Di parole perdute e di crateri lunari

di Luca Trifilio

A volte penso che, se non avessi fatto questo o quello, non avrei mai incontrato Marian. Ma il punto non è questo, vero? Cioè, avrei sempre incontrato Marian. La stavo aspettando. Non so se capite cosa voglio dire, ma Marian mi faceva sentire essenziale, salvo.

La conobbi il giorno in cui persi la parola Resta. Mi era già capitato con altre parole. Forse, ma non ci giurerei, la prima volta accadde con bua, un sabato pomeriggio al parco. Fu poi il turno di amico, che pareva troppo da femmine tra i compagni di scuola e quelli conosciuti d’estate. I villeggianti, li chiamava mia nonna. Non ricordo quando i villeggianti sono diventati turisti: nel dubbio, però, ho smesso di chiamare anche loro.

Vidi Marian la prima volta il venti di luglio. E come potrei dimenticarlo? Mancavano poche ore allo sbarco sulla luna, ma per me sarebbe stato un giorno come tanti altri, una montagnola di ore da abbattere, un po’ alla volta, fin quando non sarebbe rimasto più niente. Le immagino così, le mie giornate: un cumulo di sabbia che si forma mentre dormo e che ritrovo al mattino. Penelope disfaceva la tela di notte; io ho disgregato le mie ore ogni giorno.

Non avevo mai parlato con una straniera. Neanche con uno straniero, a dirla tutta. Marian era diafana, e non saprei cos’altro dire del suo aspetto se non che, quando si muoveva, tutta l’aria intorno sembrava vibrare, e dalla sua pelle irradiava una luce tale da far pensare che lei fosse un’apparizione. O forse, e non mi stupirebbe, ero solo io a guardarla così, incantato come se non si trattasse nemmeno di un essere umano, come se non facesse parte del mondo in cui mi muovevo anch’io. Come sarebbe stato possibile, poi? Io sgraziato e nerastro, lei capace di attirare sguardi e di generare meraviglia in virtù del semplice fatto che esistesse.

Attraversai la strada nelle mie ciabatte troppo piccole, diretto in spiaggia quando lei già tornava, irreale e fuori posto quanto me. E già allora avrei dovuto capire che eravamo fatti di opposti, che gli opposti a volte si completano e a volte non trovano il modo – ma proprio nessun modo – per potersi unire.

Era l’estate dei miei sedici anni, non avevo mai dato un bacio a una ragazza e quel giorno pensai a lei in maniera caotica, fino all’ora di cena. Era uso, a casa mia, che d’estate mangiassimo leggero a pranzo e a cena facessimo un pasto vero, come lo chiamava mio padre. Quella sera mia madre preparò gli spaghetti aglio, olio e peperoncino: il pepe macinato portava colori e odori che avrei cercato per il resto della vita.

Mia madre prese a tossire, portò una mano al petto cercando di aspirare aria. Il collo le si allungò fin quasi a spezzarsi e pensai, per un attimo di pura follia, che avrebbe continuato a estendersi fino a raggiungere il soffitto. Mi cadde la forchetta di mano quando mio padre la chiamò e lei cadde in avanti, la faccia negli spaghetti. Lui le prese le spalle per sollevarla: sotto l’occhio destro di mia madre c’era un pezzetto d’aglio, sul volto i granelli di pepe sembravano lentiggini dal colorito troppo intenso.

Chiama il 118, mi disse mio padre mentre io ancora masticavo. Non mi è rimasto alcun ricordo di quello che dissi nella cornetta bianca, ma l’ambulanza si portò via mia madre, di nuovo sveglia e sofferente, con un respiratore e uno sguardo terrorizzato fisso nei miei occhi. La bocca mi pizzicava per via del peperoncino quando salii in macchina con mio padre e seguimmo le sirene blu sul viale che costeggia il lungomare, mentre le persone si tenevano per mano, sceglievano un gelato, spingevano passeggini, guardavano il mare, senza farsi passare per la testa il fatto che a pochi metri ci fosse mia madre che non riusciva più a respirare e che io fossi talmente spaventato da essere calmo. Mi passò davanti agli occhi l’immagine della ragazza diafana, mi aggrappai a quei contorni indefiniti e surreali per cercare una via di fuga. Emerse in quei minuti la mia natura di codardo, e non avrei fatto altro che fuggire ogni singolo giorno, con l’ansia di dover distruggere, nel modo più indolore possibile, la montagnola di ore che mi era concessa.

