“Migrazioni nel Mediterraneo”: per sfidare gli stereotipi sulle migrazioni
a cura di Gabriele Sirtori
L’immigrazione è stato il tema in assoluto più trattato nelle campagne elettorali degli ultimi anni. Clandestini, rimpatri, respingimenti, sicurezza: queste sono alcune delle parole chiave della politica oggi. Ogni giorno almeno un telegiornale o un talk show affrontano questo argomento e quotidianamente sono proposti al pubblico dibattiti, grafici, dirette, numeri. Un fiume di parole e immagini che scorre ininterrotto da almeno tre anni.
Ciononostante, il livello del dibattito pubblico su reti televisive e quotidiani nazionali è rimasto particolarmente stagnante e ancorato ad informazioni spesso volutamente parziali. È proprio in questo contesto che si apprezza ancora di più lo sforzo compiuto da Giuseppe Acconcia e Michela Mercuri nel curare la collettanea Migrazioni nel Mediterraneo: Dinamiche, identità, movimenti, edita da FrancoAngeli.
Il testo rappresenta un passo importante nel dibattito nazionale sul tema per almeno due motivi. Innanzitutto, il punto di vista è innovativo: il volume non vuole studiare l’immigrazione da una prospettiva esclusivamente europea, ma sceglie come oggetto di studio lo spazio più ampio e completo del Mediterraneo allargato. Non tutti i flussi, infatti, mirano al vecchio continente, e gli stati europei non sono gli unici a dover fare i conti con instabilità e insicurezza dovuti all’arrivo massiccio di immigrati. Allargare la visione, studiare come altri stati – Libia, Turchia, Siria, Egitto – rispondono e storicamente hanno risposto a simili problematiche, nel loro doppio status di paesi di emigrazione e di immigrazione, fornisce un’utile chiave di lettura per capire come si struttura, socialmente e politicamente, l’attuale fenomeno migratorio, quali i suoi driver e quali le possibili prospettive di evoluzione.
L’altro punto di forza del libro è il suo approccio interdisciplinare. Quando si parla di migranti è bene ricordarsi che prima di tutto si tratta di persone, esseri umani che interagiscono con altri esseri umani. Per questa ragione non basta affidarsi esclusivamente alla letteratura su conflitti e sicurezza, ma occorre indagare il fenomeno anche alla luce della psicologia, della sociologia, dello studio dei movimenti politici e civili.
Il libro si struttura in due parti: nella prima il focus è sul Nord Africa e Medio Oriente, nella seconda ci si concentra sull’Europa.
Nord Africa e Medio Oriente
Nella prima parte si indaga il fenomeno migratorio negli stati a Sud e a Est del Mediterraneo. L’originalità di questa pubblicazione, come detto, sta nello studiare quei paesi – Libia, Egitto, Siria, Giordania, Turchia – che normalmente sono considerati solo in virtù del loro essere un punto di partenza verso l’Europa, nel loro rapporto con le immigrazioni provenienti da altri stati e con le comunità migranti ivi stabilitesi nel lungo periodo.
Il primo capitolo, a cura di Michela Mercuri, tratta della regione libica del Fezzan, situata a Sud al confine con Niger e Ciad. A seguito della caduta di Gheddafi e della guerra civile questa regione ha raggiunto un discreto livello di autonomia e autogestione. Meno popolata rispetto alla costa e storicamente periferica rispetto ai centri economici libici, questa regione ha visto una sorta di “rinascita” a seguito dell’arrivo di migranti dagli stati confinanti in fuga da persecuzioni e carestie. Inizialmente accolte da Gheddafi per fini politici e militari, queste popolazioni hanno finito con il creare reti commerciali con i paesi del Sud, sviluppando in alcuni casi una discreta ricchezza e dando vita a grossi centri abitati informali. Tuttavia si tratta per lo più di commercio illecito e di gestione della tratta dei migranti, ma questo non deve indurre a sottostimare la loro importanza per la stabilità della regione (e la conseguente diminuzione di flussi migratori clandestini) qualora fosse offerto loro, tramite incentivi economici mirati, la possibilità di un’alternativa lecita agli attuali traffici.
Comunità migranti poi hanno anche conseguenze profonde sui movimenti politici dei paesi ospitanti. Giuseppe Acconcia traccia un parallelismo tra due momenti storici importanti nella vita di due paesi chiave nella regione: Egitto e Siria. Sia nel periodo compreso tra il 1918 e il 1920, sia durante le proteste delle primavere arabe del 2011, infatti, le comunità straniere residenti in Egitto – nazionalisti pan-arabi e pan-islamici in fuga da altri stati nel primo caso, profughi palestinesi e successivamente siriani nel secondo – hanno contribuito attraverso reti alternative a formare nuovi mezzi di mobilitazione popolare che hanno portato a profondi cambiamenti di sentire politico sia in Egitto sia, di riflesso, in Siria. In entrambe le epoche questi movimenti hanno però dovuto lasciar spazio a populismi e a retoriche nazionalistiche spesso xenofobe, come nel caso dell’Egitto di al-Sisi.
