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Ritorno a Sarajevo

di Faruk Šehić

io non sono un uomo di Sarajevo

a Sarajevo
aprile è davvero il mese più crudele
dove si mescola fantascienza e orrore negli alambicchi dei corpi
gli spiriti sono sospesi nell’aria, gli spiriti della schizofrenia letteraria
devi solo coglierli, quei tristi grappoli di universi
che pagherai con il tuo sangue
a Bistrik e a Kovači le case sono recintate con alte mura
mentre le anime umane sono aperte come le cupole delle moschee ottomane
l’aria è pungente come il mese dei morti
nelle storie da bar la guerra non finisce mai
si dispongono le divisioni tra le bottiglie di birra
si parla di serbi, musulmani e croati
di colpevoli e vittime
la verità accertata cento volte si misura con il bilancino di precisione
perché l’epica narrazione è frutto di globuli rossi
se il Brasile è la terra con il più alto numero di selezionatori di calcio al mondo
qui risiede il più alto numero di filosofi parolai e di misantropi
nonostante tutto ciò che mi distrugge e mi distorce
continuo a partecipare alla tua paradossale creazione dei miti
Sarajevo, non mi hai dato niente
se non la tua poesia.

 

 

 

 

muori giovane e sii un bel cadavere

così dicevano i rockettari
ma questo è tutto un altro pianeta
sul monte Padeţ
passa l’undicesimo giorno del turno di guardia
il primo dopo la morte di Smajo
abbiamo fumato tutto il sacchetto di canapa industriale
Sadmir sparava da solo oltre il parapetto
e ha distrutto il mirino anteriore della mitragliatrice che giaceva
sui tronchi con cui abbiamo consolidato l’ingresso alla trincea
alcune piccole schegge
l’hanno colpito sopra l‟arcata sinistra
con la prima benda Hajrija gli ha fasciato la ferita
che non bastava nemmeno per 24 ore di congedo

muori giovane e sii un bel cadavere
così dicevano i rockettari
ho cagato sulla pala nel fosso dietro il tetto della tana
e ho lanciato la merda calda sulla terra di nessuno
ho pisciato in un barattolo di conserva Ikar rattrappito nella trincea come un verme
annaffiando la muffa dello strame del bosco
dissi a me stesso:
non voglio lavarmi le mani
né pulirmi il viso
non voglio radermi
né tagliarmi le unghie
cosa importa come sarà il mio cadavere
———
le costole le regalerò a Dio per le future Eve
i miei padiglioni auricolari diventeranno funghi
dai plessi nervosi si svilupperanno i miceli
di un uomo migliore.

 

 

 

 

quando per la prima volta ho visto un pezzo di cranio umano

avevo ventidue anni
eravamo appena arrivati al fronte
dicembre aveva portato un secco inverno
le foglie ricoperte di brina
scricchiolavano sotto gli stivali
sul sentiero ho visto
alcune gocce di sangue
il pezzo di un cranio umano:
esternamente una ciocca di capelli
internamente, una superficie ruvida
vischiosa e simile a quella della luna,
era tutto ciò che era rimasto sulla terra
di Šarić Seduan.

 

 

 

 

il cimitero militare Ometaljka

qui ci sono ovunque colline erbose
i venti soffiano anche d’estate, spesso cambiando direzione
in linee regolari qui abbiamo seppellito i nostri morti

qui ci sono ovunque tumuli nudi e stele di legno
i nomi dei caduti, le date in mezzo alle quali si è rannicchiata la vita
e i gigli verdi disegnati da mano inesperta

qui ovunque i cadaveri nutriranno la morbidezza dell’erba
nell’intesa segreta tra inanimato e animato
sparpagliati, liberati dalla resurrezione, pazzi atomi.

 

 

 

*

Testi tratti da Ritorno alla natura, di Faruk Šehić (Lietocolle 2019). Qui di seguito un estratto dalla postfazione di Giovanna Frene, “Regole e obblighi della guerra: la poesia di Faruk Šehić” (pp.117-8).

 

