Il trattamento della marea – primo movimento
di Chiara De Caprio
Alla fine di ogni giorno fortunato
ricorda che il fuoco e il ghiaccio
sono a un passo soltanto
dalla città temperata […].
Ma se tu fallissi […],
ringrazia l’aspro trattamento della marea
per la dissoluzione del tuo orgoglio
poiché la tromba d’aria può assoggettare il tuo volere
e il diluvio rilasciarlo per trovare
la primavera nel deserto, l’isola
fruttifera nel mare, dove il corpo e la mente
vengono liberati dalla sfiducia.
(W.H. Auden)
0.
In fisica quantistica il valore di una grandezza osservabile di una specifica particella in un certo stato quantico non è definito prima di effettuare una misura. Tuttavia, quando si effettua una misura su una delle particelle di uno stato entagled, questo determina istantaneamente anche i valori delle grandezze osservabili di tutte le altre particelle, per quanto lontane: la cosiddetta non-località quantistica. Questa “interazione a distanza” è nota col termine inglese entaglement e viene descritta anche come azione fantasma a distanza (spooky action at distance).
Movimento d’ingresso
I
[Sonoro: Anthony and the Johnson, My Lady Story]
(a). 1. [si rifiuta di distinguere]
va incontro all’invito di sua cugina, il fisico quantistico; va a Nizza. Mentre le insegne dell’aeroporto si fanno via via meno sfocate, prova a comprendere le proprietà corpuscolari della luce di cui le parlava: un movimento i cui effetti perdurano nello spazio
la sospinge, il caldo, sotto la volta della sala d’attesa. Con trattenuta apprensione supera l’indolenza di una fila; forse, si rifiuta di distinguere fra battuta d’arresto e catastrofe. Nell’eseguire i gesti del controllo-valigie, se ne sente, di nuovo, assediata: un’infinità di dettagli, in cui si fa liquida la sua protratta osservazione di ogni incidenza, in cui si riaccostano i lembi di ciò che si strappa
sfila stivali lunghi fino al ginocchio; a lei tocca, come addetto, una donna in corpo di uomo, alta e decisa nella sua metamorfosi; mascara e matita nera, orecchini su lobi un po’ cascanti, un liscio mogano ad incorniciare il volto: asciutto, graffiato e benevolo. Le riconsegna gli anelli; accompagna il gesto con una frase che è il bisbiglio con il quale viene pronunciata, quasi una canzone, nel falsetto della sua voce: Oh, miss, beautiful rings
la punge il freddo della montatura d’argento, quella carne di entrambi i sessi che per un attimo la sfiora. Il tocco imprevisto la sbalza verso ciò che le è interdetto, e la fa poi ridiscendere lungo la materia che lei lambisce e afferra meccanicamente; una routine di contatti ordinari e ammissibili, che disegnano i confini della giurisdizione sotto cui ricade il corpo: ciò che lo accetta, sopporta, e accoglie
sosterebbe ancora davanti alla sua (S)he: Oh lady, your story. Are you a bride on fire or twisted into a starve of wire? Ma già altre voci, meno dotate di grazia e articolazioni interne, chiedono di avanzare nella fila: Madame, please, please. Si chiude lo spazio per lo sguardo, tra decine di altri: che tornano a infilare cinture nei passanti allentati, impugnare saldamente guinzagli, tastare cinghie di museruole; una rete di disciplinamento e comunicazione controllata le cui linee le si conficcano fra gola e inguine, lievi e taglienti
intravede il gate; come promettono le insegne, il volo per Nizza
(b). 1. [come promettono le insegne]
Accanto, sull’autobus una coppia con bambina. Non saprei dire quando ho pensato che no, non erano qui in vacanza. Certo prima di mettere a fuoco lei, la bimba, forse nemmeno sette anni, che sedeva sul sedile opposto al mio, dall’altro lato. Lei, la sua eccezionalità: che, nel linguaggio ordinario, avrebbe il nome di ciò che è deforme. Ma, prima, prima di lei, era forse quell’aria compita e spaesata di chi la guidava: i volti, nel fondo, privi di gioia, ma anche fissi in una loro misura assorta. Così, quando chiedono della fermata dell’ospedale, è solo una conferma. E la gentilezza con cui rispondo loro, ai miei stessi occhi, nel rimbombo interno della mia voce, non è che una forma inefficace del senso della mia differenza, e della mia consapevolezza.
(Perché qui, e non lì, ora, sembra perfino una domanda mal posta: è il tuo turno, affrettati, fai il tuo gioco. Il banco, lo sai, vince sempre).
Si ferma l’autobus e nel vetro si riflette una bimba riccia e scattante: i bracciali in legno, la treccina colorata, la pelle scura del sole di luglio. Resisto, ora, a sentire oltraggiosa la forma che tiene, la bellezza che resiste, ancora.