Parcheggiammo al pronto soccorso, seguimmo la barella in un corridoio lunghissimo dalle pareti azzurrine e dalle luci pallide e mortuarie. Mia madre continuava a guardarmi, avrei voluto dirle di smetterla, di smetterla di star male e di smetterla di guardarmi in quel modo, di smetterla perché mi stava costringendo a legare tutti i miei ricordi giovanili a quegli occhi, mentre io avrei voluto legarli al tiramisù che preparava la domenica mattina e al grembiule a fiori rosa che indossava in cucina.

Le dissi di non andare via, senza pensarci, senza rendermene conto. Mio padre si fermò a guardarmi, lo notai con la coda dell’occhio perché la mia attenzione era solo per lei, per la donna che mi aveva messo al mondo alla quale dissi, in un sussurro, Resta.

Ma lei non restò. Se ne andò dopo poche ore. Complicazioni in seguito ad arresto cardiocircolatorio. Qualcosa del genere. Cose che accadono, anche se hai quarantuno anni e non hai ancora avuto tempo di dedicarti a tutte le cose che avresti voluto fare. Mia madre se ne andò il giorno in cui l’uomo posò il piede sulla luna e io vidi Marian, e quello fu il giorno in cui compresi – e credetemi, su questo non ho mai cambiato idea – che non c’è modo, nella vita, di ottenere qualcosa senza perderne un’altra. E non puoi mica essere sicuro che quella che ottieni valga di più di ciò che hai perso, oppure che resti. È uno scambio alla cieca, un azzardo puro.

Quella fu la notte in cui persi la parola Resta, che mi sarebbe servita una manciata di anni dopo: Marian aveva smesso di essere la figura eterea che aspettavo ogni mattina alle dieci, quando lasciava la spiaggia e la immaginavo rifugiarsi nel suo mondo incantato, ma era diventata una ragazza della mia età, col sogno di abbandonare la Polonia per vivere in Italia. Qui avrebbe voluto fare l’università, e trascorreva i pomeriggi invernali a studiare l’italiano, a cercare di leggere Buzzati e Volponi, ad appuntare su un quaderno tutte le parole nuove. E così i mesi passavano, io perdevo le parole, lei ne acquisiva sempre di più e riempiva ogni mio vuoto.

Ho rinunciato a tutte quelle che non mi erano servite, a quelle che avevo detto per sbaglio, a quelle che avevo detto troppe volte e che avevano finito per perdere di valore; ho smesso di usare le parole deludenti, quelle che mi avevano ferito, quelle con le quali avevo fatto del male. Ho cancellato dal mio vocabolario le parole che non mi piacevano e quelle che mi piacevano troppo, e mi ritrovo oggi a non poter dire quasi nulla, ma sapete cosa ho scoperto? Che ne servono poche, e che alla fine ce ne sarebbe stata una, comune e semplice, che avrebbe cambiato il corso della mia vecchiaia. Perché le parole sono rivestite del significato e dei ricordi che noi appiccichiamo loro addosso, con buona pace dei dizionari.

Avevo finito per convincermi del fatto che non mi servissero più, non ora che c’era Marian a riempire le mie vacanze estive e la cassetta delle lettere. La dipingevo di rosso il primo settembre, il giorno dopo la sua partenza, per far sì che fosse visibile per il postino. Non volevo che le lettere di Marian, piene di parole in italiano che io non usavo più, potessero andare perdute, che il postino non vedesse con chiarezza la cassetta postale della mia famiglia.