Faruk Šehić aveva 22 anni ed era studente di Veterinaria all’Università di Zagabria, quando fece precipitosamente ritorno in Bosnia-Erzegovina per difenderla dall’attacco prima serbo, e in seguito croato, entrando a far parte del 5° Corpo dell’Esercito Bosniaco, dove guidò durante tutta la guerra un contingente di 130 uomini. All’inizio del 1992 il progressivo diradarsi dello scontro tra Serbia e Croazia, e il concomitante annuncio del presidente bosniaco Izetbegović, inerente alla risoluzione del governo della BiH di indire un referendum per creare uno Stato indipendente dalla Federazione jugoslava (cosa che avverrà nel marzo dello stesso anno), portò l’attenzione dei serbi verso lo Stato a maggioranza mussulmana, con la conseguente dichiarazione del parlamento serbo della nascita della “Republika Srpska”, con a capo il famigerato Karadţić. A nulla valsero gli inziali tentativi internazionali di trovare una mediazione pacifica alle richieste di serbi, croati e musulmani. Era l’inizio della fine in Bosnia-Erzegovina di quella che da secoli era la legge di convivenza civile tra etnie diverse, il komšiluk (fine il cui peso gravò anche sulle spalle della Croazia), e il via libera agli anni infiniti di una guerra caratterizzata da orrori inimmaginabili, compartiti tra massacri di civili e fosse comuni, pulizia etnica, stupri, detenzioni in lager, distruzione, sottrazione d’intere regioni.
In realtà, già da allora fu chiaro a tutti che non si trattava di un conflitto locale, ma di un conflitto di dimensioni globali; nel 1999 il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, riferendosi per esempio al massacro di Srebrenica, affermò: “In Bosnia-Erzegovina vi fu una guerra mondiale nascosta, poiché in essa furono implicate direttamente o indirettamente tutte le principali forze mondiali, e in Bosnia-Erzegovina si spezzarono tutte le essenziali contraddizioni di questo e dell‟inizio del terzo millennio”. Vi è dunque una data che per certi versi riassume il Novecento e apre degnamente il Duemila, e non è quella dell’attentato alle Torri Gemelle, ma è il 7 febbraio 1992: la firma apposta sul trattato di Maastricht segnava la nascita dell’UE, ma allo stesso tempo a Graz, nel cuore dell’Europa, in una riunione segreta i rappresentanti della comunità serba (il mondo bizantino e ortodosso) e della comunità croata (il mondo occidentale e cattolico) decidevano a tavolino la spartizione del territorio bosniaco secondo criteri etnici. E anche la città famosa per la sua ricchezza multietnica, Sarajevo, fu il primo teatro di scontri lungo le strade tra civili armati – immediatamente degenerati nel lungo cruento assedio da parte delle milizie serbe. Senza dimenticare, da ultimo, che furono proprio le guerre dell’ex Jugoslavia ad essere il primo evento mediatico continuato e collettivo della storia – una sorta di illusione che davvero quello che la televisione trasmetteva giornalmente fossero i tasselli con cui costruire a casa propria una storia “fai-da-te”. A distanza di anni, si intuisce che così non è stato, e mai come ora non suona affatto retorica l’idea che la letteratura possa sopperire, se non sostituirsi, con estrema nitidezza alla passata sovraesposizione mediatica. Ed è ciò che la scrittura di Faruk Šehić riesce a fare, ottenendo con il minimo sforzo linguistico il massimo del risultato comunicativo (non a caso uno dei suoi poeti preferiti è Giuseppe Ungaretti).
Faruk Šehić, poeta, scrittore e giornalista, nato nel 1970 a Bihać, ma cresciuto a Bosanska Krupa (sulle rive del fiume Una, nella Bosnia Nord-occidentale), è considerato una delle voci letterarie più autentiche della ex-Jugoslavia, tanto che i suoi libri di poesia sono diventati dei best-seller; in Italia è approdato nel 2017 con il romanzo autobiografico Il mio fiume (Mimesis Edizioni, edito in Bosnia da Buybook nel 2013), nel quale si trovano per così dire in forma argomentata gli stilemi propri della scrittura poetica dell’autore: alla narrazione bellica si intersecano i ricordi dell’infanzia, in un balenio continuo di frammenti; i miti di una terra liminare come la Bosnia vengono accostati alla storia recente quasi con la fatale inerzia di un destino tragico; alla natura splendente che segue il suo corso immortale si contrappone l’onnipresente capacità distruttiva e omicida dell’uomo; la dimensione onirica e fiabesca di alcuni sprazzi del testo lascia il posto ad altrettanti squarci sulla brutalità della guerra; e su tutto, la voce del protagonista narratore snocciola con la stessa naturalezza le avventure di pesca della sua infanzia e le riflessioni più tremende sulla guerra che ha combattuto nella sua giovinezza. Il mondo del “dopo” ha distrutto non solo fisicamente il mondo del “prima”, ma ne ha reso impossibile la ricostruzione interiore: la guerra che è formalmente conclusa sopravvive come sindrome post traumatica in chi l’ha combattuta o vissuta; e siccome tutte le teorie del trauma sono concordi nel darne una definizione che lo collega non tanto all’evento traumatico ma alla sua successiva interpretazione, a maggior ragione Il mio fiume, scritto a distanza di vari anni dagli eventi bellici, è il segno del trauma, tanto più se nel suo riflettere la voce del narratore arriva ad affermare con agghiacciante pacatezza: “La guerra è piombata così, come un incubo, priva di un inizio e di una fine ragionevoli. […] Non desidero sapere nulla di certo sulla nascita della città, non voglio occuparmi di cose remote ed essere profeta dal corto respiro: la storia non ha mai insegnato nulla di intelligente. Il fiume sa, ma non parla. […] Quello che so per certo è che tutto si ripete: la storia si ripete, le nazioni-mattatoio si ripetono – non vengono mai distrutte, perché ogni volta le loro tecnologie sono segretamente protette per essere di nuovo utilizzate. Le fosse comuni sono un ritornello e in tutto questo le città non se la passano mai bene. […] Il mio sangue è il contributo a questa storia.” (pp. 143-144).
La silloge di poesie che viene qui presentata per la prima volta in italiano, tradotta da Ginevra Pugliese, è tratta per la gran parte da due raccolte, Hit depot (Sarajevo 2003) e Transsarajevo (Zagabria 2006), quest’ultima molto popolare nell’intera ex-Jugoslavia. Sono presenti anche tre poesie (Manifesto, Passeggiata per Srebrenica, Poesia dei sopravvissuti) tratte dalla raccolta I miei fiumi (Moje rijeke, Sarajevo 2014). Come ha affermato l’autore, il suo intento era quello di scrivere per erigere piccoli monumenti funebri in ricordo dei suoi compagni morti, facendo della scrittura il terreno della dialettica tra immortalità della natura e mortalità dell’uomo, che anzi trova nel ritorno alla natura dopo la morte la sua dimensione di resurrezione terrena, “nell’intesa segreta tra inanimato e animato” (il cimitero militare Ometaljka). […]

