Overbooking: Carla Stroppa
Note su Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà
di
Lucio Saviani
“La nostra sovrannaturalità domestica”: così Vladimir Jankélévitch chiamava l’anima.
La cura domestica dell’anima è amore per ciò che è impossibile da possedere. Impossibile entrare in possesso dell’incomparabile superlativo, di ciò che è accessibile soltanto in un fulmineo punto di tangenza, una sconosciuta apparenza, come tutto ciò che non è di casa. Addomesticare l’ignoto, non per dominarlo ma per renderlo familiare, di casa, cioè accoglierlo: l’anima prepara la domus per tale accoglienza.
Su quella soglia si toccano senza trattenersi “il Quaggiù e l’Ulteriore”; a questo imprevedibile, subitaneo incontro la cura domestica dell’anima ci prepara. Ad accogliere la straniera iniziativa per la quale noi abitiamo come destinazione e provenienza.
“Tutto ciò che è significativo avviene, nella maggior parte dei casi, o attraverso un sogno o ‘in un sonno leggero’ o infine in coloro che subitaneamente si trovano staccati dalla coscienza della realtà esterna. (…) Un urto potente alla nostra persona, che ci strappi a noi stessi di colpo, o il vacillare, la ‘crepuscolarità’ d’una coscienza sempre errante al confine dei mondi…”. Potente è la consonanza di questa pagina di Le porte regali di Pavel Florenskij con l’idea di “sovrannaturalità domestica” in Jankélévitch. E alla forza imperiosa di questo subitaneo “urto potente” rinvia la lettura di Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà, l’ultimo libro di Carla Stroppa, da poco pubblicato da Moretti & Vitali.
Viene a compimento in queste pagine un percorso di analisi e di riflessioni che chiamerei “trilogia della soglia”. Il libro si lega in un rapporto di rimandi, riprese, premesse e finali approdi ai precedenti Il doppio sguardo di Sofia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura, del 2016, (vi leggiamo, a pagina 34: “Si dovrebbe scrivere un libro apposito sulla soglia sottile che divide la ragione dal sogno, o meglio li intreccia al di là di ogni “ragionevole illusione” di controllo (…) Hermes, il divino mediatore tra le altezze dello spirito e le valli dell’anima, trapassa i muri, il tempo e lo spazio”) e Fantasmi all’opera. L’imperiosa realtà dell’illusione, del 2013, (“Qualcosa, spesso un evento traumatico, ma talvolta il semplice fluire del tempo che incide sul corpo e sull’anima i segni della sua signoria, interrompe il filo di continuità che aveva legato alla vita.
Il senso della propria identità e la prospettiva del futuro si confondono, si annientano persino e la coscienza entra in uno stato di liminalità, di pericolosa confusione. In questa dimensione psichica si animano i fantasmi del mondo interiore”. Pag. 124).
I precorsi tracciati dai tre studi convergono e si incrociano su di un concetto chiave, la soglia, che dà anche accesso alle pagine del libro che chiude la trilogia.
Una soglia, diceva Genette, non può che essere attraversata. Essa ha luogo quando nulla ha luogo o accade, quando nulla è presente. La soglia fa presente, introduce e separa allo stesso tempo, e al tempo stesso è quella zona indecisa in cui la presenza si permea incessantemente del suo contrario; la soglia ‘fa presente’ la prossimità e la distanza, la similarità e la differenza, l’interiorità e l’esteriorità: confonde il dentro e il fuori lasciando entrare l’esterno e uscire l’interno, separandoli e unendoli. Come ogni limite, la soglia è il luogo di un paradosso: divide e unisce allo stesso tempo, attraversata da un solo gesto.
Varcando una soglia, un limen, talvolta ci si può ritrovare in una dimensione straniante, non domestica e di non dominio, “strappati a noi stessi di colpo”, come scrive Florenskij, in uno “stato di liminalità, di pericolosa confusione” come ci avverte Carla Stroppa, ossia come varcando la soglia di un labirinto.
Ma il libro di Carla Stroppa sta a ricordarci che anche il Labirinto fu una casa. E queste pagine sono un attraversare continuo (da sogni a libri, da sedute analitiche ad analisi di opere d’arte). Sulla porta di accesso di questo labirinto di sentieri, poste in alto come titolo di un libro, ci sono due termini-chiave: “casa” e “abitare”.