Non saprei dire se fossi un clone di mio padre a venticinque anni di distanza, ma anche lui ormai non diceva più un sacco di cose e mi sembrava perdesse pezzi ogni giorno; sopra ogni altra cosa aveva perso quel sorriso stanco che regalava a mia madre e a me la sera, quando tornava a casa dal pastificio. Eravamo fiori secchi entrambi, ma io sbocciavo ogni estate; lui non lo fece più, si estinse piano, e capii che stava finendo quando iniziò a farmi carezze impacciate: un gesto di debolezza, per uno come lui, al quale imparò ad abbandonarsi. Io dedicavo ogni domenica mattina a preparare il tiramisù di mia madre, la sua ricetta incollata con lo scotch al frigorifero. Erano identici gli ingredienti, le marche, le quantità, i contenitori e gli strumenti, eppure non veniva mai come il suo. Mio padre lo mangiava e mi diceva che ero diventato bravissimo, anche se la mano e le labbra gli tremavano.

Marian si iscrisse al DAMS a Bologna, perché aveva paura di Milano ed era intimidita da Roma. Nei piani di mia madre, io avrei dovuto continuare gli studi. Non capivo perché non volesse che seguissi le orme di mio padre: lui faceva un lavoro speciale, portava a casa la miglior pasta fresca che io abbia mai mangiato, e a me sarebbe piaciuta un’attività manuale che mi facesse dire, arrivato all’imbrunire di ogni giorno, di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva. Mi iscrissi a Bologna anch’io, perché non distava molto da casa. E perché, naturalmente, lì avrei trovato Marian.

Marian riempiva le serate bolognesi di sogni, di film visti e di vicoli da scoprire. Preparavo il tiramisù, lei scriveva sceneggiature e ogni tanto veniva ad assaggiare la crema e a darmi un bacio sul collo. Aveva la capacità di farmi sentire necessario, perché se non ci fossi stato lei non avrebbe potuto sorridere in quel modo, e allora cosa si sarebbe perso il cielo!

Mio padre, nel frattempo, declinava rapidamente: si ammalò di assenza e si vestì di una vecchiaia precoce. Appese una corda al soffitto e furono i vicini a evitare il peggio. Dimenticò pezzi interi del suo passato, tutto quello che non poteva più sopportare. Ne parlai con Marian, lei mi strinse e in quell’abbraccio colsi la tensione vitale di chi non può rimanere imprigionato. Cosa vuoi che faccia?, mi chiese nel suo italiano pieno di congiuntivi ben posizionati. Resta, avrei voluto dirle, ma non potevo. E non potevo non solo perché non ero più capace di articolare quella parola; ma perché mi sentivo troppo fortunato ad avere Marian, e quando ci si sente troppo fortunati si è più propensi alla rinuncia.

Rinunciai a essere felice e all’università, rinunciai a lei. Mi disse che mi avrebbe scritto e che ogni tanto sarebbe venuta al paese, il mare le piaceva così tanto, ma le promesse sono fatte per avere significato solo mentre vengono pronunciate: un attimo dopo stanno già volando via, raggiungono la luna e si accoccolano sul fondo di un cratere dal nome impronunciabile di un fisico tedesco o di un astronomo russo. E lì, depositate e inermi, ci guardano ogni notte mentre noi, col naso all’insù, cerchiamo di trovare nel cielo le cose che abbiamo perduto.

Ho cercato Marian nelle interviste sui giornali, nella sala scura dell’unico cinema del paese, affondato in poltrone rosse che hanno ospitato i sogni e la noia di migliaia di persone. Ho provato a cercarmi nelle immagini dell’astro nascente del cinema mondiale, la regista polacca salita alla ribalta con un film malinconico e privo di speranza. Quando usciva un suo nuovo film andavo al primo spettacolo, guidavo per chilometri se necessario, e non ero soddisfatto se non memorizzavo ogni fotogramma. Smontavo e rimontavo le sue storie nella mia testa, cercando una traccia di me, anche flebile: un vezzo, un’espressione, una postura, una battuta di dialogo. Mi sembrava di vedermi dappertutto; finii per convincermi di non esserci, di essere stato dimenticato come la cassetta delle lettere vuota e arrugginita che avevo smesso di verniciare.

