Héros-Limite / Eroe-Limite
Eroe-Limite[1]
di Ghérasim Luca
Traduzione di Laura Giuliberti
« La morte, la morte folle, la morfologia della meta, della metamorte, della metamorfosi o la vita, vita viva, vita sensazione, vivisezione della vita » sorprende, so, so, so il nome che prende , il nome, di nove sedie, di nove e sette, di sedici oggi e getti, di sedici oggetti contro, contro la, contro la morte o, se si vuole, per la morte, per la morte della morte o per contro, contro la, controllala, secondo me, contro la, se contro la vita sette, se, se con sette, secondo me per, per una vita votata al vuotare, votare al vuotare vuoto e svuotato, vita votata, votata a, per una vita votata alla vita.
Di gioco io di di dico giovedì sette maggio, ma, che gioco, dico oh, dico giorno e si ma no, giorno e notte, lo dico, te lo dico che oggi giovedì sette maggio, giovedì vi dico morte, dico morte morta come dite come mi dite tre, sette e tre sanno danno fanno dieci , si dice dieci come si pensa, diciamo come il tre, il terzo dado terrestre, ter minare, terminare, terminare come il terzo termine dell’io penso che mi pensino e del si e del no del sono, io sono deciso, sono il dado tratto al tre-sette, diciamo come il tre, il terzo termine del do del si del mi sono ucciso e si mi hanno ucciso col dado o col coltello, il terzo termine il re il do il ricordo, con l’eco del coltello e del dado il rico riconcilia riconciliatore, si do re, riconciliazione tra il mi uccido e il mi uccidono, all’insaputa del terzo termine sorto dall’insicuro, dall’insorto e dal re, dal sol, dal risorto.
E quando dico vita, vita nella vita, lo dico come dicono lui è, lei ha, lei è lo stato nello stato, sta nel, nel tè, il termine, il seno, il tuo seno, te come tè, come tesi, il termine sintesi dell’anno, del no, dell’anti-no e della mia, dell’antinomia in una marmitta di marmellata di maiale, sul pianale da mento, del comportamento di due tre, sette tre, del terzo termine dei due citati, di due accecati plastificati, di due lati elasticizzati contro, contro contratto, di due tre, di due elasticizzati contrari come il dispari, come il pari dispari il paradis, il dispiacere di nascere, di nascere da una trazione dell’io, da una contrazione dispari del mio io e del suo se stessa, i due se stessa dell’io pari e provetti, i due elasticizzati contrari come l’occlusione e la, e la penetrazione per, perfetta, perfettamente riconcilia ciglia riconciliate.
Abbiamo fatto, perfezionato, perfettamente fatto e disfatto per disfida, abbiamo fatto, si dice, se sedici oggetti, abbiamo distinto i sedici oggetti d’azione del bene, dalla pene, della penetrazione vita vita avvitata e morta morta immortalata, della penetrazione verso universo universale.
Se dici oggetti là penetra la pace.
La pace, la penetrante universale tace e dà, e do, è donna, e dà, e comunica unica universale.
Donna ti, titano, ti hanno, donna tagliata pane, come un pane, in due, tagliata in due, per due, si per tu, si è perduta, in due, tagliata in due, persino per due, si, si per, si è perduta, nel mezzo del, mezzo, mezzo dì, nata l’anno mille, l’anno no, in mezzo al suono, al suo corpo, al di, al di là dell’anno, dell’anno di, del danno totale, crinale del suo corpo infinito, sulla, sulla luna verso il tic tic tic, sulla, sulla lingua, sulla lunga verticale, che le, che lega il suo setto casto, all’astratto, stratocratico alla bocca democratica, che crepa, tra le cro, tra le cosce con, con ciglia, con, riconciliatrici e amate, io t’amo, ti amo, ti tic tic antiche.
È tagliata in due corpi, i corti, corti tic tic, la cortigiana universale versa già la sua, la sua vi, la sua unità, la sua verginità unita e intatta, come la va, come lava, come l’avventura anale del padre, l’unita, l’unità verginale di questa corte, di questa cortigiana universale è intatta, è intatta la verginità di questa vipera.
Ciò ci dimostra per, perfetto, ci di, di tutto rispetto, la scena dell’acqua primordiale allo, l’ho letto prima nel letto, nel manuale del male, allo stato, allo stato liquido di un riso viola violatore e viole viole violento, ciò ci dimostra per perfettamente l’efferatezza cieca accecante di questo modo, di questo mondo e in fondo l’infondatezza to to totale tra no tra to della nostra ti tic tic, della nostra timidezza.
È facile avere o, o non avere la vista, resta là, l’ho vista prima nelle mi, nelle mie mani, ma ama, ama allora, è necessario amarla, è necessario vivere la vista, la vita, la viola, violarla, amarla con amore, è necessario viverla con violenza, la scena, l’oscena universale, chi, chi, chiusa e aperta.
Il candore vocale, l’orrore vegetale, il candore veggente mente, la mente mente, il candore del veggente mentale mente sulla vera, sulla scena vera, sull’oscena verginità, che non ha, non ha visto, non ha avuto la vista, resta a bo, bocca aperta oscenamente aperta e ingombra, in, venti in punto, venti e trenta, nel suo ventre impuro, immenso, puritano, impuro tic, impudente, per lui questa bocca salda, sigillata, ingombra e indecente, indecentemente infinita è solo un occhio che osserva l’ossatura dell’occhio del suo naso, l’occhio osservante-osservato che serve a tenere il suo naso insolente alla porta, alla portata dell’occhiello immacolato dell’universo insolente sotto il naso della sua universalità.
Il verso unico, l’universale, la versatilità dei mondi che chiama il candore del veggente mentale, lui monda, monda il frutto, quindi nulla da mordere, da tagliare, da incidere da incisivamente penetrare, tutto, tutto quello, quel tutto lo chiama l’inviolabile, l’in-toto, il tutto, l’intoccabile, per lui non c’è vero davvero niente da trafiggere.
Il suo mondo è una sfera tonda, netta, ben monda, dall’ossatura intatta, esso è innanzitutto inattaccabile, nessuna fessura dove ficcarsi, nessun verso di entrarci, e va, e va, e ci schiva a metà, tic tac, metafisico, tac, e ci mente, metafisicamente tutto.
Toccava a me amare, toccare, schivare, il materasso, il metarazzo, la metaragazza metafisica e tonda e, toc toc, toccava a me, era là, era la sfida, è così, si si, mi si, mi son, mi su, mi son subito vòlto al, mi son trovato avvolto, trovato tra i boa, travolto dai baobab, siderato nel deserto, stravolto dal desiderio, tra i vul cancan del vu del vuoto in azione in eruzione comitive come vere comete, come boa vuoti in piena erezione in una strada deserta, in una strada bella, balla balla baobab cancan, in questa volta avvolgente e siderale, dove si deve, dove si vede l’amata la macchia, la nicchia, il no del gesto sempre giusto, del giù, del giorno e della notte, ha la vòlta, è sempre vòlta alla donna, donna di, alla dilagante e oscena verginità universale, con le mere mani, mi rema, mi riconcilia, con le ciglia, con le mani riconciliate, a me che, amiche e riconciliate sulla, sull’oscena mitragliatrice delle mie dieci dita come la giostra e la donna strette sulla, sparate sparate sulla sparatrice, gli sparvieri sono là, sparategli, strette in maniera sensuale la giostra e la donna in una vera, un falso, una vera follia, un vero fol-letto, in una vera follia di reciproca penetrazione.
