Hate is a special feeling: scene alternative toscane nei Novanta
di Andrea Betti
La sala prove era alla fine di una strada bianca, in un casolare, fra i canneti che, come la casina di Yoda, emergeva dalla mota millenaria di quelle terre, aggrappato all’argine del canale in mezzo ai campi, dove la figlia zoppa e suo padre, il Martini, camminano eternamente scontrosi. Vanno da Cioni Mario, l’unico marito possibile per questa figlia sciancata; – …tanto son di famiglia moritura – le dice il padre, così che quando il povero Cioni ci rimarrà secco fiammifero durante l’amplesso, potranno riunire i poderi e andare in culo al mondo. Ma lei non ne vuol sapere. Mario è brutto. Il Martini la minaccia: – O chi vòi? Marlon Brando? …Sta’ zitta! Ti do uno schiaffo ti spoglio.
Questa é la Toscana cui hanno asportato il pittoresco senza anestesia, la piana fradicia che si stende fra Prato, Pistoia e Firenze, dove il vino inacidisce nelle cantine, delle campagne incolte segnate dai cantieri dei capannoni e dei centri commerciali che di lì a breve avrebbero riempito il vuoto della civiltà agreste in disarmo; le wasteland dove fu girato “Berlinguer Ti Voglio Bene”.
Il Muro di Berlino e l’idea, seppur controversa, di un mondo non esclusivamente capitalista, erano crollati da appena un anno; ancora teneva quel sistema di Case del Popolo e Festival dell’Unità innestati come elettrodi nel tessuto ancestrale e necrotico dell’impermanenza contadina. Di lì a poco sarebbero tramontati, nel silenzio dei telai delocalizzati, anche i distretti industriali e nei circoli sarebbero comparse le slot-machines. L’America, o per meglio dire, la ricezione precocissima dell’istanza grunge\crossover e ancor prima, del punk e della new-wave, ebbe luogo qui, nell’impensabile di cui il pieraccionesco è farsa edulcorata ed esposizione di macchiette depotenziate, fra vecchi comunisti ruvidi e avvinazzati, nel coro delle pastose bestemmie a briscola. Nelle balere acchittate a bat-caverna per chicken-goth dance e poghi furiosi, prese in prestito al liscio, si formarono le prime band alternative toscane, che della vivace scena wave fiorentina del decennio precedente ricalcavano i processi insondabili di concrezione in un’inspiegabile affinità elettiva con il nuovo “rock tormentato” di Seattle. Simili gli sguardi increduli di matusalemmi bifolchi e giovani precocemente invecchiati nell’animo, che deridevano le creste, i giubbotti di pelle pieni di spillette, le borchie, i Doc Martens, i primi dreadlocks, le pose dei giovani ribelli… – Bada lì come tu se’ conciato! Ma che se’ buho? – perché non era insolito il make-up anche fra i maschi. L’odio è un sentimento speciale e universale: la reazione chimica era simile a quella di Seattle ma non avrebbe incontrato le infrastrutture e le vastità del mercato statunitense. Il fallimento era assicurato.
Il casolare apparteneva a Marco Ricci, chitarrista e geniale deus ex-machina dei Go Insane, band nella quale ho militato in veste di front man, o per meglio dire sguaiato urlatore, per poco meno di un anno, dal 1990 al ’91, un anno intenso: circa una ventina di concerti e la registrazione di un demo tape. Condividevano con noi quello strapuntino sul fosso anche i più noti Glomming Geek; loro erano riusciti a “fare il disco”, traguardo aureo delle band sotterranee dell’epoca. In quelle notti di prove incessanti nella stanza rivestita di cartone da uova, fra cyloom spezzati in terra e nubi purpuree dal mixer in corto, avevamo, fra i molti eccessi, la sana abitudine di scambiarci cassette attraverso cui chi riusciva a comprare un vinile, condivideva con gli altri la propria esperienza estatica. Tanti gruppi, americani perlopiù, pervenuti a noi tramite i 45 giri della Sub Pop e altre gloriose indipendenti nordamericane, che Marco, Fabio e Fabrizio (rispettivamente chitarra, basso e batteria dei Go Insane) collezionavano, ispirandoci e trascinandoci in un nuovo concetto di “rock”, che poi sarebbe diventato il post-rock, rendendoci all’avanguardia ma inintelligibili all’ascolto dei nostri contemporanei: troppo punk per i metallari, troppo metal per i punk.