Lorenza Perini, nel suo saggio sulle donne del campo profughi di Zaatari, in Giordania, affronta il tema della permanenza dei migranti nei campi profughi, un momento psicologicamente delicato in quanto i loro abitanti sperimentano il passaggio dallo status precario di profugo in fuga (con la prospettiva di un ritorno a breve) allo status di abitante stabile del campo, con tutto il conseguente carico emotivo di ridefinizione della propria esistenza, del proprio ruolo familiare e sociale e dei propri spazi, che da mobili e momentanei diventano stabili come una vera casa. Questo momento è particolarmente delicato per le donne, che spesso si trovano nella difficile situazione di essere capifamiglia in una società tipicamente patriarcale.
Le migrazioni poi, è bene ricordarselo, sono un pericolo per i nazionalismi. È il caso della Turchia dove, come ricorda il capitolo curato da Alberto Gasparetto, il partito di Erdoğan, l’AK Parti, nonostante le aperture politiche ai diritti per i curdi in nome di una comune sovra-identità islamica e nonostante negli ultimi anni la Turchia si sia trasformata in un paese prevalentemente di immigrazione, non ha riservato un trattamento omogeneo ai profughi in arrivo dalla Siria. Anzi, secondo alcune fonti avrebbe attivato politiche di respingimenti in diverse regioni periferiche, in particolare quelle a maggioranza curda. La tesi di Gasparetto è che per il governo di Ankara la composizione etnica (e quindi la maggioranza turca) della Turchia sia ben più importante dell’islamismo spesso associato a Erdoğan. Le aperture ai curdi turchi in nome della comune religione seguirebbero quindi logiche elettorali e non una vera volontà di inclusione identitaria.
Europa e casi studio
Nella parte finale lo sguardo è all’Europa, vista però non con gli occhi europei di chi si difende da una minaccia incombente, quanto con gli occhi di chi vi emigra e di chi, regolarmente stabilitosi in tempi recenti, si trova a viverci da estraneo, da esule.
Punto d’avvio dell’analisi è una critica alla politica dei confini dell’Unione Europea, in cui l’integrazione fra stati membri è avvenuta solo in negativo, ovvero nel coordinamento delle politiche di respingimento, come fanno notare Marco Omizzolo e Pina Soldano. Gli autori evidenziano due risultati negativi: l’esternalizzazione dei confini, la cui difesa è “appaltata” a stati terzi (come Libia o Marocco), in cui l’Europa tollera la quotidiana violazione dei più basilari diritti; e la clandestinizzazione del migrante, ovvero la tesi distorta secondo cui gli immigrati si dividerebbero in sé (e non ex lege) in regolari e irregolari. La verità è più complessa e vede spesso ingressi regolari seguiti da soggiorni irregolari e viceversa. La criminalizzazione dell’immigrazione è quindi spesso una semplificazione a fini propagandistici.
La permanenza in Europa, poi, anche quando regolare, non va assolutamente considerata come un momento privo di criticità. Spesso infatti sorgono disturbi identitari e psicologici legati alla necessità di ridefinire gli obiettivi della propria vita, i propri spazi e il proprio ruolo all’interno di una comunità. È il caso degli intellettuali turchi intervistati da Aslı Vatansever. Rifugiati in Germania a seguito delle persecuzioni politiche da parte di Erdoğan descrivono la loro permanenza come un “purgatorio”, uno stato di perenne instabilità e incertezza sul futuro in cui è difficile trovare la serenità per vivere la propria quotidianità.
Le Comunità residenti all’estero con il tempo finiscono per formare reti di solidarietà e di supporto reciproco e spesso riescono a esercitare un peso politico tale da influenzare anche le dinamiche politiche in patria. È il caso della comunità diasporica curda in Occidente, molto presente e attiva anche in Italia, dove negli anni Novanta ha trovato rifugio per un breve periodo il fondatore del PKK Abdullah Öcalan. La diaspora si è rivelata essenziale nel forgiare l’identità curda e nella attività di “lobby” verso i governi e le principali istituzioni del paese, ma soprattutto nel sensibilizzare l’opinione pubblica e mobilitare la società civile a favore della causa curda durante i momenti più duri della guerra civile siriana. Se oggi esiste un esperimento come lo stato di Rojava è anche sicuramente merito dell’attivismo della comunità curda diasporica, come dimostrano Giuseppe Acconcia e Giovanni Balslev Olesen.