L’odio, lo iodio, io l’ho, io ho dato, mi sono voltato, e così ho dato un giro alla giostra, alla mareggiata, così ho dato un giro alla giostra, fatto girare la mareggiata, dato una svolta mentale, voltato al mito del buco, e come un pazzo, come un razzo di precisione mi sono precipitato sull’istmo, sul simbolismo mitico del buco, nel tubo, nel tubo di niente, nel tutto del niente di tutto, del tutto, di quel bel tutto da penetrare.
E le vie, e le vele che svelano le vie verso il tutto, solo con un tubo, con qualche buco, solo con qualche buco vuoto bucato nel bel tutto che mi sono violentemente imbucato nel bel tubo di niente riempito imbandito che è il bel tutto universale.
Ecco che ho fatto:
Ho preso cento ottanta quattro piatti, piastre megapiastre, piastre mega meta metalliche, cento ottanta quattro piastre di rame e la e la elastiche e fini, rettangolari a ri, ariose, rettangolari e luminose.
Quanti, quanti bei buchi tondi ed uguali come quanti, come quantità, in cifra tonda di due cento ottanta otto però, per ogni, per ogni mano, per ogni piano di metallo, penetrano su tutto, per tutto, su tutta la superficie metallica, metà sotto il letto, la sottiletta materica del rame.
La distanza tra un buco e l’altro è un infimo spa spasmo un infimo spazio, l’infimo e minimo spa spasmodico spazio, che dico, che chi, che chiede un buco per su, per su, per andare, per non superare, infimo-infinito è questo il costo perché il buco sia buco, per non superare la, lasciamo stare, superare l’ano, per non superare l’ano, la normalità di buco, ma no, non per, non per privarsi del male, dei mali, ma li, ma l’idea del nu, del nudo, l’idea del nulla beato del suo essere negato.
La cifra dei buchi incisi sui cento ottanta quattro folli, fogli, metafolli di metà letti, sui metafoglietti metallici, letti, letti, li abbiamo letti, nella cifra di cinquanta due mila nove cento novanta due.
Da questi cento, da questi cento quattro folli, da questi cento ottanta quattro fogli folli di rame, da questi cinquanta mila buchi folli, da questi cenci bucati da folli, da cinquanta due, da questi cinquanta due mila nove nove nove nove cento venti dodici buchi, ho costruito i sedici oggetti della, della contro, contro la, quei sedici oggetti là.
Ciascun oggetto pende, prende il nome della cifra dei buchi servita, vita, la vita, per la vita, contro la morte, per la morte morta, per una vita, vita, vita, per una vita nella vita, perpende, pende, pende, prende il nome della cifra corrispondente ai buchi servita alla sua produzione.
Ecco i no, i no, i nomi cifrati all’eccesso, i nomi ecc. ecc., eccedenti, eccessivi, eccentrici, precedenti, i nomi precisi di questi oggetti:
I 4320
II 4896
III 4608
IV 4032
V 2880
VI 1152
VII 1728
VIII 1440
IX 2016
X 2304
XI 3168
XII 2592
XIII 5184
XIV 3456
XV 9216
XVI 0
Nota : lo zero, rotondo zenit delle cifre, essendo lo, lo zero essendo la cifra del buco assoluto, essendo in nuce, luce, luce dell’assoluto, l’oggetto lucente e assoluto che prende questo nome assoluto [che porta il nome assoluto] non è prodotto come gli alti, non come gli alti gradi estivi, no, non come gli altri, quest’oggetto non, quest’oggetto è schivo, non è prodotto con, non con dei buchi nel suo, nel suolo, folli, non solo con buchi nei fogli di metallo come gli altri, ma con buchi d’ogni modo, d’ogni mondo, con tutti i buchi del mondo, abbracciati in un tutto, in un bel tubo di niente luce luce lucente e assoluto.
Un’isola, un’isola, quest’oggetto è come un’isola, una sola, giostra, giostra infinita, una sola, un’isola, un’isola, è il solo oggetto metafisico della mia collezione di buchi contornati da un bordo metallico e, nonostante il suono, il suo no, nonostante il suo notevole difetto d’esser mega, megalitico e metafisico, nonostante il suo no, il suo non difetto d’esser affetto dal non esser del tutto, è l’oggetto della collezione il più perfetto.
Mente, mente, mentre gli altri oggetti girano assiduamente su una giostra plastica e mitica, ch’era, ch’era, ch’era pure erotica, tic tac, ch’era, ch’era pure eroica, per infine infrangere il loro fine infinito, collo, collo, con lo zero, col, col, col coltello piantato in un collo infinito, con lo zero infine, con lo zero come un buco infinito, dove ca, dove ca, dove cadono i buchi infiniti, col, col, colpisce il bel tutto al cu, al cu, al cuore.
L’oggetto nume nume numero sedici è un eroe-limite.
∴
Nota del traduttore
Non potrei presentare questa traduzione senza parlare del desiderio che mi ha spinta a cimentarmi con la poesia di Ghérasim Luca per la tesi di fine anno di un master in Traduzione Letteraria. E tentare così di giustificare quella sorta di libertà presa nei confronti del senso dell’originale – o meglio, la libertà presa nei confronti di un certo tipo di senso – che solleva i primi dubbi quanto alla liceità di questo lavoro.
Non sta a me, qui, sentenziare sull’estrema attualità di Luca, né dimostrarla attraverso testimonianze dell’interesse che ancora oggi suscita in Francia, in ambito accademico ed editoriale. Come traduttrice, la mia pretesa non è stata portare la sua poesia al lettore contemporaneo, piuttosto rendere conto di un incontro e di ciò che i suoi effetti hanno significato per me. È l’incontro tra una scrittura particolare e una lingua, in questo caso l’italiano, che pretende parlare per tutti ma non lo fa che in nome di pochi, che pretende esaurire la realtà, in un’inesorabile restituzione di fatti, ma non fa che ridurla e normalizzarla.
L’incontro ha preso forma, dapprima, nel mio percorso individuale di studi e letture, poi, in un progetto di traduzione, il cui obbiettivo principale è stato di non farsi tramite di una ricezione intellettualistica della poesia di Luca. Come molti, sono stata introdotta al poeta “stranebreo[1]” dalle pagine che a lui ha consacrato Gilles Deleuze. Nelle opere di entrambi si trovano le formulazioni di progetti anti-edipici, l’uno alle prese con l’oppressione della lingua che si vuole materna e che è essenzialmente castratrice attraverso il suo simbolismo, l’altro con il dominio della ragione che si vuole assoluta e che si tratta di schizofrenizzare. Al di là dei progetti, Luca resta un poeta e il suo pensiero non si può sistematizzare né estrarre dal corpo dei suoi testi ma bisogna caderne fuori, seguendo il balbettio[2] delle sue poesie. Ciò che questa traduzione si è proposta non è stato, tuttavia, limare i riferimenti filosofici e psicanalitici del testo, i quali sono stati il più possibile preservati attraverso la ricostituzione delle reti semantiche principali; così come non è stata toccata la ricorrenza delle cifre (e l’identità dei numeri) per non chiudere la possibilità del testo di giocare con un’interpretazione cabalistica, quale è già stata tentata ma di cui chi traduce non ha alcuna conoscenza. La via che è stata scelta, dove la fedeltà della traduzione non si misura attraverso la dicotomia tra lingua d’arrivo e testo originale ma nella necessità di conservare ciò che non si può assolutamente perdere dello stile di Luca, ha cercato di riprodurre l’operazione che ogni poesia compie sul linguaggio attraverso la pratica della letteralità.
