polimorfa (penso all’irresistibile Cherubino delle Nozze di Figaro!).
In questa mostra napoletana i manichini, superbamente vestiti, che affollano le sale in pose eloquenti, raccontano l’intrinseca teatralità di una cultura della costante rappresentazione di sé, narcisistica e socievole allo stesso tempo, come una compagnia teatrale di grandi commedianti; e la pittura di genere ne ha dato delle incantevoli raffigurazioni. L’etichetta, da liturgia di corte diventa una commedia mondana; non ha più un centro, il re, che la orienti, ma è un ornamento e un’occasione per brillare e trasformare un ostacolo in uno slancio; anche la castità è un ruolo mondano.
Il movimento di fondo e di lunga durata nella cultura settecentesca è quello di costruire un mondo chiuso, volutamente illusionistico, che filtri la vita comune e grossolana lasciando passare solo qualche sprazzo di genio o qualche grande invenzione dell’arte.
La saturazione ornamentale degli spazi del Settecento, fino nella cura esteriore della persona stessa, scrive Jean Starobinski, e l’artificio decorativo – dalla fibbia al giardino, dalla forchetta alla sella e al cannone tutto è ornato, dorato e cesellato – rivelano un tale horror vacui per cui si tende a occupare ogni luogo disponibile e farne la grande scena di una vita deliziosa e quasi irreale.
Riprendo la mia domanda iniziale: quando incomincia il Settecento? E alle cose già dette aggiungerei questa risposta: incomincia quando l’esclamazione “mio Dio!” da invocazione devota diventa il grido soffocato del godimento o dello sfinimento erotici, e quando l’aggettivo “divino” e il verbo “adorare” abbandonano la teologia per dire le infatuazioni mondane.
Incomincia quando i discepoli di Locke e di Condillac studiano il trasformarsi delle sensazioni in idee; e quando Helvétius fa dipendere gli individui interamente dalla loro educazione, e le teorie del clima fondano una duratura psicologia delle Nazioni!
In questo secolo mondano e pedagogico, ma con grazia, il Grand Tour è il completamento del gusto, delle maniere e delle conoscenze da spendere in società, per il giovane uomo di ottima o buona famiglia. Alla fresca e impacciata educazione scolastica, l’esperienza del Grand Tour, direbbe Lord Chesterfield, aggiunge la grazia dei modi, la soavità dell’eloquio, la galanteria ben temperata, la versatilità delle conoscenze e l’educazione al buon gusto; è la nascita del perfetto gentiluomo!
Al centro dell’itinerario europeo del Grand Tour c’è l’Italia e con gli scavi di Ercolano e Pompei (la vita quotidiana della gloriosa Antichità svelata!), ci sarà Napoli.
Le “rovine” sono un gran tema del Settecento. Già utilizzate come fondali pittoreschi nelle pitture di genere, o come monito malinconico nelle Arcadie, nelle Natività come simbolo del transito da un impero profano a un impero celeste, nel XVIII secolo esse prendono nuove funzioni. Da accessori illustri diventano temi di riflessione sull’energia della natura e sulla resistenza dell’opera umana, sulla volontà di potenza del monumento, o sull’arte dell’edificare che nobilita una natura comune e la rende eroica; un discorso sulla caducità e sull’orgoglio profano, sulla vittoria dell’oblio, sul trionfo della natura che riporta l’edificio a materia bruta. Diffuse nelle arti visive, e non solo, le rovine diventano compendi affollati e immaginari delle antichità romane, come nelle acqueforti di rovine nere e crollanti di Piranesi e del suo noir cerveau (Victor Hugo); nel XVIII secolo la contemplazione delle rovine, la loro poetica e la loro malinconia sono state in concorrenza con il pensiero storico moderno che ricostruisce un’immagine verosimile del passato, quel che si guadagna in erudizione si perde per l’immaginazione.
Ma il Settecento non smentisce la sua inclinazione voluttuosa e teatrale; accanto agli esempi eroici e austerissimi dello spietato rigore romano, accade che in pieno Terrore, Vivant Denon, il creatore del Louvre e a lungo attaché nell’ambasciata francese a Napoli, incaricato di disegnare nuove uniformi per la Repubblica, incontra di notte, nelle Tuileries, nell’appartamento che era stato di Maria Antonietta, Robespierre, il grande giacobino, per mostrargli i modelli, e nota che il “mostro” è vestito come un petit maître, indossa un gilet di mussola fine bordato di seta rosa! Dopo Termidoro, la fine della Rivoluzione fu segnalata in anticipo da un ritorno esorbitante ed eccentrico della moda: merveilleuses e i muscadins.
Un uomo di genio disse che la Rivoluzione, in fondo, era stata ilpassaggio dalla seta al cotone.
Prodigioso Settecento!
Non mi sento di chiudere questo ritratto del mio Settecento, riconoscendolo lacunoso e tendenzioso, senza parlare di un quadro amatissimo, Il castello di carte (1741?), di Jean-Baptiste Chardin; vi si vede un adolescente, vestito bene e non agghindato, seduto a un tavolino da gioco rivestito di panno verde, lo stesso colore, più scuro, ritorna nello sfondo e nell’abito, che cerca di costruire un castello di carte.
