Il volo di Camilleri sulla Storia

 

di Marco Viscardi

A un certo punto si fermò e taliò verso terra. Vitti la piazza, le case con la gente supra i tetti che accomenzava ad andarsene e in mezzo alla piazza vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnulava dalla forca dunnuliando. Rise. E ripigliò ad acchianare.

È un finale bellissimo quello del Re di Girgenti [2001]. Zosimo guarda da una prospettiva non più umana lo spettacolo della propria impiccagione. I gradini che lo portavano verso la forca sono finiti e con loro si sono spente le voci che l’avevano accompagnato al som de l’escalina ammonendolo con parole sconosciute: sovenha vos a temps de ma dolor… Le stesse di Arnaut Daniel prima di gettarsi nel foco che affina. Il tempo terreno si è chiuso e una nuova, misteriosa dimensione sta per schiudersi. E da quella soglia il mondo è un grande e confuso teatro. Una scena colta a volo d’uccello in cui Zosimo è contemporaneamente ‘una cosa, una specie di sacco’ che penzola da un palco e l’intelligenza liberata dai pesi che quello spettacolo contempla. Nella lotta la morte ha irrigidito il corpo ma l’intelligenza resta fluida e ride, semplice e creaturale, davanti a quella scena dove i vivi sono in realtà morti e il morto è vivissimo e aereo.

Consegnata al lettore, l’ultima pagina è un rilancio, una sfida che va ben oltre la mole del volume del libro, ben oltre l’esistenza terrena del suo protagonista ma entra nelle nostre vite, fa di noi stessi racconto. Nel 1977, Sciascia aveva chiuso il suo Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia con la liberazione del protagonista che, dissipata ogni cupa presenza di padri/padroni, «si sentiva figlio della fortuna; e felice». Zosimo ha convertito la violenza della storia nel volo dell’intelligenza. I suoi persecutori restano invischiati nelle cose, Zosimo plana altissimo al di sopra di tutto.

Se per un attimo facciamo nostro il punto di vista di Zosimo, se guardiamo dall’alto, ci rendiamo conto che il mondo letterario di Camilleri è unico e ogni divisione fra romanzi polizieschi e romanzi duri è – come già avvenuto per Simenon – vana e un po’ snob. La storia è un enigma e il racconto storico è un poliziesco. Ma allo stesso tempo un poliziesco è immerso nelle leggi storiche del suo tempo, è invischiato di inchiesta. Storia e Giallo sono due strumenti con cui si affronta un medesimo problema, radicato nella tradizione narrativa siciliana già prima di Pirandello, fino dalle scaturigini veriste: il conflitto fra le parole e le cose, la lotta fra caos del reale e rigidità fittizie dei discorsi ufficiali. Come se il modello storico manzoniano trapiantato in Sicilia si fosse sbilanciato verso gli Azzeccagarbugli che diventano di volta in volta i cantori di corti, gli storiografi, i verbalizzatori delle versioni ufficiali.

Dietro la bellezza esteriore, si nascondono le vere leggi della storia. Gli inseguimenti di Tancredi e Angelica nell’aereo palazzo di Donnafugata portano alla scoperta – dietro tanta bellezza – di stanze in cui si consuma la violenza. Quella del piacere sadico del boudoir dei perversi settecenteschi e quella abbacinante del Duca santo che si flagellava davanti al suo Dio affinché col proprio sangue potesse fecondare le terre che la provvidenza gli diede in feudo. Dietro la bellezza di scale, sale e salotti, c’è sempre una frusta insanguinata a ricordare che la violenza è il motore della storia. Camilleri approfondisce spesso lo iato che esiste fra la molteplicità del reale e il grigiore accomodante delle versioni ufficiali. Fra questi, il capolavoro è il Birraio di Preston, che fin dalla sua prima edizione del 1995 porta in copertina i compassati visi cinquecenteschi del Gruppo del tiro a segno di Amsterdam ritratti da Dirck Jacobs. Quelle figure ci guardano ferine e sono pronte a inghiottirci, a portarci nella loro società conformista e violenta che nasconde dietro il rigore inappuntabile dell’apparenza la cieca ossessione del particulare e dell’interesse. I fatti raccontati sono immaginari ma in qualche modo ispirati all’inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-76) di Franchetti e Sonnino e si svolgono nel cuore della cartografia sentimentale di Camilleri: fra il capoluogo Monteleusa e la turbolenta Vigata. Qui Camilleri racconta dell’oltracotanza del regio prefetto che vuole obbligare i vigatesi ad assistere all’inaugurazione del nuovo Teatro Re e dei cittadini offesi della mediocrità del melodramma scelto: il giustamente dimenticato Birraio di Preston, di Luigi Ricci.