Prima di togliere qualche ambiguità intorno a questa scelta, che nulla o ben poco ha a che fare col tradurre parola per parola e che segue un lavoro di ricerca sul ruolo della lettera in Deleuze e Lacan, apro una piccola parentesi sulle grandi linee che sostengono un tale approccio della traduzione. Se si ammette il presupposto secondo cui la funzione (anche se, parlando di Luca, bisognerebbe dire cre-azione) principale della poesia non è la comunicazione, tradurre non può consistere nell’estrazione di un messaggio da trasferirsi, poi, in un altro codice linguistico; il cambio di prospettiva pone il traduttore nella necessità di prendere delle libertà rispetto una semplice operazione di codifica. Che Il Compito del traduttore (con cui Benjamin segna l’età moderna della traduttologia) non finisca mai di suscitare nuove letture è indice, oltre che del carattere fortemente letterario dell’opera – che moltiplica all’infinito le possibili interpretazioni -, di ciò a cui va in contro il pensiero quando tenta di pensare la traduzione: un allargamento di campo che finisce per inghiottire il pensiero stesso, il quale risponde attraverso la produzione di immagini, a segnalare che la traduzione è sempre questione di forma e che ogni forma è particolare. Pensare la traduzione è dunque praticarla e tradurre è creare una nuova immagine con cui il pensiero si possa confrontare.
Con la traduzione qui proposta non si intende presentare un nuovo paradigma, né, tuttavia, trincerarsi nello sperimentale, come se si trattasse di ottenere qualcosa di più dal testo originale o se si volesse operare diversamente da quella che sarebbe una traduzione canonica. Si è tentato di far fronte, linguisticamente, all’evento di cui parla Lacou-Labarthe : “La poesia avviene là dove cede, contro ogni aspettativa, il linguaggio[3]”. Tradurre l’Héros-Limite, che rompe e sospende la respirazione regolare del francese, che sincopa la lingua ogni volta che crea un’aspettativa di senso, che fa irrompere il soffio che nella lingua respira nonostante tutto, è stato tradurlo alla lettera. La letteralità in questione non è, tuttavia, una fedeltà al significante che, come viene detto negli ultimi testi di Jacques Lacan[4], ha con la lettera un rapporto di “littoralità” come ciò che fa sì che due cose che non hanno nulla in comune, come terra e mare, lingua e reale, si tocchino. Seguire la lettera non è cercare l’aderenza delle parole alle cose, non è quella l’unità linguistica minima e non è la pienezza della traccia che si cerca. Ancora una volta, ci si rifà alla concezione della lettera della Psicanalisi, come possibilità per la scrittura di incidere uno spazio vuoto in cui possa emergere il reale, in cui possano prodursi effetti dell’ordine della jouissance più che del sens.
Questa ricerca di un altro senso, che rileva dalla connessione di lettere e suoni, un senso più intimamente legato al corpo ed agli effetti che la scrittura ha su di esso, a discapito del senso dato, questa ricerca è la pratica della letteralità in traduzione. Essa si è mossa tra alcune coordinate essenziali che hanno guidato la traversata dell’italiano in un terreno fatto di carenze di senso ed effetti di inclusione corporea. Due punti. Sono i due punti dell’equazione traduttiva, che non può stabilire alcuna equivalenza ma è come un’equazione chimica alla cui freccia subentri una possibilità di ritorno, o perlomeno una necessità di voltarsi e guardare nello spiraglio dei due punti. Sono i due punti, poi, dell’estetica e della politica, che tendono l’arco con cui la poesia mira alla realtà. Il primo è il ritorno all’oralità della poesia italiana, il secondo l’abbandono della retorica della madre-patria/lingua per la parola dello straniero-esiliato/migrante. A ciò è servita la letteralità, a riprodurre i rapporti fonetici attraverso una manipolazione della materia consonantico-vocalica del testo; e come procedura di straniamento che agisca dall’interno della lingua, dalle sue risorse «naturali», filologiche.
La traduzione di Héros-Limite è stato un tentativo di far rivivere il senso da cui è colpito il lettore nel momento in cui viene privato dal rapporto di familiarità con la lingua, momento in cui gli effetti che il testo scatena non derivano più da ciò che esso vuole dire. Da un testo all’altro e dal testo al corpo, la traduzione di questa poesia si vuole fedele unicamente alla metafisica di Luca, cioè il rinvio della sua poesia ad un aldilà che non è senso astratto, da decifrare, ma è la sua voce, come corpo in vibrazione:
“[…] Nel linguaggio che serve a designare gli oggetti / la parola ha solo un senso o due / e tiene prigioniera la sonorità / Spezziamo la forma in cui si è fissato e appariranno nuove relazioni / La sonorità si esalta / i segreti assopiti in fondo alle parole risorgono / Chi li ascolta è introdotto in un mondo di vibrazioni che richiede una partecipazione fisica contemporanea all’adesione mentale […] Meglio, la poesia si eclissa davanti alle sue conseguenze / In altre parole / IO M’ORALIZZO[5]”.
“La poesia si eclissa davanti alle sue conseguenze” suggerisce la direzione che prende la ricerca di senso, non nella successione lineare delle parole, che sono peraltro esplose in frammenti fonetici, ma là dove l’ “adesione mentale” si sdoppia in una “partecipazione fisica”. La traduzione costituisce un dispositivo di amplificazione del processo di deterritorializzazione al quale introduce la poesia di Luca: essa non conosce alcun universale rispetto a cui la sua riuscita possa essere giudicata. Essa si muove sul piano orizzontale delle giustapposizioni letterali e trova, in punti d’intensità della rete creata, l’uscita del teso in un piano di risonanza che al posto di restituire un senso precedentemente dato, produce effetti nuovi ad ogni ascolto: eco del corpo[6].
[1] “Etranjuif” – unione delle parole “straniero” ed “ebreo” – è il termine con cui Luca definiva se stesso.
[2] La capacità di far balbettare la lingua è ciò che caratterizza lo stile di Luca secondo Gilles Deleuze, Cfr. « Balbettò » in Critica e Clinica, Raffaello Cortina, Milano, 1997.
[3] Philippe Lacoue Labarthe, La Poésie comme expérience, Christian Bourgois, 1986, p. 74 (traduzione di chi scrive).
[4] “Littorale” è il termine con cui Lacan definisce il modo in cui la lettera si trova tra due dimensioni, non come frontiera, che designerebbe la possibilità di un passaggio senza soluzione di continuità, ma come litorale. Il termine è stato introdotto nella conferenza intitolata Lituraterre pubblicata sulla rivista “Littérature” nel 1971 e poi all’interno del Seminario XVIII nel 2006.
[5] Ghérasim Luca, Je m’oralise, Corti, 2018 [trad. di chi scrive].
[6] L’Echo du corps è il titolo di una poesia presente nella stessa raccolta da cui è tratta Héros-Limite.