Tre cose mi colpiscono e contrastano con le idee proposte nelle pagine precedenti: il miracolo del silenzio che nel quadro si vede, di contro al brusio dei salotti; la malinconia di un castello di carte così indifeso e precario; e lo sguardo assorto del ragazzo come se nel gioco riconoscesse una figura del suo destino.
Il Settecento ha avuto le sue malinconie, e tra esse la più insidiosa fu la noia; il secolo “energico” la identificò presto, e l’ha combattuta con un rincaro di dissipazione, come suggeriva Mme du Deffand, e con un incremento di vita febbrile, e di “distrazioni” ininterrotte; ma “troppo piacere non è più piacere” (Voltaire), e la noia ricompare a ogni finale di festa, di luminaria o di orgia, è la fata cattiva.
Il ragazzo dipinto da Chardin racconta solo il presentimento di questa fatalità, ma il filo nero della melancholia si è già mischiato con le trame sontuose del secolo dell’energia gaudente. Si è in attesa di Goya e di Füssli!
E Napoli?
Napoli è la meraviglia e la sorpresa, lo sconcerto e lo stupore del viaggiatore settecentesco. L’arrivo nella più grande e affollata città dell’Europa meridionale è memorabile, gli occhi e il cuore si allargano. Dal mare essa appare lascivamente adagiata lungo la riva del golfo, come un’amante indolente e largamente offerta. Dopo aver attraversato terre di banditi e di paludi, l’orizzonte si spalanca sulla curva accogliente della larga insenatura con i due lembi estremi di Sorrento e di Posillipo posti sotto la protezione “della cuna del Tasso e delle ceneri di Virgilio”; è il panorama che Goethe, giubilante, descrive affacciato dalla casa degli Hamilton.
La natura gioca la sua parte: anfratti, cunicoli, celle, penetrali, caverne di oracoli, di tesori e di talismani (tra le caverne Goethe include i bassi con una sola apertura), cascate con fragore di acque, coste scoscese, orridi burroni, sentieri precipitosi, precipizi abitati, cave gialle di tufo, e gorghi schiumanti tra rocce marine; tutte le grazie e i terrori del mistero e della selvatichezza sono evocati dai viaggiatori, artisti e scrittori. Solo a Napoli si accordano i due aggettivi di “delizioso e sublime”.
La specialità napoletana è doppia: la sua natura è paradisiaca, ma basta girare su se stessi, mutare la prospettiva, e la città diventa infera e sulfurea. Ne siano un esempio il sangue di San Gennaro e le eruzioni del Vesuvio, uniti dal colore rosso, dall’imprevedibile ribollire e dall’uguale potenza profetica; la mancata liquefazione dell’uno e la violenza eruttiva dell’altro annunciano eventi calamitosi per la città, intimamente irretita dai vaticini e dallo scrutinio dei segni, come testimonia la millenaria presenza delle esauste Sibille a Cuma.
Transito fascinoso tra occidente e oriente, Napoli è segnata da contrasti netti; palazzi sontuosi e bande di pitocchi accampati nei cortili; la più bella strada d’Europa invasa da fango e immondizie; paesaggi divini e antri di briganti, nobiltà dei lazzaroni, “principi plebei”, e lazzaronismo del re, febbrilità delle masse popolari e accidia aristocratica.
La conclusione per molti viaggiatori è che a Napoli manchi ogni medio termine, quella “mediocrità” che la borghesia ha nel suo corredo ed è così necessaria alla modernità.
E poi i colori della città: il rosso della lava, della pittura pompeiana, dei tramonti, della luna rossa come “una palla di fuoco lanciata in aria dal Vesuvio”, secondo Chateaubriand, e il rosso dei cibi: pomodori, peperoncini, melograni… L’azzurro, colore mariano e del cielo sacro, consacrato alla rêverie e alla meditazione, colore delle vedute naturali e dipinte, e, poi, mescolato con fili d’argento esalta le toilettes e le tappezzerie. Il viola, infine, la “tinta violetta e lieve che viene dalle nebbie mattutine”; è il colore dei paesaggi visti all’alba, degli orizzonti e delle lontananze, è il colore delle linee di confine tra mare e cielo, e tra mare e monti.
Se i napoletani “non conoscono gli spiccioli dell’emozione” (Stendhal) ma solo il taglio grosso della passione è perché vivono all’ombra del Vesuvio che dispensa distruzione, fertilità e metafore. Lo squarcio geologico delle grotte ha a Napoli tre grotte esemplari, quella smisurata di Posillipo, l’antro pagano della Sibilla e quello cristiano del tempo di Diocleziano. Le grotte sono spettacolari e fatalmente teatrali; così come il golfo è un anfiteatro, genialmente usato dalla Corinna di Mme de Staël, e tutto quello che vive e si agita dentro un anfiteatro naturale è intimamente teatrale. “Il faut rire à Naples”, scriverà Stendhal, e aggiungerei che bisogna anche “piangere” per saper inventare il genere prediletto del tragicomico e della parodia che è un pianto camuffato in riso.