Stavamo sul cazzo a tutti, ai vecchi, ai giovani, ai pottini, ai dark, ai tamarri. Ma in quella commistione di stili in cui tutto veniva frullato per esplodere, eravamo fomentati dal demone del Nuovo e poco ci importava del marketing e della comprensione dei nostri simili che odiavamo. Durante uno dei consueti scambi di cassette, Spartaco e Tommy (voce e basso dei Glomming Geek) erano lì appoggiati al cofano della Talbot Solara del Bullman che dicevano:
– Sì, sì, sì, tutto molto bello, Nirvana, Jane’s Addiction… ma il Gruppo Fondamentale erano loro: gli Electric Peace.
E Tommy annuiva:
– Indubbiamente…
Pur assiduo lettore di Rockerilla, sono sempre stato un superficiale e non sono mai stato un fissato o un esegeta di alcunché, ma persino i miei compagni di band che erano musicalmente assai più colti del sottoscritto, drizzarono le orecchie. Chi erano questi Electric Peace? Tenterò una azzardata descrizione di questo fenomeno liminale: immaginate allora di non essere una band, piuttosto un elemento radioattivo, in perenne transizione fra i Doors e i Deep Purple, un picaresco ensemble di bikers che ai vostri contemporanei di metà anni Ottanta, dediti a fonarsi le chiome e sgallettare sul synth pop, risultiate tremendamente datati, ma al termine della vostra parabola vi ritroviate, proprio per le stesse caratteristiche che vi rendevano demodé negli Eighties, fottutamente avant-garde nei Nineties.
Di fatto gli Electric Peace dal 1985 al 1989 avevano anticipato ed esaurito tutto quello che ritroveremo poi smembrato e sviluppato in singole parti nel cross-over. Hard rock psichedelico (Tad? Screaming Trees? I primi Sound Garden?) traviato dalla presenza magniloquente e ben amalgamata dell’organo Hammond, ma senza ammiccamenti à la Fuzztones; ai nostri poco importava di essere dei sex symbols come Rudy Protrudy: loro puntavano ad essere dei death symbols. I’m a snyper on the rooftop, I Think I’ll die, I Will Kill for your Love etc… l’impeto del garage punk veniva lanciato come una maledizione da metalliche montagne della follia, trainato dalla voce stentorea di Brian Kild e dalla chitarra blues di Honey Davis. Stiamo parlando di vero blues da fricchettoni di Venice coi piedi sudici, esuberante ma mai affettato o vanaglorioso, contraffatto da un sound che descrive nel dettaglio la transizione del lisergico nell’alba oscura del narcotico e dell’anfetaminico; cambiano le droghe e le prospettive, di conseguenza la musica popolare. Robba da Hell’s Angels cui abbiano somministrato, alla zitta, datura stramonio mescolato al bourbon, durante beach party notturni fra surfisti dissennati che si trasformano in sabba: non si può non riconoscere agli Electric Peace, il dono di un ammaliante mesmerismo, come nei più celebri neri sabbatici del vecchio zio Oz.
Com’è andata a finire?
Il cantante, il carismatico Brian Kild ora pare venda moto, mentre il chitarrista della prima line-up Jim Hawkinson, in moto ci è morto proprio, in ottemperanza alla loro Drinkin’ and Drivin’ (‘Till The day I Die). Noi giovanotti scapestrati sognavamo di seguire il loro esempio, di essere come quella gentaglia in fuga da sceriffi e paranoie, i cecchini sul tetto che sparano a caso sulla folla, di percorrere le vie per l’Inferno animati da sinceri propositi suicidi. Se i Led Zeppelin cantavano di scale per il paradiso, i nostri miravano dritti dritti alla catabasi (come nel loro anthem “Goin’ to Hell”) ovviamente a bordo di harley tabogate con teschi cromati, indossando occhiali neri anche a notte fonda per attraversare ciechi e forsennati, il lato oscuro della California.