L’ultimo capitolo è infine dedicato ai rimpatri. “Rimpatrio” – o forse più correttamente “espulsione” o “deportazione” – è un termine caro ad una certa area politica. La realtà, però, è ben diversa dalla sua rappresentazione mediatica e propagandistica. Questo soprattutto per due motivi. Il primo è la limitata efficienza del sistema di accoglienza, identificazione e rimpatrio basato sugli Hotspot e sui CPR (centri per la permanenza e il rimpatrio, ex CIE, centri di identificazione ed espulsione) e sugli accordi bilaterali di rimpatrio con alcuni stati africani e asiatici. Fino al 2017 meno del 50% della popolazione detenuta nei CIE era stata rimpatriata. Spesso, infatti, si assiste al rifiuto dei detenuti di rivelare la loro vera nazione di origine; altre volte, in assenza di un accordo di rimpatrio, ai detenuti viene consegnato un decreto di espulsione con l’idea che questi provvedano da soli al rientro in patria. Il secondo motivo è la resilienza dei migranti, come testimonia il caso della Tunisia – paese con cui l’Italia ha un accordo di rimpatrio – analizzato da David Leone Suber. Per molti giovani tunisini la migrazione verso l’Italia si configura come una serie ciclica di viaggi, permanenze e rimpatri. Il rientro in Tunisia non viene vissuto come un fallimento, ma come un periodo in cui organizzarsi per la successiva ripartenza. Una vita nell’illegalità in Italia è comunque preferibile alla stagnazione e miseria economica di molte regioni depresse della Tunisia. Il rimpatrio, in conclusione, non è in alcun modo una soluzione.
Conclusioni sulle migrazioni
A fine lettura quel che resta è un senso di grande amarezza. Amarezza non tanto per la tragedia di chi è costretto a migrare o per la povertà delle soluzioni al problema adottate al momento dall’Italia e dall’UE, quanto per la siderale distanza tra i limpidi risultati della ricerca accademica italiana sull’argomento, di cui il libro curato da Acconcia e Mercuri è un ottimo esempio, e la tossicità del corrispondente dibattito pubblico. La difficoltà del comunicare i risultati della ricerca universitaria al grande pubblico è una questione comune a molte aree di studio, ma qui il problema non è semplificare una complessità che si presume ingestibile per il semplice lettore curioso. Qui si tratta di portare un’informazione imparziale, suffragata da dati e anni di lavoro accademico, in un territorio di scontro tra tifoserie, costantemente inquinato da manipolazioni della realtà, bugie, verità parziali e fallacie argomentative introdotte da chi ha a cuore interessi (voti, potere, ascolti) altri rispetto alla comprensione della realtà di un fenomeno cruciale.
In una realtà informativa spesso distorta è quindi più che mai fondamentale diffondere, consigliare, condividere il lavoro di chi non solo cerca di portare elementi oggettivi alla conoscenza del pubblico generalista, ma anche provare ad allargare la visione su un fenomeno così centrale oggi come l’immigrazione, fornendo spunti di lettura nuovi, con un approccio di analisi multidisciplinare e soprattutto non euro-centrico degli scenari contemporanei.
(tratto da Pandora Rivista)
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Vogliamo tutta l’Africa in Italia.
Subito
Ottimo ma un appunto: è difficile capire il rapporto di molte persone all’immigrazione se non si capisce quello che nel frattempo è successo alla classe media europea, ossia essersi improvvisamente accorta che Capitale + UE ne volevano la distruzione o quantomeno la scrematura. Tanto più che molti dei partiti che questa screma-zione la volevano presentavano dei discorsi internazionalisti che sembravano (sembravano, vedi Macron) volere dare un valore positivo all’immigrazione. Aggiungiamoci la flessibilità ormai universale dei contratti lavorativi e il taglio ai sistemi pubblici e il quadro è ancora più chiaro. Le classi medio-basse sono state messe in competizione con i nuovi venuti mentre quelle medi- alte hanno ricevuto soprattutto agevolazioni fiscali. Proviamo a mettere una tassa sui patrimoni più alti (parlo dell’1-5 %) per favorire l’integrazione degli immigranti ? Proviamo a reintrodurre contratti sindacalizzati ? Scommetto che Repubblica cambia subito idea sulla questione. Questo il cittadino medio ormai lo sa, con tutto quello che ne consegue. Caso tipico la Svezia: si è chiesto agli svedesi di condividere il welfare con una quantità particolarmente importante di immigrati= ascesa della destra nazionalista = obbligo dei socialdemocratici di allearsi coi liberali per governare = i liberali accettano ma solo se si faranno nuovi tagli al welfare = la destra crescerà ancora= scontro tra ulpraliberalismo e destra nazionalista con progressiva distruzione di ogni via socialdemocratica .