Questa era la Napoli che William Hamilton, viaggiatore-residente e plenipotenziario della Maestà britannica, conosceva bene e vedeva dalle sue case e dal Vesuvio un’altra Napoli, simile a; quella ma non uguale, il personaggio Hamilton la riassume in una pagina del romance di Susan Sontag, The Volcano Lover (1992).
Napoli, dice Hamilton soliloquiando, è la città più grande d’Italia, la più popolosa d’Europa, dopo Parigi, è la capitale delle maggiori catastrofi naturali, è governata da un re indecorosamente plebeo e abitata da folle di imprevidenti e indolenti lazzaroni (la cui fortuna cambierà nel corso del secolo secondo le svolte dell’antropologia: da “buon selvaggio d’Europa” il lazzaro finirà “ultimo selvaggio d’Europa) e da giovani aristocratici ardentemente giacobini. Le strade sono pavimentateda blocchi di lava, a poca distanza si trovano due città romane dissepolte da poco e intatte; il suo Teatro dell’Opera, immenso, offre delizie musicali e voci di castrati, “un prodotto locale di rinomanza internazionale”. L’aristocrazia è avvenente e sessualmente intraprendente, si dissipa in nottate di gioco nei saloni dei palazzi, chiamandole per sbaglio “conversazioni”. Nelle strade la vita brulica, pullula, trabocca e inonda la città. Sembra quasi che l’Hamilton romanzesco anticipi l’idea di questa mostra: le musiche, le plebi attirate da Pulcinella, i fasti del blasone e i trionfi della tavola spettacolare (“allons souper. Que ces brillants services/que ces ragoûts ont pour moi de délices! Qu’un cuisinier est un mortel divin!”;questi versi profetici sono di Voltaire naturalmente), la casa del re, le passioni geologiche e quelle antiquarie, tutti i capitoli della mostra di Capodimonte sono evocati.
Il Cavaliere, come veniva chiamato in omaggio alla sua famiglia ducale, conosceva bene la città dove voleva vivere e soprattutto la guardava dalla giusta distanza per trasformarla in un teatro (“living abroad facilitates treating life as a spectacle”), e in un giacimento di reperti preziosi.
Così fece anche con la giovane moglie, Emma Lyon, che, sposandolo, entrò a far parte della sua leggendaria collezione, nella sezione dei tableaux vivants, e animò i suoi ricevimenti cosmopoliti con le attitudes, pose imitate dalle figure antiche dei vasi o delle pitture, create con pochi accessori e variate con semplici movimenti. A Parigi, Elisabeth Vigée-Lebrun, brava pittrice ed eccellente influencer organizzò in onore dell’Antichità un celebratissimo souper grec, con menu spartano, assai frugale eppure indigesto, ma servito in piatti etruschi da fanciulle vestite alla greca e ascoltando versi anacreontici declamati da monsieur Lebrun, apprezzato poeta minore. A Napoli, la Vigée-Lebrun, émigrée bene accolta, ritraeva le applauditissime posture di Lady Emma: l’Antichità era dovunque!
Hamilton, scrive la Sontag, è un malinconico che si cura collezionando, sa che la sua guerra contro l’oblio e la dispersione delle “cose” è già perduta, ma la consapevolezza della sconfitta finale non scoraggia la sua passione, la incita anzi a un beau geste (anche redditizio): alleando lo sgomento interiore alla frenesia del fare diventa un “malinconico entusiasta” che intreccia le passioni (ragionevoli) e gli interessi (avveduti).
Divagando, e concludendo, vorrei porgere un ultimo complimento al secolo illuminato: la grazia di scrivere come se si discorresse. Il Settecento amò la prosa e la preferì alla poesia, nelle sue prose (prosa da proversus, in avanti!) limpide, precise, disposte alle avventure intellettuali, confluì tutto: dalla dissertazione alla dichiarazione d’amore, dal potin alla pornografia. Diderot, elogiando il napoletano abate Galiani e i suoi Dialoghi sopra il commercio dei grani, osserva che l’abate scrive come se stesse chiacchierando seduto su un canapè, con il garbo e la cordialità di una causerie serale; giammai l’abate si esprimerebbe come da uno scranno dell’Accademia. E l’argomento non era da poco: masse sempre più numerose, affamate, prezzi delle granaglie al rialzo, accaparramenti, saccheggi, furori, Rivoluzione!
Qui concludo, e come il bellissimo Ciarlatano di Tiepolo (1756, oggi a Barcellona), vorrei vendere ai lettori un tesoro a pochi soldi: la Napoli musicale, teatrale, regale, vesuviana, nobile e misera, erudita e analfabeta, plebea e internazionale, minacciata e sopravvissuta, decrepita e in fiore, si è rifugiata nel palazzo del re per mostrarvi quel che resta di quel che fu.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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