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Undici. I miei anni allora

di Federica Rigliani

Trascorsi la ricreazione in bagno. Tornata in classe non mi mossi dal posto e non andai alla lavagna quando la maestra me lo chiese, aspettavo la campanella di uscita e ogni tanto scostavo il grembiule per sbirciare tra le gambe. Alla fine suonò, ma non feci la fila con i compagni, temevo di alzarmi. Rimasi sola, strinsi con un nodo le maniche della felpa sui fianchi e guardai la seduta. Era pulita.

– Siamo a pranzo da nonna – disse mia madre fuori dalla scuola.
– Per favore, andiamo a casa – risposi.

Con un cenno brusco mi invitò a chiudere lo sportello della Renault e a non fare la solita. Io, così brava a rovinarle le giornate. Canticchiava fissando la strada, fuori tutto correva e dentro la musica era alta. Quando mi costrinse a tirare su il finestrino perché l’aria non le spettinasse la messa in piega, mi sentii morire. Avrei dovuto raccontarle del fastidio bagnato tra le gambe e di quell’odore che non riconoscevo. Per bisogno, non per confidenza. Ma la nostra normalità non me lo permise.

Non siamo mai state amiche, noi.

Il nostro è un legame obbligato che è così poca cosa…

Indifferente ai miei segreti di bambina, mia madre ha ascoltato la mia vita con distacco tra una faccenda e l’altra. Era interessata solo a mio fratello, il primogenito capace di accenderle lo sguardo senza far niente. A quarant’anni sono ancora nulla rispetto a Sandro, il figlio maschio che ai suoi occhi ha sempre avuto ragione.

Come il giorno che portammo il tavolo della cucina, le sedie e la cassapanca. Di anni ne avevo cinque e non ci eravamo ancora trasferiti; le stanze erano vuote, le pareti fresche di pittura, i pavimenti sporchi di tempera. Quando mia madre mi rimproverò per aver gettato il cappottino a terra, io glielo dissi che era stato lui. Sandro negò. Allora lei mi mise in piedi su una sedia, altezza sguardo, e le rughe di espressione le si strinsero intorno agli occhi come artigli.

– Perché non dici la verità?
– Non sono stata io.

Tante volte me lo chiese. Tante volte risposi la stessa cosa.

Ad ogni risposta uno schiaffo, prima la guancia destra, poi la sinistra.

Non sono stata io, ripetei fin quando mi voltò le spalle dopo l’ultima sberla. Solo allora le mie guance roventi si bagnarono.

Nonna aveva apparecchiato in salone con il servizio bianco dal bordo rosso, nelle scodelle la lasagna era gialla, rossa e fumante. C’erano zia Anita con il marito e la famiglia di zia Adelaide, i suoi due figli adolescenti erano gli unici cugini maschi che avevo.

– Vado a lavarmi le mani – dissi.

Raggiungere il bagno e provare sollievo fu tutt’uno. Dopo aver poggiato felpa e grembiule sul lavandino, cercai l’equilibrio sul bordo vasca con la maglia sollevata. Guardare i miei seni allo specchio non suggeriva cambiamenti, erano piccoli bottoni di carne uguali a sempre. La novità ce l’avevo dentro al naso e tra le gambe: abbassando i pantaloni mi raggiunse un odore di ferro arrugginito, forte da farmi scostare il viso; guardando le mutandine ebbi la certezza che la carta igienica non bastava più. Dovevo chiamare mia madre.

Pensavo a come dirglielo mentre ascoltavo i suoi tacchi avvicinarsi. Quando smisero di picchiettare sul pavimento, la maniglia si abbassò. Trattenni il respiro.

– Mamma… io…
– Che hai ricombinato?

Non ricordo cosa dissi. Ricordo un gridolino, la sua stretta, le mie braccia lungo i fianchi, l’imbarazzo mentre mi tirava giù la cerniera e subito dopo il fastidio dell’ovatta.

– Mi porti a casa?
– Più tardi. Ora dobbiamo festeggiare.

Non feci in tempo a dirle di non parlarne con nessuno, che sentii il cuore battere nel polso stretto intorno alla sua mano mentre mi trascinava in corridoio.

– È diventata signorina! È diventata signorina!