Lessi sui rotocalchi dei suoi due matrimoni falliti, riuscii a fingere un sorriso e ad augurarmi che fosse felice mentre la mia vita solitaria procedeva immota, divisa tra il pastificio e le domeniche mattina in cui non smettevo di preparare il tiramisù che, a volte, nemmeno mangiavo.

Pochi mesi fa, scoprii che aveva intenzione di girare un nuovo film proprio nel mio paese. Diceva di sentirsi pronta a tornare nei luoghi della sua giovinezza più spensierata e sognante. Avvertii una sensazione sopita da quell’estate del 1969 in cui lei era apparsa. Mi aggirai per casa inquieto, rimestando negli armadi e nei cassetti, rileggendo ogni sua lettera. E nel farlo cercavo di scovare tra le righe ciò che ero stato per lei. Mi allenai per tornare a essere il ragazzo che aveva amato, ma lo specchio rimandava immagini di un uomo cupo e senza nulla da raccontare.

Quando sono iniziate le riprese del film, ho preso l’abitudine di trattenermi nei luoghi in cui si girava, attento a non farmi notare: indossavo il fedora beige di mio padre e gli occhiali da sole, me ne stavo in mezzo alla gente certo che Marian non avrebbe potuto vedermi. Ma io, lei, la vedevo sempre. Sotto il sole di fine primavera faceva vibrare l’aria come cinquant’anni prima, come se il tempo avesse potuto incidere la sua pelle, ma non la sua energia vitale. Estasiato, rimanevo ad assistere fino a quando mettevano via l’attrezzatura e la folla di curiosi si disperdeva. Allungavo il collo oltre le recinzioni temporanee per scorgere qualcosa di me e di lei sui volti dei giovanissimi attori che, nella mia mente, interpretavano noi due.

Ieri sera, seduto in veranda con un bicchiere di whisky, cercavo di distinguere il mare oltre le luci della strada, e di ascoltarne i suoni. Le riprese erano finite nel pomeriggio, e pensavo che non l’avrei più rivista. Già mi ero pentito di non aver provato ad avvicinarmi a lei, ma poi un taxi ha parcheggiato di fronte casa.

È scesa Marian, si è stretta nella giacca leggera mentre la brezza le sollevava i capelli color cenere. Si è rivolta verso la mia casa, la casa di mio padre, e i nostri sguardi si sono incrociati. Lo abbiamo capito entrambi, nonostante i metri di distanza e le luci spente del patio. Ha sorriso, i denti luminosi sotto la luna piena, anche lei curiosa di assistere al miracolo.

Saliti i tre gradini della veranda, Marian si è seduta sulla sedia a dondolo. Io ho preso un bicchiere e le ho versato due dita di whisky allungato con acqua, ma lei ha scosso il capo.

Siamo rimasti seduti finché il vocio lungo il mare non è sparito; ma lei era lì, gli occhi incollati ai miei.

Poi, senza alcun segnale premonitore, abbiamo parlato all’unisono.

In quelle interviste, ho detto. Sai, ha detto lei.

Abbiamo sorriso, tenendoci legati attraverso gli sguardi, senza bisogno di altre forme di contatto. Una lacrima le è scivolata sulla pelle bianca. Si è alzata per andarsene, in silenzio, passandosi il dorso della mano sotto gli occhi.

L’ho guardata senza riuscire a dire l’unica cosa che avrei voluto. Nel panico, mi sono sforzato di pronunciarla, quella maledetta parola. Marian si stava allontanando e io stavo per perderla di nuovo

Ho preparato il tiramisù, sono riuscito a dirle di getto.

Lei ha fatto ancora qualche passo verso il resto del mondo, come se la mia voce non fosse più adatta a essere udita.

Poi si è fermata, e si è girata a guardarmi.

Ne mangiamo un po’ insieme?

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4 Commenti

  1. Un racconto che si legge tutto d’un fiato e con un finale a sorpresa rispetto all’andamento della storia e dei pensieri. Bravo Luca!

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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