Di primo acchito potrebbe sembrare un tentativo serio, nuovo, di traduzione. Ma la traduttrice comincia da subito a poetizzare e sceglie la rima, piuttosto che mantenere l’allitterazione: « la vie-vice, la vivisection de la vie » la “vita-vizio” diventa « vita sensazione ». Ma andiamo avanti “je dis ò, je dis jour et oui” (au-jour-d’hui) vale a dire “io dico oggi e dì” (oggidì) oppure “oggi-giorno”; mentre la scelta “dico oh, dico giorno e si ma no” della traduttrice, non si comprende affatto. Potremmo anche parlare dei riferimenti che si sono persi per strada, a Lautréamont, Mallarmé, Hegel. Sostituire “suicidato” con “ucciso” significa non conoscere appieno l’opera di Ghérasim Luca, i suoi “tentativi di suicidio”. Poi ci sono questi passaggi incomprensibili dalla prima persona (scelta da Luca) alla terza persona. Naturalmente più si va avanti e più il testo tradotto risulta illeggibile, non balbettante, ma zoppicante, sgangherato, s’inceppa perché le omofonie e le paronomasie si sono perse per strada. Bisogna anche aggiungere che il testo di Luca riprende e rielabora citandoli testi anteriori, che la traduzione sembra non vedere (lava-meteorica). In poche parole, non è il testo di Ghérasim Luca; come se un traduttore della Bibbia sostituisse a un generico serpente un boa… la traduttrice pretende emulare Luca, e perde di vista il suo compito: tradurre.
« comme la, comme lave, comme la vie » (Ghérasim Luca);
«come la va, come lava» (Laura Giuliberti);
questo è il risultato di un master in traduzione letteraria? È uno scherzo, vero?
Ogni volta che qualcuno osa tradurre Luca, vieni a fare la tua lezioncina. L’hai già fatta a tutti, qui in NI. Che un traduttore pretenda di avere un monopolio sulla traduzione di un testo originale è una simpatica aberrazione. Hai espresso il tuo giudizio, bene. Se hai intenzione di entrare in un loop di esternazioni traduttologiche, verrai bannato.
Inglese, mi piace molto il tuo “verrai bannato”… (ti riconosco); io non faccio lezioncine, penso e scrivo. Contro, qui e altrove. Ma come vedi, ho argomenti. Invece, tu rispondi per altri, ti ergi a difensore dell’istituzione. Quando un certo Raos ha fatto a me la lezioncina, non mi sono tirato indietro. Voi (passaggio voluto) non fate differenze, chiamate traduzione qualsiasi cosa, anche questo: https://www.nazioneindiana.com/2013/11/10/gherasim-luca-due-poesie/. Voi fate della letteratura un passatempo per signorine. Vi spaventate per due parole assennate/assestate. Torno al tu: si vede che hai letto poco e male; dovresti leggere Beckett, le sue lettere, per capire cosa significa esternazione, traduttologica o meno.
E’ il tono che fa tutto Riponi. E il tuo è denigratorio, quindi non invita al confronto. E l’insistenza ancora meno. Rimaniamo a questo scambio, che è sufficiente.
È il tono che ci vuole e che fa la differenza. Prova a pensare al tuo. Sono ostinato quando si tratta di dire la verità. Potrò dire che trovo che quella traduzione è imbarazzante, anche se corredata di commentario? No. Chi e che cosa difendi? Te stesso, le tue scelte. Non ti va bene l’argomentazione, non ti va bene l’ironia, non ti va bene la reiterazione.
Nel Compito del traduttore, Walter Benjamin dice che la traduzione è legata all’originale come la tangente al cerchio, lo tocca in un punto infinitamente piccolo del senso per proseguire la sua traiettoria secondo una legge che è al contempo di fedeltà et di libertà del movimento linguistico.
Che vengano qui messe in evidenza delle pretese sviste di Laura Giuliberti nei confronti dell’originale è da prendersi come prova del successo di questa giovane traduzione. Se questa anima dibattiti, se ci mette in condizione di tornare all’originale e di rileggerlo, è riuscita e giustificata. La traduzione non aspira, non dovrebbe mai aspirare a una qualsiasi esattezza che la mettesse in posizione di oscurare le traduzioni esistenti e quelle a venire. Le traduzioni si uniscono in danze intorno all’originale, sono numerose e ossessionano il lettore estraneo all’opera o, al contrario, troppo familiare con essa.
Ringrazio Laura Giuliberti per questa lettura-traduzione-riscrittura di Gherasim Luca. Ogni tentativo di attaccare la libertà, giustamente presa, in questo slancio traduttivo tradisce, a parer mio, una debolezza, quella del non volere riconoscere che la poesia va letta, tradotta, anche quando Hegel e Lautréamont forse sfuggono, perché bisogna pur cominciare da un verso o da una poesia quando si è giovani e brillanti, bisogna pur cominciare a scrivere quando si è una donna dal talento folgorante come quello di Laura Giuliberti.
Quando Dante Gabriel Rossetti traduce Guido Cavalcanti in inglese, egli ignora una gran parte dei riferimenti al Grand Chant che si celano nelle Rime, ma traducendolo conferisce alla poesia del toscano una leggiadria che lo farà divenire, mezzo secolo dopo, il riferimento poetico dei più grandi poeti americani del modernismo.
La pretesa verità del senso non è affare dei traduttori, l’invenzione di nuove forme d’espressione, quella sì.
Torneremo – credo – tra qualche anno su questa traduzione della Giuliberti e vi scorgeremo i primi tratti di una vena poetica singolare e autentica, quella di una donna che conosce la filosofia e la poesia occidentale, che non ne è schiacciata, che porta con delicatezza e raffinatezza la sua conoscenza, procede a tratti, non risponde alle accuse perché la formulazione del suo progetto traduttivo e poetico è lì a giustificarla e a proteggerla.