Trovai mio padre e mio fratello in salone. Gli adulti alzarono i bicchieri e nonna mi invitò a sedermi a capotavola. Mi umiliò sentirla dire a mia madre adesso devi controllarla e mi sentii alla gogna quando vidi Sandro e i miei cugini parlarsi all’orecchio, proteggevano la bocca con la mano sotto sguardi beffardi. Fu allora che cominciai a vorticare immobile al centro della stanza mentre le parole arrivavano deformate in echi sovrapposti: è un grande momento, sostenevano tutte, sei una donna ora, potrai diventare mamma, ripetevano tra congratulazioni e abbracci.

Ero terrorizzata dal pensiero che si avvertisse il mio odore estraneo e tenevo i movimenti stretti per non muovere l’aria, mentre loro srotolavano il futuro sul mio presente paralizzato.

Ora grido. Ricordo che lo pensai mentre prendevo posto. Mi trattenni.

Assaggiai il primo, il secondo rimase nel piatto.

Da allora il nostro rapporto obbligato è rimasto ben poca cosa.

Ho provato più volte a raccontarle quanto mi mortificò, non ci sono mai riuscita. Le sedute dallo psicologo mi hanno aiutata a superare criticità, trovare un equilibrio nel mio essere donna e mamma, comprendere qualcosa di lei. Non era l’assenza di bene a muoverla, era l’orgoglio per il maschio. Lo vedo da come tratta i miei figli: indifferente con Francesca, attenta con Giorgio.

Oggi io e Francesca siamo sedute a un tavolo nella veranda di un piccolo ristorante, sulla piazza dietro casa. Le tovaglie sono a scacchi rossi e bianchi e al centro c’è un vasetto con fiori primaverili.

I bicchieri di spumante hanno fatto tic, per lei solo un sorso. È piccola la mia bambina, ma dovevamo brindare. Frequenta la prima media e oggi è tornata a casa con un grande sorriso e la felpa annodata al punto vita. Per il disagio dello spessore, ha detto, pensava si vedesse l’ingombro tra le gambe. Ha stretto la sua mano intorno al mio polso e mi ha trascinata in bagno sussurrandomi:

– Vieni, mamma. Corri…

Era successo tutto come pensava, tutto come le avevo detto, e tenere per tanti mesi un assorbente nella tasca interna dello zaino era stata una genialata. Questo mi ha confidato.

L’ho guardata con gli occhi lucidi, l’ho risentita sulla pancia quando me l’hanno data la prima volta e avevo paura di toccarla. L’ho vista adulta. L’ho vista andar via. E ho pianto.

Ha appena ordinato una lasagna la mia piccola donna. Io pasta con le vongole.

Io la lasagna da allora non l’ho più mangiata.

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25 Commenti

  1. Donna:i dadi della biologia lo decidono. Si viene alla luce così, per caso. Federica Rigliani ce lo staglia davanti il complesso groviglio della femminilità. Le sue parole sono carne viva.Leggi tutto, senza riprendere fiato, incalzato dalla vita pulsante dei suoi personaggi . É un capogiro!
    All’improvviso respiri e lasci le storie al sicuro, lì dove lei te le ha fatte incontrare.
    Addosso il loro odore e lo squarcio che lasciano tra pensieri addomesticati te lo porterai a lungo.

  2. Proprio un bel racconto secondo me… intriso di forza e melanconia, speranza e riscossa. In pochi caratteri hai affrontato diversi temi profondi e importanti e l’hai fatto con il tatto di una scrittura gentile, sicuramente femminile in questo senso, ossia dove lo stile narrativo rispecchia appieno il contenuto.

    Femminilità e femminile è la parola d’ordine, il leitmotiv di tutto il racconto, ma il termine “sfaccettature” è la ramificazione in cui tale argomento si scompone.
    Non solo dunque un’unica direzione, ma diversi mondi e modi di essere si scontrano per conflitto (e nel caso portante della trama direi “a specchio”) in questo racconto.

    La fanciullezza o l’innocenza sono un Davide che sconfigge il Golia dell’età adulta, spersa nell’indifferenza verso il prossimo e il suo sentire interiore, frivola o leggera; laddove la noncuranza può essere fonte di ferite interiori.