Scendo, dietro di lei. Dietro di me, si chiudono le porte: mi consegnano alla mia strada, all’indirizzo che cerco.
I rumori e la luce di Nizza sono già qui, il sole che mi spezza il fiato, il mare che non vedo; ma sarà azzurro come promettono le insegne.
(b) 2. [di lì non c’è altro spazio]
Ci sorprende la pioggia, mentre provo ad avere ragione della Promenade: la folla di bici e pedoni, oggi sereni; la serie azzurra delle sedie verso cui le bambine corrono, la linea di grigio che ora è il mare, i bagnanti che si attardano ai bordi, sui ciottoli e sul bagnasciuga.
Arriva sempre più distinto il suono dei megafoni e la musica degli altoparlanti. Leggo le scritte sulle bandiere arcobaleno, gli slogan pieni di movimento e autodeterminazione: PMA pour toutes; Pas de fierté pour nos frontières. Le frontiere come i corpi, i corpi come le frontiere: come se lo spazio primo e nostro di cui siamo fatti non sia che un sottoinsieme di quello più vasto che pure ci delimita. Li osservo meglio, mentre procedono sotto un ampio tendone multicolore, ornato di palloncini rossi, arancioni, gialli, verdi, blu, e viola. Distinguo slip azzurri, chiome rosa ed altre argentate, splendide ali avorio ad ornamento di un body e di un paio di stivali bianchi; “e lei chi è?” mi chiede M., sorridendomi: vuole entrare nella parata, seguirne la scia, ballare. Ci investe l’ebbrezza gioiosa e un po’ dimentica della musica. Seguiamo il ritmo, ridiamo.
(Mi dico che, quasi prima del pensiero, è il sensorio, questo qui-ed-ora, a farmi stare fra loro e con loro, in una Nizza che sembra ora sovrapporre categorie e far saltare distinzioni).
Una scritta luminosa, in alto a sinistra, avvisa gli automobilisti che la Promenade è chiusa al traffico, le transenne a delimitare gli spazi. Alcuni scrutano dai balconi e dalle finestre semiaperte. Torno a guardarmi intorno; quasi per caso mi volto indietro: due uomini in tuta gialla si incaricano di far sparire i coriandoli e di pulire il manto stradale, man mano che la Pink Parade avanza. Davanti, altre transenne e direzioni di scorrimento predeterminate: di lì non c’è altro spazio.
Esito. Mi domando quali siano le possibilità di conoscenza e gioia di un movimento che abbia una così rigida modalità di esecuzione e un percorso vincolato dall’esterno: se sia ancora, questa, una protesta, una richiesta, o almeno una ricerca.
Una voce mi chiama; mi giro di scatto, sottratta all’indagine. Avanzo fra due manifestanti e, infine, rientro nella parade: quasi come un tuffo.
(a). 2. [a fatica individua margini]
troppo rapidi i suoi movimenti sotto la cupola del centro commerciale. Pure riesce a schivare un trolley e il suo proprietario, e il cagnolino invadente che già le lecca le caviglie. Tocca, col suo piegarsi istintivo, la fibbia che non ha ceduto sotto le unghie dell’animale, poi il punto del sandalo che teme umido
procede; registra la sommergente marea di ineffabili gaudi e incomunicabili paradisi privati: vetrine di corpi in plastica, cabine per prove d’abiti, volute di borse a basso costo, trionfi di profumi e creme, cascate di lingerie per notti fatali, cimiteri di peluche per la solitudine del giorno dopo
avanza. Avanza in un’irrelata successione di forme e funzioni fra le quali, ora, il sensorio istituisce collegamenti, forse legami e genealogie: il cuscino reggi-spalla per sonni ristoratori, le cuffie da musica nell’ultima illusione on-the-air, gli slip in offerta per essere caldi e puliti; che, se il corpo non è proprio una poltiglia, bene gli slip à la page, dopo uno schianto o un ammarraggio in un oceano total black
torna indietro, dinanzi a una fila di specchi; di lì non c’è altro spazio, solo la serie della sua immagine che si ripete di fronte a lei. Distoglie lo sguardo: come se fra la detentrice di quella forma e quei frammenti moltiplicati non esistesse alcun rapporto
eppure, quasi di sghembo, le appare una figura al confine col mondo vegetale e animale: una medusa, o una di quelle creature luminescenti che solcano gli abissi. Si sforza; ma è impossibile comprendere la carne quando resta nuda: la natura del proprio sguardo senza gli altri uomini intorno. A fatica individua margini nel grigio-pietra dei suoi occhi moltiplicati
una voce la chiama; si volta: quasi sottratta all’indagine