Viene detta una frase importante sulla traduzione: “se ci mette in condizione di tornare all’originale e di rileggerlo è giustificata”. Questo è il fulcro della questione: ci mette la traduzione nella possibilità di tornare all’originale, o marca piuttosto qui un’impossibilità di tornarvi. Ripartiamo allora dal Compito del traduttore: “L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve… risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono”. A questo si riallaccia anche il discorso sulla confusione delle lingue: il compito del traduttore consisterebbe nel restituire in una lingua pura il senso confuso sotto tante lingue. Compito infinito, perché secondo Benjamin dovrebbe portare alla liberazione dal senso; i simboli, i segni, dovrebbero dire alla fine solo se stessi. Estinzione del senso. Derrida va oltre e riconosce solo al testo sacro la pura traducibilità “indiscernibilità del senso e della lettera”. Il punto è proprio la mancanza di senso (nel testo sacro) e il cedimento del senso “d’abisso in abisso” nelle traduzioni di Sofocle di Hölderlin. Ma Derrida riesce anche a tornare sulla terra, al lavoro del traduttore, citando “… di fatto la traduzione non è il risultato di un processo automatico; per le scelte che opera tra più parole, più espressioni, quella del traduttore è un’opera dello spirito; ma, beninteso, non deve modificare la composizione dell’opera tradotta, perché è tenuto al rispetto di quest’opera.” A questo punto, forse, sarebbe più utile citare, a proposito del metodo di lavoro di Ghérasim Luca, un altro libro di Walter Benjamin “I Passages di Parigi”, composto da un montaggio di frammenti (citazioni). Ghérasim Luca fa spesso questo lavoro di montaggio, citando e citandosi. C’è una poesia costruita interamente a partire da citazioni di un libro di Gracq, senza parafrasare, interpretare, ma tenendosi alla lettera. Questo per dire che Ghérasim Luca non usa mai parole a caso. “Voyeurs” non può dunque diventare “veggenti”, così come tante altre parole non usate a caso in Héros-Limite. Bisogna dunque fermare le danze e mettersi d’accordo sul concetto di traduzione, che non può mai essere una libera riscrittura. E, purtroppo, in questo caso la traduttrice danzando perde di vista la durezza della lingua di Ghérasim Luca, basata sulle allitterazioni sillabiche. “La tour, la tourmente” (torre/tormenta) diventa, ad esempio “la giostra, mareggiata”, per il suo diletto poetico; ma non è ciò che vuole Luca, che ha sostituito da tempo la parola “poesia” con “ontofonia” . La forza della poesia di Luca sta proprio nella ripetizione dei suoni, che poi è qualcosa che si è sempre cercato nella lingua parlata e nella poesia. La stessa cosa fa Louis Wolfson per sbarazzarsi dell’inglese attraverso le lingue straniere, recuperando il suono (tree/arbre). Quindi ciò che si rimprovera a questa traduzione è proprio ciò che non piaceva a Luca, l’abbellimento poetico. Paradossalmente, poi, là dove Luca non “balbetta”, la nostra traduttrice eccede e finisce per cadere nell’avanspettacolo (e co e co e co e come son contento / nel cu nel cu nel cu nel cuore me lo sento), come nell’ultima strofa : “comme une trappe infinie sous la tour des trous infinis, il frappe le grand tout en plein cœur”; “dove ca, dove ca, dove cadono i buchi infiniti, col, col, colpisce il bel tutto al cu, al cu, al cuore”. Quindi, se è una “giovane brillante / un talento folgorante” (tutelato dall’Unesco) lo scopriremo solo vivendo.
Non credo di tradire il pensiero di Derrida affermando che i suoi scritti non potranno mai esser branditi, se non per scherno, in un discorso tanto fallo-logo-centrico.
E vediamolo questo pensiero di Derrida! Come se Derrida non avesse mai ricevuto accuse del genere. Più che normale quando si usa l’ironia e l’humour. Leggere Lyotard. Sarebbe così semplice se non si andasse avanti con certe affermazioni apodittiche, ad esempio sulla verità del senso che non è affare del traduttore. E il corredo di incensamenti. In ogni caso, Derrida pone due questioni fondamentali: un’opera trova tra i suoi lettori il traduttore capace; la traduzione di un’opera è un’esigenza. Quando una traduzione cambia le parole, ne aggiunge di nuove, non siamo più nella creatività dell’espressione. Ci spostiamo sul terreno della falsificazione. «E siccome nessun senso si lascia cogliere, trasferire, trasportare, tradurre in un’altra lingua come tale (come senso) richiede immediatamente la traduzione che sembra dall’altro lato rifiutare. È traducibile e intraducibile» (JD). Nel caso di Ghérasim Luca bisogna in anticipo scorgere i pericoli di preziosismi e libere interpretazioni. “Toccava a me amare, toccare, schivare, il materasso, il metarazzo, la metaragazza metafisica e tonda e, toc toc, toccava a me, era là, era la sfida, è così, si si, mi si, mi son, mi su, mi son subito vòlto al”. « C’était à mon tour de m’aimer, de me méfier de cette fille, de cette métafille métaphysique et ronde, c’était mon dé, mon défi et c’est ainsi, si si c’est ainsi que je me suis tour tourné d’un coup vers ». Qualunque lettore avvertito comprende la differenza tra la lingua di Luca e l’ingenuo divertissement di tipo futuristico (bim bum bam, toc toc, mi si mi son mi su). Inevitabilmente alla fine si viene posseduti non dallo spirito di Luca, ma da quello di Lino Banfi.
Lei ignora chiaramente che io sono una specialista di Derrida e che dunque è ridicolo il fatto che Lei lo citi rivolgendosi a me per fare una lezione della quale non sento il bisogno. Cercavo di farLe capire che non ci si rivolge così a una giovane persona, non mi sembra adeguato. Se Lei la conoscesse, sentirebbe vergogna ad esser stato tanto scortese nei suoi confronti.
Quanto alle questioni poste da Derrida, si sbaglia, sono di Benjamin prima di tutto, Derrida le legge-scrive.
ottimo, Francesca.
effeffe
Grazie, caro Francesco!
fm
Francesca Manzari, se lei è una specialista di Derrida, non sarà certo la sola. Preferisco leggere Derrida e non gli specialisti di Derrida. Con tutto il rispetto, so quello che dico. Cito il testo di Derrida “Des tours de Babel”, prima di tutto per me stesso. Le lezioni le lascio ad altri. Io non le vengo a dire che sono uno specialista di Ghérasim Luca, tanto mi parrebbe ridicola la cosa. Non si tratta poi di scortesia verso qualcuno. Ma di dire ciò che si pensa. Le critiche fanno crescere, la piaggeria è deleteria. Critiche ne riceviamo tutti. Mi hanno rimandato a tradurre altro, piuttosto che GL e non l’ho fatto, anzi ho fatto di peggio. Certo, se si ha paura dell’ironia, dell’humour, bisognerebbe stare lontani dalla letteratura.
Curioso quanto bello scambio. Da mandare avanti. Alla premiazione per il Geiger, Serena Vitale ricordava quando da giovane traduttrice tradusse non so che russo (Puskin forse) e fu stritolata o strillata – comunque accartocciata criticamente da, credo, Ripellino, suo maestro, o altra critica. Stritolata, è poi diventata Serena Vitale. E’ un regalo il rigore critico e l’approfondimento didattico d’Alfredo. Ed è un regalo anche il passo di danza e la difesa di Francesca. Perché ecco, il testo (che è l’autore della traduzione) è un vuoto che crea le sue urgenze intorno a noi piccoli-pieni, e che sia finito a fare da pista da ballo per una prova di fine master (e che questa giunga fin qui in NI) ricorda la lezione più importante: non si dà appartenenza in poesia. E’ un regalo e un invito a osservare cosa succede intorno all’opera e l’autore. Anche quando la traduzione è insopportabile per i canoni personali. Perché insomma la via positiva (quella transductologica), per tradurre Lucà, non è sufficiente. Non basta la lingua e la conoscenza. Serve riattivare il Grande Buco. Guardando, quindi, a tutto ciò che possiamo sbagliare. E sbagliare il più spesso possibile, per andare avanti. “Essere competente, in arte, è perdere ogni potenziale d’idea” (Beuys). Insomma dico soltanto che è inutile serrarsi dietro i ragni traduttologici quando l’autore è intraducibile: l’autore è un mondo, o la fine di un mondo, non una lingua. Per portare L(i)ucà in Italia occorre l’incontro tra il sapiente e il ballerino. Perdere per prendere insomma: da entrambi i lati della diatriba. E avanzare sul pensiero traduttivo attivo: En finir avec lalautore, e lalalangue nationanale: e tradurre come espressione del pensiero in movimento, anche quando dal regolatissimo si scivola verso il leggero. Penso a Spicer naturalmente: “Il fatto che non conoscessi lo spagnolo abbastanza bene per tradurre Lorca è stata la ragione per cui sono potuto entrare in contatto con Lorca”. E al desiderio (personal) di vedere un tal L)iukà discendere di nuovo nelle entrailles della lingua, e senza dovere od uffizio di equivalenza, magari, riaprirla, come cosa viva, che passa. a.f.