    Il momento iniziatico per eccellenza, ossia il passaggio dall’infanzia all’età adulta, che si svolge durante l’adolescenza, qui diventa emblema e catarsi di un narrare psicologico capace di affondare, riga dopo rifà, sempre più nell’inconscio dei personaggi e per loro tramite in quello del lettore.

    Difficile dunque, rimanere impassibili, soprattutto nel finale, dove mi sono commosso.
    Un racconto ben scritto, dallo stile deciso e impeccabile, pulito e senza sbavature. Una storia che non si esaurisce solo nel suo argomento portante, ma che apre o può aprire a diverse riflessioni di carattere più generale e universale; prima fra tutte – ripeto – l’importanza di saper pesare le proprie azioni e comportamenti che, se ponderata con più tatto, a mio avviso ci renderebbe tutto un po’ più umani.

    Ed ecco che questo racconto mi ha colpito più di tutto per questo: per la sua umanità, ossia il silente grido – che in ognuno di noi scorre – di appartenere tutti allo stesso genere, fatto di salde corazze ma anche, come questo racconto mette bene in mostra, di fragilità.

    I miei migliori complimenti all’autrice e a voi di Nazione Indiana che pubblicate sempre bei racconti!

  3. Quanto di più femminile. C’è una prima volta, prima della classica prima volta.
    Noi maschi forse l’abbiamo sempre rimossa. O relegata nei dialoghi: “Fai il bagno?” “No, ho le mie cose”, o come motivazione di più intimi dinieghi (oltre al male di testa).
    Il racconto ce la fa scoprire in modo intimo e struggente.
    Brava.

  4. A me piacciono le donne di Federica, perchè sono donne con i piedi piantati per terra, donne forti che sono un po’ anche uomini (così come spesso gli uomini sarebbero un po’ anche donne se non si facessero tutte quelle paranoie sulla virilità), donne con un corpo che non è più un’icona da mostrare, ma è fonte di odori, di sensazioni, di piacere anche, e di dolore spesso. Le donne di Federica sono donne di sostanza che però non cessano mai di essere bambine e adulte contemporaneamente e lo fanno con la consapevolezza che essere bambini non è mai una dimensione temporale superata e nemmeno da superare, perché non ci si libera mai del bambino che siamo stati, in nessun momento della vita. Le donne di Federica, infine, sanno infondere tutte le qualità che ho elencato nei racconti di cui sono protagoniste, nelle storie che Federica scrive per noi. Complimenti.

  5. Descrizione perfetta di quegli attimi che si trasformano in ricordi idebeli! Come sempre chi legge ha occhi curiosi fino alla fine!!!

  6. Brava Federica, leggo i tuoi racconti e i personaggi li identifico a persone a me familiari …. riesco a dare volto alle tue emozioni, e fare della tua storia una mia storia. Rimango male quando finisce perché vorrei continuare e continuare …. A leggere.

  7. Cara Federica, sensibile e attenta. I tuoi racconti sono così coinvolgenti …. vorrei non finissero mai. complimenti…. e grazie per questa storia che ricorda il passaggio dalla fanciullezza all’essere “GRANDE” cime si diceva una volta. sei fantastica.

  8. Le donne di Federica sono tutte le donne del mondo. Bambine, adolescenti, adulte, madri, nonne, sole o in coppia (o le due cose insieme), forti, disperate, dolci, timide, libere, pazze, dritte o fuori di testa. Si battono per il principio e cadono per una cazzata. Però restano sempre lì. E ti guardano. Ti entrano dentro e ci restano. Anche “loro” le guardano. Quelli che non sanno vedere. Puttane tornate a casa vostra! Aspettatemi voglio venire anche io!