Anche noi ci sentivamo così, di ritorno dal Backdoors, negli abitacoli fumosi dei nostri scassoni; gli amici che mi hanno regalato la prima cassetta da novanta contenente i due album “Medieval Mosquito” e “Insecticide” ci hanno lasciato anch’essi pochi anni fa: Tomaso Azara, artista poliedrico, bassista, dj e in seguito sofisticato producer di musica elettronica e Giovanni Borselli detto Bullman, tastierista dei Glomming Geek, stregone dell’elettronica e costruttore di monumentali rack di effetti, che trasformavano il suo Farfisa in un gutturale athanor per circensi trenodie; la profonda connessione “spirituale” dei Glomming Geek con gli Electric Peace forse nasceva proprio dalla tastiera, che avevano mantenuto in dialogo con le Gibson distorte e i ritmi parossistici che il nuovo gusto imponeva. La tastiera nel corso degli anni Ottanta era diventata, da strumento emblema del non-musicista wave, la chiave di volta del pop commerciale, esaurita ogni psichedelia, si era fatta orpello figo da litorale ibizenco, la stucchevole generatrice di trombette degli Europe, per non parlare degli arpeggi da segaioli della fusion; per tale manifesta incompatibilità veniva giustamente sdegnata dai nuovi rocker esistenzialisti. E poi era veramente difficile armonizzarla in un gruppo hard rock.
I Glomming Geek traghettavano nel nuovo pianeta roccioso il loro retaggio new-wave, creando una miscela originalissima, che li faceva spiccare nel panorama italiano al solito affetto da cronico e insanabile epigonismo. Nonostante questo, per ragioni che non conosco né indago, fatto salvo il consueto tocco trance, sciamanico di Spartaco, nel secondo album abbandonarono il tenebroso Farfisa per farsi robusti e ultraviolenti in chitarre, sacrificando a mio avviso qualcosina sull’Altare dei Muraglioni Marshall con tutti i pitch a dieci, anche se all’epoca io preferii questo album più allineato al precedente, il Caveiano-Lynchano “Dog’s Head”.
I Glomming Geek come gli Electric Peace garantiscono un ascolto emozionante ancora oggi, illuminante per chi aneli sonorità storte e poco inclini ad essere etichettate; una rivelazione per l’ascoltatore onnivoro e insaziabile che ognuno di noi dovrebbe essere. Alla fine della discesa agli inferi, troverete una ninna nanna che non consola né redime dalla consapevolezza del Male che si agita in fondo all’umanità, e nel loro esequiale ultimo sberleffo ad ogni aspettativa e aderenza stilistica, la pace elettrica dei disadattati.
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Go Insane
https://myspace.com/goinsaneitaly/music/songs
Glomming Geek
https://it.wikipedia.org/wiki/Glomming_Geek
Discografia:
1990 – Dog’s Head (Vitriol)
1992 – Dig a Hole in the Sky (Wide Records)
Electric Peace
Recensioni
https://www.debaser.it/electric-peace/medieval-mosquito/recensione
https://reverendolys.wordpress.com/2017/12/01/electric-peace-lc-1249-53/
Discografia:
1985 – Rest in Peace (Enigma Records)
1987 – Medieval Mosquito (Barred Records)
1988 – Insecticide (Barred Records)
1989 – Road to Peace (Barred Records)
Una versione ridotta del pezzo è uscita su MegaHertz, inserto di Metropolis, il 20 maggio 2019.
Lieto di essere stato spettatore di quella storia, fortunato possessore del demo e dei dischi, entusiasta di scoprire qualcosa di nuovo oggi.
Grazie
Grazie Mummu: in merito agli Electric Peace ti consiglio di leggere gli articoli di Debaser e Reverendo Lys di cui sono pubblicati i link alla fine fra i riferimenti. Fu un periodo esaltante che conobbe anche localmente personaggi straordinari d cui è giusto lasciar traccia.
*Stavamo sul cazzo a tutti* è suprema dichiarazione ontologica.
Scapocciando – sorrido: per Voi è *zio Oz* [per noi – lo zio – è Alice] e per Noi *Nonno Oz*
Anagraficamente e per ascendenza spuria dal primario filone metallifero, lo sento più zio che nonno. Ti sono grato tuttavia per la precisazione. L’headbanging ci affratella tutti scontrosamente, punk, metallari e meticci pluricomposti come il sottoscritto, nello sciabordare la mollezza grigia che vanta coscienze e all’apice del delirio persino connivenza col divino. Grazie per il tuo commento, Chiara!