In parte capisco, in parte no. La lingua di Luca, a mio avviso, è estremamente controllata. Estremamente logica e ripetitiva. “Il fenomeno, l’apparire, infatti, è il movimento del nascere e del perire, movimento che non nasce né perisce esso stesso, ma che è in sé e costituisce la realtà e il movimento della vita della verità”. Più vicina alla “Fenomenologia dello Spirito” che a un’aria musicale. Si dovrebbe tradurla così come si traduce un testo filosofico. Non è parafrasabile. Non si possono eseguire variazioni. Dietro l’angolo c’è sempre il lirismo, o il gioco fine a se stesso. “L’autonomia del significante rispetto al significato” non significa che qualcuno, domani, possa pensare di riscrivere “Un coup de dés” di Mallarmé. Anche se Luca inverte la formula. Possiamo anche pensare alla costruzione di “Igitur” e a certe connessioni: “je voyais le personnage d’horreur”.
Les froides voix, l’effroi des froids voyeurs ment, elle ment, ils mentent, les froids voyeurs mentaux mentent devant la vie, devant la virginale obscénité qu’ils n’ont pas, non non ils n’ont pas pu voir la baie là-bas, la bouche aimante obscènement ouverte et bouchée au-dessous de son vent, de son ventre impur, infini, prude, tic impur, impudique, pour eux cette bouche ferme, fermée, bouchée et obscènement infinie… (GL)
Il candore vocale, l’orrore vegetale, il candore veggente mente, la mente mente, il candore del veggente mentale mente sulla vera, sulla scena vera, sull’oscena verginità, che non ha, non ha visto, non ha avuto la vista, resta a bo, bocca aperta oscenamente aperta e ingombra, in, venti in punto, venti e trenta, nel suo ventre impuro, immenso, puritano, impuro tic, impudente, per lui questa bocca salda, sigillata, ingombra e indecente, indecentemente infinita… (l. g.)
Le voci gelide, lo sgomento dei gelidi voyeur (guardoni) mente, mente, mentono, i gelidi voyeur mentali mentono davanti alla vita, davanti alla verginale oscenità che non hanno, no no non hanno potuto vedere la baia là sotto, la bocca attraente oscenamente aperta e chiusa sotto il suo vento, il suo ventre impuro, infinito, pudibondo, tic impuro, impudico, per essi questa bocca ferma, chiusa, tappata e oscenamente infinita … (ar)
ma “venti in punto, venti e trenta” è di l.g. di sana pianta? non c’è nell’originale?
Io proporrei una cosa che ho scoperto di recente curando “La moltiplicazione delle dita” di Corrado Costa. Il primo articolo si chiama RABLESIANA, ed è: attorno ad un testo di Rabelais, sono stati convocati (condannati) dall’Accademia degli informi, un 5/6 autori a tradurre. In quel numero, appaiono dunque tutte le traduzioni, una diversa dall’altro, e quella di Costa è di una notevole eruditissima follia.
E se, su quell’esempio, facessimo lo stesso? Io anche mi ci proverei (non mi ha mai soddisfatto io ti floro tu mi fauni ecc. – l’assenza di omofonie in italiano è cosa seria… cmq).
Rien que pour voir queste fazioni accostate, che reazione provoca la loro vicinanza, priva di giudizio esterno (o giudizio dettato da una commissione scelta). L’attacco di Giuliberti su questo testo d’esempio, è infatti notevole. Si instaura una trama vocale inedita e la sua soluzione, a suono, non spiace affatto. Ma le prestazioni arbitrarie (anche “vegetale” mi sembra assente nell’originale), imitative, andrebbero se non altro argomentate o addossate all’area “rifacimenti” (come li chiama Fortini). E allo stesso modo anche l’esigenza filosofica che rispetti e mostri nella tua traduzione, è uno snodo da cui non si può sviare. Mi torna sempre in mente Jacqueline Risset su Dante. Che fare?
Chissà, se sei, siete, siamo interessati a questa scrittura collettiva… e se NI magari volesse abbracciarla? La logica e la ripetizione sono una parte, ma dall’altra parte ciò che tourbillonne è il suono, e il suono è irriducibilmente suono, mal tollera le “equivalenze” o “corrispondenze” traduttive: “L’uccello canta non perché ha una ragione, ma perché ha una canzone”.
C’è da tradire quindi, e da rispettare: ma lo si può fare appunto, collettivamente, osservando con gusto, divertimento e disciplina gli aspetti che emergono da traduzioni diverse, cioè da idee diverse. Potrebbe essere un’occasione, no?
A mio modesto avviso, non si può tradurre Luca senza un apparato critico, e note di traduzione. Non un fumoso discorso teorico, che alla prova dei fatti non regge. Come dici, e dici bene: “le prestazioni arbitrarie (anche “vegetale” mi sembra assente nell’originale), imitative, andrebbero se non altro argomentate o addossate all’area “rifacimenti” (come li chiama Fortini).” La Giuliberti parte all’attacco inventando di sana pianta. Non si capisce dov’è il suo rispetto della semantica. Non si capisce affatto perché se nel testo trova “eaux” (acque) lo traduce con “hauts” (alti), solo perché hanno lo stesso suono. E “venti in punto, venti e trenta” è qui (meno venti minuti): https://www.youtube.com/watch?v=g8VlnFb-AyY. Diciamo che si fa prendere molto, troppo, la mano. Non riaprirei la querelle sulla traduzione di “Prendere corpo”. Ci sono altri testi che sarebbe cosa buona e giusta tradurre. Follia è anche la traduzione di “Finnegans wake”. Ma mentre i francesi hanno cercato di renderlo leggibile “Diastole du sommeil au coeur du silence”, gli italiani hanno scelto un’altra strada “E supra la calma stolascesero le pulsazioni del sonno”. Allora devi cominciare a leggere per prime le infinite note di commento.
Buongiorno a tutti, devo dire che questa discussione, nonostante alcune asperità, che capisco, ma non condivido molto nella forma, mi riporta alla Nazione Indiana/laboratorio di qualche anno fa, in un mondo web diverso, senza questa preponderanza riducente dei social-conigliere aziendali, in cui qui lo spazio dei commenti era dedicato ad argomentare critiche e pensieri. Era, qui, ed è anche ora, la regola pubblicare inediti, traduzioni inedite di autori magari non tradotti e conosciuti in italiano. E’ il caso di Luca, la traduzione di Raos è del 2004, una mia del 2008, e se questo scatena interesse per un autore e diventa “di moda tradurlo”, ben venga… anche se ci sono osservazioni e critiche sulla traduzione.
Credo che Luca sia uno dei casi in cui la traduzione sia indissolubilmente legata al testo a fronte e a una spiegazione passo passo delle scelte di traduzione, poi certo ci vuole anche il coraggio di scegliere la propria, di riuscire o meno, essendo cosapevoli del divario a volte insormontabile, a rendere in un altra lingua, le allitterazioni, le inversioni di senso, i dètournement di logica, che non sono mai un gioco formale ma insiemi semantici intersecati di una nebulosoa sfuggente e glaciale, ma anche piena di tenerezze impreviste, che non lascia molto spazio a trucchi ed escamotages.