  9. Bel racconto, lo si legge vogliosi di arrivare alla fine e amareggiati una volta giunti al traguardo per la certezza che è finito……..
    Per me lettura toccante per tanti motivi ma di questo alla prima occasione ne parleremo insieme magari davanti ad un bicchiere di buon vino

  10. La donna di Federica è tante donne. Ognuna è diversa ma ognuna è uguale. Nessuno si è preso la briga di spiegarle che nascere uomo o donna non è lo stesso. Anche se lei ci crede ancora. Così un giorno è una bambina e il giorno dopo una preda, un giorno una vergine, un giorno una puttana. La donna di Federica non ci pensa proprio a capitolare. Una puttana guida navi spaccaghiacci e salva esseri umani che sprofondano mentre qualcuno ringrazia la vergine che secondo lui lo sta guidando. Anche a lui non hanno spiegato che quella puttana e quella vergine sono la stessa cosa. Federica si. Lei lo sa. Tutte le sue donne lo sanno. Grazie.

  11. Bellissimo perché essenziale, malinconico, rarefatto. Sei riuscita benissimo a raccontare il passaggio, la perdita e innocenza come consapevolezza dolorosa. Sento il sapore, L odore, L atmosfera della tua storia. Mi ha commosso soprattutto nella fine e mi ha fatto ricordare le sensazioni della mia prima adolescenza. Grazie

  12. Ciao Federica,

    con il tuo racconto metti a confronto due generazioni genitoriali e lo fai sottovoce, con uno stile delicato, ma incisivo.

    Ci racconti di un trauma con la t minuscola, ma che nella mente di un bambino assume proporzioni enormi.
    Non sempre gli adolescenti riescono a elaborare eventi traumatici e quando ciò non avviene, la ferita, apparentemente rimarginata, può riaprirsi. La protagonista lo scopre a sue spese nel tempo: non riesce, infatti, pur avendone la necessità, a confidare alla madre il proprio disagio e innalza un muro che demolisce solo quando diventa madre a sua volta.
    Intraprende un percorso per essere aiutata a diventare amica e complice di sua figlia, ma al contempo vuole capire, sapere, e sviluppa una resilienza importante che le permetterà, infine, di guardare oltre e non voltarsi più.

    Davvero un bel racconto. Complimenti!

  13. Il rapporto discriminante e privilegiato tra madre e figlio maschio viene rappresentato e filtrato in filigrana, nel racconto di Federica Rigliani, attraverso il comportamento della madre nel momento topico della maturazione fisiologica della figlia che quest’ultima avrebbe voluto rimanesse una comunicazione esclusiva e privata intercorsa tra lei stessa e la madre nel rispetto dell’intimità, della riservatezza e della condivisione al femminile.
    Al contrario, attraverso il comportamento insensibile e superficiale materno, esso diviene immediatamente evento di dominio pubblico, ponendo la comunicazione tra madre e figlia sullo stesso piano delle altre e quindi alla stregua di una normale conversazione da salotto.
    Da parte materna, in sostanza, viene rimarcato così come siano differenti per lei e appartenenti a piani semantici distinti e altri nel loro vissuto emotivo, nella loro riflessione ed elaborazione razionale e nel loro valore intrinseco il rapporto madre-figlio maschio rispetto a quello madre figlia femmina.
    E’ chiaro altresì come ciò apra una cesura profonda e una ferita irrisarcibile tra la madre e la figlia che nemmeno un trattamento psicologico è capace di risanare.
    Per la madre anche il momento delicato e fondamentale nella vita della figlia che ne connota la stessa femminilità va immediatamente reso di pubblico dominio, violando così il nesso dirimente che dovrebbe connotare la relazione unica ed esclusiva tra madre-figlia che comporterebbe e renderebbe implicito che alcuni eventi fondamentali rimanessero segreti e sconosciuti a tutti gli altri, costituendo un acme o il punto di maggiore intensità emotiva, psicologica e di appartenenza al genere che può rientrare solo come comunicazione all’interno di un rapporto unico di fiducia, di protezione come di difesa e di intesa quale dovrebbe essere quello di una madre con la figlia.
    La conclusione del racconto risulta emblematica perché segna e sancisce nettamente la presa di distanza anni luce nell’essere madre tra le due donne e l’agire completamente differente verso la propria rispettiva figlia.
    Accade così che il tradimento umiliante da parte della madre subito e mai superato dalla figlia non venga ripetuto, bensì a quel fondamentale passaggio che caratterizza la femminilità la figlia divenuta a sua volta madre attenta, sensibile e consapevole prepara gradualmente la figlia in modo che la stessa possa affrontarlo con equilibrio e serenità e non viverlo come un trauma, paventando una malattia o comunque come qualcosa di pericoloso, strano e che le provoca disagio. Come, allora, non apprezzare fino in fondo e gratificare Federica Rigliani del suo indubbio talento narrativo come pure delle sue capacità di scandaglio pur nella brevità intrinseca del racconto?