 

 

 

*

 

ja nisam čovjek iz Sarajeva

u Sarajevu
april je zaista najokrutniji mjesec
gdje se miješa fantastika i horor u retortama tijelâ
duhovi vise u zraku, duhovi literarne šizofrenije
samo ih trebaš uzbrati, te tuţne grozdove vasionâ
zbog čega ćeš plaćati vlastitom krvlju
na Bistriku i Kovačima kuće su ograđene visokim zidovima
a ljudske duše otvorene ko kupole otomanskih dţamija
zrak je britak kao mjesec mrtvih
u kafanskim pričama rat nikad ne završava
raspoređuju se divizije među pivskim flašama
priča se o Srbima, Muslimanima i Hrvatima
o krivcima i ţrtvama
stoput utvrđena istina mjerka se nanogramskom vagom
jer je epska naracija plod crvenih krvnih zrnaca
ako je Brazil zemlja sa najviše fudbalskih selektora na svijetu
ovdje stanuje najveći broj drvenih filozofa i mizantropa
uprkos svemu što me razara i nakrivo oblikuje
i dalje učestvujem u tvom paradoksalnom mitotvorenju
Sarajevo, nisi mi dalo ništa
izuzev svoju poeziju.

 

 

 

 

umri mlad i budi lijep leš

tako su govorili rokeri
ali ovo je sasvim druga planeta
na Padeţu
protiče jedanaesti dan smjene
prvi nakon Smajine smrti
ispušili smo kesu industrijske trave
Sadmir je jedinačno pucao preko grudobrana
i rasuo prednji nišan automata što je leţao
po trupcima kojima smo utvrdili prilaz zemunici
nekoliko sitnih gelera iz nišana
pogodilo ga je iznad lijeve arkade
Hajrija mu je previo ranu prvim zavojem
ona nije bila dovoljna ni za 24 sata bolovanja

umri mlad i budi lijep leš
tako su govorili rokeri
srao sam na lopatu u udubljenju iza krova brloga
te prebacivao vrela govna na ničiju zemlju
pišao u Ikar konzervu zgrčen u tranšeju kao crv
zalijevajući buđ šumske stelje
rekoh sebi:
neću prati ruke
ni umivati se
brijati
ni kidati nokte
je li vaţno kakav će mi leš biti
———
rebra ću darovati bogu za buduće Eve
moje ušne školjke će postati gljive
od spletova ţivaca razviće se miceliji
boljeg čovjeka.

 

 

 

 

kad sam prvi put vidio komad ljudske lobanje

imao sam dvadesetdvije godine
bili smo tek došli na liniju
decembar je donio suhu zimu
lišće obloţeno mrazom
hrskalo je pod čizmama
na kozijoj stazi vidio sam
nekoliko kapi krvi
komad ljudske lobanje:
sa vanjske strane busen kose
sa unutrašnje, hrapava površina
sluzava i nalik mjesečevoj,
bilo je to sve što je ostalo na zemlji
od Šarić Seduana.

 

 

 

 

vojničko groblje Ometaljka

ovdje su posvuda travnati breţuljci
vjetrovi pušu i ljeti, često mijenjajući smjer
u pravilnim redovima tu smo sahranjivali naše mrtve

ovdje su posvuda gole humke i drveni nišani
imena poginulih, datumi između kojih se skutrio ţivot
i zelenom farbom nevješto nacrtani ljiljani

ovdje će posvuda leševi hraniti mekoću travnu
u tajnom dosluhu između neţivog i ţivog
raspršeni, oslobođeni od uskrsnuća, ludi atomi.

 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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