Credo che Franzoni con “scrittura collettiva” intendesse dei post di traduzione a struttura aperta, in cui si propone un testo e poi si invitano i lettori/tradutttori o aspiranti tali a fare una loro versione e a metterla a confronto con le altre e a discutere liberamente nella carne viva dei testi. Mi sembra una cosa molto interessante e non mi sento di lasciarla cadere nel vuoto.
Sono disposta a occuparmene volentieri creando una specie di rubrica: troviamo un titolo che ne esplichi il senso e un gruppo di testi e cominciamo. Che ne dite?
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“Chissà, se sei, siete, siamo interessati a questa scrittura collettiva… e se NI magari volesse abbracciarla?”
Non ho ben capito il punto, Andrea Franzoni. La scrittura collettiva sarebbe un gruppo di autori che si mettono nello stesso tempo sullo stesso testo? Perché no? E’ cosa che si fa spesso in residenze di scrittura internazionali, tra cui al CIPM di Marsiglia che tu conosci. Ma questo esercizio particolare non fa che ribadire un’esperienza ordinaria, la traduzione è sempre un fatto collettivo, perché se in genere c’è UN originale non c’è mai LA traduzione. Per quanto riguarda NI, da noi, ribadisco, si è sempre amato tradurre e, tanto più è evidente per un blog, senza sognarsi, in quanto traduttori, di avere l’ULTIMA PAROLA. La stessa rubrica parla di traduzioni italiane di testi finora inediti, di “prime” traduzioni. Buon lavoro a coloro che vorranno affiancare il loro a quello di Laura Giuliberti. Il mondo oggi è pieno di blog, riviste, piccole case editrici. Divertitevi. E dimenticatevi il monopolio.
sì, Andrea Inglese: uno stesso testo al centro – e un grappolo di traduzioni come piccioni intorno a un pezzetto di pane, chiamate ad onorare l’arte transduttiva, in tutti i suoi sen(s)i. Con commento o meno.
Credo che G. Luca sia un luogo dove potremo scoprire molte cose.
Per quanto riguarda Alfredo, torno a ripetere che, più che l’apparato critico, credo sia urgente e utile che la letteratura parli con chi parla. Le ottime annotazioni che hai fatto prima possono servire una causa comune (a me son servite), presente: la storia della letteratura, certo, ma quella che c’è urgenza di scrivere. La traduzione per equivalenze o l’indirizzo francese che prediligi, sono fenomeni culturali. Ad altri viene trasmessa, in seno alla stessa cultura, una cultura diversa. A me la cultura italiana è venuta dall’estero, e davvero tante cose ancora non le capisco. Allora che si fa?
Ad esempio, tu parli di rispetto della semantica; ed ecco come risuona (il suono che arriva sarà a ciascun diverso, nevvero?) il testo benjaminiano a fianco della questione “semantica”
—- “in poesia la comunicazione è la parte meno essenziale…Una cattiva traduzione è la trasmissione imprecisa di un contenuto inessenziale.” – —
Mettiamoci a tradurre ‘diversamente’ un testo di Luca, e poi vediamo cosa, come, chi perché, comment: avresti forse suggerimenti su quale testo?
Ne farei poi, come per le TENSO’ provenzali – dopo gli scanni intorno alla preda, un testo comune potrebbe, da solo, da sé, da sé solo de-signarsi…e vivere felice e corretto.
a.
PS. qualcuno mi darebbe ref sulla disputa intorno a Prendre corps?
Andrea Franzoni, si traduce sempre “differentemente”, una traduzione può essere “identica” all’originale solo a tratti. Ma si deve deviare dall’originale in senso positivo, nel senso che si deve ritrovarlo questo originale anche nella “fedeltà nella libertà” e inventività della traduzione, soprattutto la sua forma, là dove il contenuto equivale alla forma. Si deve comunque poter dire che, nelle traduzioni, ci sono delle scelte infelici, brutte. Potrebbe essere benissimo che nessuno tra i traduttori sia all’altezza di tradurre i testi di Luca (magari solo lui potrebbe farlo, come lo ha fatto dal romeno al francese). Giusto rimarcare l’inessenzialità del contenuto-comunicazione. Scrive Derrida: “La traduzione non aspira a dire questo o quello, a trasferire questo o quel contenuto, a comunicare una certa quantità di senso, ma a ri-marcare l’affinità tra le lingue.” Derrida legge in modo diretto Benjamin, il quale arriva a dire, dopo molte circonvoluzioni, “affinità in ciò che vogliono dire”. È a questo punto che Derrida pone la domanda essenziale: «Che cosa vuol dire “Ciò che vogliono dire”» ……..
Per quanto riguarda la tua richiesta direi, o questo testo “H-L” (come ti suggerisce AI), che è il testo d’esordio del Luca “francese”, o un testo simile “L’anti-toi”. Sulla disputa https://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/431-Gherasim-Luca-Prendere-corpo.html
Lei scrive, Francesca Manzanari, “Che vengano qui messe in evidenza delle pretese sviste di Laura Giuliberti nei confronti dell’originale è da prendersi come prova del successo di questa giovane traduzione. Se questa anima dibattiti, se ci mette in condizione di tornare all’originale e di rileggerlo, è riuscita e giustificata.” Di dibattiti sulle traduzioni, ce ne sono stati anche su NI. Guardi che accadeva quando abbiamo inaugurato questa rubrica nel 2004: https://www.nazioneindiana.com/2004/03/06/tre-sonetti/. Io stesso, sollecitato da una rivista accademica, feci un bilancio del vantaggio di tradurre in rete, in contesti aperti – ossia aperti a traduttori professionisti e non professionisti, a poeti e studiosi, giovani o meno. https://www.nazioneindiana.com/2016/06/21/dispatrio-e-altre-rubriche/ Ora, per innescare un pur estemporaneo dibattito, come quelli che si fanno in rete, bisogna almeno rispettare il proprio interlocutore, avere qualche consapevolezza dei propri limiti, e possedere possibilmente una competenza lessicale di base, che possa rendere chiara la differenza tra sarcasmo e ironia. Detto questo, anche se dibattito non c’è stato, le cose da Lei scritte potranno senz’altro essere utili a qualche lettore, e ancor di più, ovviamente, è stata utile la traduzione di Laura Giuliberti per più motivi. E vi saranno senz’altro altre occasioni, con interlocutori in buona fede, per apprezzare, discutere e confrontarsi con questa sua traduzione che a me è molto piaciuta.
Andrea, avevo completamente dimenticato quelle mie traduzioni di Roubaud. Grazie di aver(me)le riesumate!
Roubaud.
mah! al secondo verso…
« le temps est l’inconscient de la terre étale »
“terre étale”… c’è un aggettivo… “terra in stanca”
come “fleuve étale” “mer étale”
o “terra ferma”
non vedo come si possa tradurre con un verbo!?
con l’enjambement, n’est-ce pas?
pas du tout
Credo che, dopo la pubblicazione di “La Fine del mondo”, prima traduzione vera dell’opera di Ghérasim Luca, si sia scatenata in molti una voglia di imitare. Alcuni con l’intento poco nobile di fare delle copie poco riuscite. Altri, soprattutto dall’interno dell’istituzione universitaria, con la voglia di andare oltre, di mostrarsi originali. Italianisti o non si sa che cosa, ma sicuramente con una conoscenza limitata della poesia contemporanea. Bisogna dire che la maggior parte delle persone che si trovano dentro le università non sanno dove andare a parare, non fanno ricerca, ma usano la rete per capire dove tira il vento. Eroi limitati e poco avvertiti di un panorama letterario, soprattutto in area francese, che meriterebbe maggiore attenzione editoriale. Dagli anni 80, se saggi importanti se ne sono ancora pubblicati, molti però ignorati; dal lato della letteratura, poesia, ovvero della scrittura creativa, abbiamo pressoché abdicato, non si traduce perché non si fa ricerca, in campo editoriale e universitario.