  14. Racconto molto bello, nella sua delicatezza dice molte cose della bambina che diventa adulta e del rapporto con la madre.

  15. I riti di passaggio all’età adulta, nelle culture primitive, erano un momento sacro che tutta la comunità viveva con rispetto.
    Nel mondo moderno non esistono più queste prove, a volte estreme, di coraggio e abilità per gli uomini, ma nella donna la prova di ingresso per l’età adulta è rimasta. Si tratta di quel momento in cui il suo organismo la dichiara fertile a tutti gli effetti. Per una ragazzina, che della vita adulta ha solo una vaga idea, è un momento sacro esattamente come gli antichi rituali primitivi. La madre che viola tale momento con superficiale ciarleria e non sa farsi carico del passaggio di testimone di cui dovrebbe essere maestra, non può che dare un vuoto senso di solitudine e fragilità in una figlia che avrebbe bisogno di lei.
    Federica ha saputo dipingere questo difficile momento con grande maestria, facendo sì che il lettore, maschio o femmina che sia, senta dentro la sua pancia tutto lo sconforto della protagonista.
    La sua scrittura essenziale ma densa è perfetta per narrare queste storie di donne fragili, donne colpite e distrutte nella loro interiorità ma che hanno la bellissima abilità rigeneratrice (magia tutta al femminile) di rendere forza quella che per gli altri era la debolezza da colpire.

    Federica sa sempre toccare delle corde profonde: giunge dritta alla mia anima e mi commuove passandomi emozioni che avevo dimenticato essere dentro di me.
    Bravissima!

  16. Ciao Rica. Credo tu abbia raccontato in modo magistrale un certo tipo di grettezza d’animo che era (e a volte ancora è) di tantissime madri e tantissimi padri. La grettezza di cui parlo si traduce in una specie di impotenza affettiva che consiste nell’incapacità di capire i bisogni emotivi dell’”altro”, nel rifiuto di uscire dalla zona di “confort” delle convenienze, che ci offrono un modo di agire codificato, ritualizzato, per guardare al nostro prossimo spogliandoci del nostro ego, vederlo così com’è, senza veli, senza preconcetti.
    A volte, si parla male del ’68, ma la rivoluzione dei costumi che ci ha portato a un “oggi” che, in questo, è drasticamente diverso da quello “ieri”, è cominciata proprio allora. La tua narrazione, il tuo stile quasi “lacerato”, ha il potere di restituire un archetipo icastico di quel modo di concepire i rapporti umani.
    Complimenti

  17. Una scrittura dai chiaroscuri netti, come sempre. Si avverte un ordine delle cose: le parole hanno un alto e un basso, un bene e un male. Darle forza è ricordare che la bellezza ha un legame con il senso del giusto, che c’è un legame intimo tra ciò che ci indigna e ciò che ci emoziona. E che un’armonia delle cose nasce da lì.
    Allora l’esser donna, una tappa decisiva che catapulta ogni ragazza in una dimensione nuova, più matura, più responsabile con il proprio corpo. Racconti la fragilità e il pudore di questo momento, anche in un contrappunto di possibilità diverse di viverlo.
    E lo sguardo è sempre sul “come dovrebbe essere”; interrogativo che rinasce in ogni lettore.
    È il tuo modo di parlargli dentro, e che scuote nella tua scrittura.

  18. Che bel racconto! Ottima la rappresentazione del mondo infantile, e intenso il motivo ricorrente del colore rosso, sparso qua e là con sapienza. Il testo scorre in modo limpido e vivace; riesci con abilità a far comprendere al lettore che non esistono due realtà opposte, la madre “cattiva” e la madre “buona”, ma modi diversi di porsi al mondo. Ciò secondo me si evidenzia nettamente quando scrivi: “Non era l’assenza di bene a muoverla”. Qui io vedo il ponte che permette alle due donne di toccarsi.
    Ti ho letta con grande piacere. Grazie, Federica.

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