“Certo, lo sappiamo: la casa è figura dell’eterna tensione umana ad avere un rifugio accogliente e nello stesso tempo è figura della paura di rimanerne prigionieri. In questo senso la casa è immagine della soglia fra il dentro e il fuori. Varcandola si può guardare dentro e venire a conoscenza di angoli e pertugi insospettati che nascondono cose importanti. Allora si può decidere di entrare e di esplorarli questi spazi in ombra e ancora sconosciuti; viceversa se si è già dentro, varcando la soglia si può vedere là fuori la scena del mondo e decidere di uscire per prenderne parte” (pag. 15).
All’origine della parola “casa” c’è l’immagine di un luogo coperto, come di una capanna (in greco, kasa), o di una pelle( kas) o anche di ciò che copre come un’ombra( skià), che dà riparo come in un castrum, sotto un elmo (cassis) o sotto il cappuccio di una casula. Un dimorare al coperto è dunque l’habitare, ossia continuare ad avere (habēre) consuetudine con tale abituale dimora. Ma è una dimora in cui “Ci si può perdere sia rimanendo sempre dentro che cercando sempre fuori e sia dentro che fuori ci si può salvare” (pag. 16).
E’ materia “porosa” per essenza, quella della casa: materia che lascia attraversare, entrare, uscire, respirare e intravedere: “La casa è certo una realtà di muro, di ferro, di legno, di vetro e quant’altro ha a che fare con la materia. E’ un luogo preciso dove avvengono cose precise delimitate dal tempo. Dallo spazio e dal fare concreto della quotidianità. E’ così, tuttavia è anche un’idea, un’immagine, un desiderio (…) Con l’impalpabile tocco dell’invisibile la fantasia che aleggia attorno e attraverso la casa risveglia la “trascendenza immanente” (Karl Jaspers) delle cose e allora accade che il muro, il ferro, il legno, il vetro e la materia lasciano intravedere il loro oltre” (pag. 17). Ecco il tocco, il “fulmineo punto di tangenza” (Jankélévitch) e il varco alla “‘crepuscolarità’ d’una coscienza sempre errante al confine dei mondi” (Florenskij) aperto dalla soglia su cui ci conduce la riflessione di Carla Stroppa.
Come per la soglia di Genette, per la crepuscolarità di Florenskij e la domestica sovrannaturalità di Jankélévitch così, nei labirintici percorsi del libro di Carla Stroppa (e della trilogia che esso chiude) anche il sogno è un continuo attraversamento. Nel sogno si è alle prese con lo sfuggente, reciproco attraversamento di reale e irreale, con incursioni a sorpresa tra il visibile e l’invisibile, in cui realtà e apparenza, scoprendosi parti di un medesimo opaco, labirintico genere, si compenetrano e trapassano l’uno nell’altro. Per tutto ciò, “il sogno è costitutivamente mercuriale”, scrive Carla Stroppa (pag. 93). Ed è infatti grazie ad Hermes, “il divino mediatore tra le altezze dello spirito e le valli dell’anima”, che il sogno ha a che fare con gli scambi, gli spostamenti, le censure, i trucchi, i mascheramenti. Ma il sogno ha a che fare anche con l’iperbole (Cartesio), il dubbio (Amleto) e la vita (Calderon de la Barca). Il Seicento, il lungo secolo del dubbio e del sogno, è molto presente nelle pagine di Carla Stroppa, assai più che il Novecento dei ricorrenti e appariscenti surrealismi. E’ invece il Novecento del “possibile”, più nascosto e inapparente, che Stroppa porta in superficie ricorrendo al Musil di L’uomo senza qualità. Anche qui, puntualmente, nei pressi di una porta e di una soglia di casa: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima (…) è semplicemente un postulato del senso di realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Così il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è” (pag. 156-7).
Io credo che sia questo “senso della possibilità” la guida, sotto il nome e le sembianze di Eros, del percorso tracciato da Sulla soglia di casa e dall’intera “trilogia della soglia” di Carla Stroppa. Eros “è senza casa”, viene detto nel Simposio a Socrate, che non era quasi mai a casa. Sempre nel Simposio Eros è detto essere filo-sofo, in quanto figlio della mancanza (Penìa) e dello stratagemma (Poros). Proprio perché è senza casa, la sua strada è “fare” il possibile.
Il lento lavoro dell’addomesticamento dell’ignoto, del “fare casa” è il lavoro del discorso filosofico, che all’irruzione dell’estraneo, dello strano, dello straniero, fa seguire una inedita familiarità, un “sentirsi a casa”. Proprio perché familiarizza con l’inedito, lo accoglie e lo ascolta, la filosofia nasce dalla meraviglia e vive poi del sentirsi fuori luogo nel mondo dell’ovvio e dell’abituale.