Alla fine il teatro va a fuoco e ci sono anche dei morti, ma la verità dei fatti, che il lettore conosce per aver letto il romanzo, viene sviata nelle versioni ufficiali, e la colpa viene fatta ricadere sul pazzo del paese. Camilleri finge che l’ultimo capitolo del romanzo sia l’inizio di uno studio monografico sulla storia di Vigata opera di Gerd Hoffer. Hoffer è il figlio di un ingegnere tedesco impiegato nelle miniere della zona, Gerd era stato il bambino che aveva gridato all’incendio del teatro, di fatto il primo personaggio del romanzo, che qui ritroviamo non da incendiario, ma da pompiere. Dietro la sua falsa oggettività, Hoffer è ossequioso verso i poteri, legittimi e illegittimi, della nuova Italia. La sua è una contro-narrazione della vicenda del romanzo, ma gli abusi e le collusioni del prefetto, le insulse cautele del questore e la viscida ambiguità dei politici locali, si capovolgono in mielosa apologia, panegirico dell’esistente.

Come spesso in Camilleri, il lettore credeva di assistere ad un’opera buffa e finisce raggelato. I cattivi hanno vinto e l’operetta si è congelata nell’allegoria grottesca, anamorfica, dell’interminabile crisi italiana, della serie lunghissima delle nostre doppie e triple verità, dei nostri avvelenamenti pubblici. Di fronte a questa rigidità delle forme, l’inquietudine conoscitiva di Camilleri si manifesta nel rigore etico di una scrittura che sa rifiutare le convenzioni letterarie e l’obbligo della consequenzialità e racconta la storia con un intreccio non sistematico, in cui i capitoli non seguono l’ordine naturale e scartano di lato, anticipando o rallentando gli avvenimenti della trama. E ciascuno di questi capitoli scompaginati inizia con l’incipit di un libro diverso, e l’intero volume con l’incipit più famoso della letteratura, quello che Snoopy ruba a Bulwer-Litton: «Era una notte che faceva spavento, veramente scantosa» (p. 9). Con un lampo dissacrante compare persino, ma stravolta in un orgasmo interregionale, uno dei loci più insigni delle nostre lettere: «“Signora sta vinendo? Sta vinendo signora?”  […] “Sì…Sì Vegni!…Ve..gni…Ghe sont!” la svinturata arrispose» (p. 148).

Il giulebbe del melodramma, avrebbe detto Tomasi di Lampedusa, che tutto ingloba, tutto stordisce, tutto allenta, inzucchera e avvelena. Di fronte alla melassa opprimente della pacificazione, la scrittura tenta la sua battaglia: far riemergere tutto quanto non collima, non tiene, tutto quanto deve essere dimenticato perché, altrimenti, può turbare e increspare l’ipocrita serietà degli uomini della società del tiro a segno.

Alla fine però si torna sempre al commissariato di Vigata, a donne e uomini che conosciamo come i più familiari e di cui sapremmo elencare vizi e virtù: Salvo, Livia, Mimì Augello e Bebba, Fazio, Gallo, Ingrid, il dottor Pasquano e poi i questori, i prefetti, i giornalisti delle tv libere e di quelle asservite, i ristoranti di pesce e la cucina di Angelina. Tutti personaggi di carne e carta che ci vivono in testa e che non ci abbandoneranno, accanto a Renzo, a Edmond Dantès, a Farinata degli Uberti e agli altri che ci empiono di sogni. Fra questi, però, quello che per ultimo dovrebbe abbandonare la scena dell’omaggio all’autore è Agatino Catarella, Catarella il puro, il fuori registro, l’extravagante. Agatos e Cataros – come mi ha fatto notare una lettrice più acuta di me – Buono e puro. L’uomo che rifiuta il linguaggio comune, perché ha capito che è un linguaggio mistificante e ipocrita e ne parla uno suo, fatto di libere associazioni, di assonanze e consonanze, divagazioni fughe e scarti del pensiero. Il mite piantone del commissariato di Vigata, il sorvegliante della soglia, è l’antitesi dei custodi di Kafka che vivono di fronte alla Legge e per la Legge parteggiano. Catarella è un ribelle contro le convenzioni sociali ed è un difensore dell’umano. Sarà triste ora che il maestro è andato via, ma è anche l’unico ad immaginarlo che vola e ride mentre guarda questo nostro sciagurato pianeta. Di cui, se esiste uno spazio oltre questo che conosciamo, forse continuerà a ricordarsi.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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