Al posto tuo Andrea Inglese non starei a rimarcare i limiti degli altri. Puoi avere tutte le competenze lessicali di base, ma se quello che scrivi è noioso, accademico, se fai passare ogni cosa perché tizio è amico tuo, o redattore di Nazione Indiana, significa che non sei intellettualmente onesto (e lo si vede dai tuoi link, solo tu capisci la relazione: GAMMM, Poetarum silva, Carteggi letterari). Credi che cambi molto se chiami la mia ironia sarcasmo? Io vedo altri limiti, soprattutto nelle traduzioni… e nella miriade di copiature in campo universitario… che tu non vedi… la buona fede non è certo dalla tua parte…
Ci sono stati in passato su Nazione Indiana scambi veramente utili, prima che la regola diventasse disastrosamente il politicamente corretto… e la censura…
Buongiorno a tutti, devo dire che questa discussione, nonostante alcune asperità, che capisco, ma non condivido molto nella forma, mi riporta alla Nazione Indiana/laboratorio di qualche anno fa, in un mondo web diverso, senza questa preponderanza riducente dei social-conigliere aziendali, in cui qui lo spazio dei commenti era dedicato ad argomentare critiche e pensieri. Era, qui, ed è anche ora, la regola pubblicare inediti, traduzioni inedite di autori magari non tradotti e conosciuti in italiano. E’ il caso di Luca, la traduzione di Raos è del 2004, una mia del 2008, e se questo scatena interesse per un autore e diventa “di moda” tradurlo, ben venga… anche se ci sono osservazioni e critiche sulla traduzione.
Credo che Luca sia uno dei casi in cui la traduzione sia indissolubilmente legata al testo a fronte e a una spiegazione passo passo delle scelte di traduzione, poi, certo, ci vuole anche il coraggio di scegliere la propria, di riuscire o meno, essendo cosapevoli del divario a volte insormontabile, a rendere in un altra lingua, le allitterazioni, le inversioni di senso, i dètournement di logica, che non sono mai un gioco formale ma insiemi semantici intersecati di una nebulosoa sfuggente e glaciale, ma anche piena di tenerezze impreviste, che non lascia molto spazio a trucchi ed escamotages.
Credo che @andrea franzoni con “scrittura collettiva” intendesse dei post di traduzione a struttura aperta, in cui si propone un testo e poi si invitano i lettori/traduttori o aspiranti tali a fare una loro versione e a metterla a confronto con le altre, a discutere liberamente nella carne viva dei testi. Mi sembra una cosa molto interessante e non mi sento di lasciarla cadere nel vuoto.
Sono disposta a occuparmene volentieri creando una specie di rubrica: troviamo un titolo che ne esplichi il senso e un gruppo di testi e cominciamo. Che ne dite?
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Che bello sarebbe. Ma di mio, conoscendo l’ingordigia ‘social’ e la saturazione della quantità di informazioni (la quale viene a porsi contro la leggibilità talvolta). Riunirei con coscienza di direzione d’orchestra, intorno ad ogni testo/arena, i giocatori che meglio possano servire non tanto la riuscita di una traduzione (manteniamoci lontani dalle competitività, no?) quanto quell’aspetto della traduzione che esonda dal puro linguistico-individuale, cioè l’aspetto storico-culturale. Se ‘i giocatori’ o gli invitati (in numero variabile ma non infinito) sono invitati con un certo spirito (che può essere ironico, faceto, serio-universitario, serio-professionista, serio-filosofo vs serio-militante, ecc.) è lo ‘spirito’ (della rubrica) che parla, e non l’individualità. E per far questo è spesso bene delimitare un poco il campo, con le aperture debite a chi dagli spalti si vuole farsi le corse nello stadio. Ma questo è il mio punto di vista, e se riuscissi davvero a organizzare questa rubrica, è evidente che saresti tu, Orsola, a prendere una scelta di questo tipo.
Per chiudere con il di sopra dibattito. A forza di vedere linguisticamente, ci si dimentica che l’importanza di una traduzione non viene data (solo) dalla lingua, ma dall’edizione e da tutto lo spirito che circola intorno al messaggio e nutre i suoi locutori. E’ quello che cercavo di dire: se il messaggio è perfetto ma è solo, c’è una funzione del linguaggio (quella fàtica) che non è stata tradotta. Occorre pensare la traduzione in maniera più ampia, andare oltre la sua testualità, perché la pura testualità sta uccidendo la parte più bella della creatività: lo sbaglio perpetuo.
una proposta di titolo per la rubrica: ” Fraintendimenti ” non ricordo più chi parlava dei “fraintenditori”…
Andrea Franzoni il commento era finito nello spam! A volte capita… l’ho messo in chiaro.
Orsola Puecher, il punto di partenza è questo: ci sono persone che accettano le critiche e sono pronte a ribattere. Altre vogliono stare in un limbo, ben protette da qualche istituzione, associazione, fondazione. Altra cosa: il lavoro di traduzione presuppone che si sia letto e bene un autore. Presuppone un’etica. Tutti, oggi, con gli strumenti che offre la rete, vogliono improvvisarsi traduttori, come si improvvisano poeti o scrittori. I “limiti” di chi improvvisa una traduzione sono sempre evidenti. La “creatività” di un Pasolini o di un Klossowski, nelle traduzioni dal greco o dal latino, non è in discussione. È in discussione la sufficienza, l’improvvisazione, la mancanza di una minima nota di traduzione. Senza andare fino al “passo a passo” che invochi. Ma il testo a fronte andrebbe sempre messo in rete, laddove non si può fare affidamento sulla “correttezza” del traduttore. Purtroppo l’uomo è l’animale che imita. Se ci fossero lettori/traduttori della poesia francese contemporanea, avremmo traduzioni della poesia francese contemporanea. Si conoscono pochi titoli importanti tradotti, dopo “Stanze” di Pleynet. Che, insieme a Denis Roche, troviamo nei “Poeti di Tel quel”. Su questo dobbiamo cominciare a interrogarci. Oggi abbiamo tanti che traducono il già tradotto, che si tratti di saggistica o di poesia. In alcuni casi abbiamo qualcosa in più, in altri niente di niente. Ma difficilmente troverete un traduttore che riconosca i suoi predecessori.
Gentile Orsola,
proponevo, in un post che non è poi apparso – mistero della reta – il titolo di “fraintendimenti”, da un pittore che parlava di “fraintenditori”.
suggerivo inoltre di fare inviti ad hoc intorno a tal o tal testo, comporre un arena, e far giocare i giocatori designati a bella posto, di modo da far trasparire che è “lo spirito” che si traduce, e che lo scopo non è l’eccellenza del testo, ma l’eccellenza del gesto. insomma esplorare, ad ogni nuovo testo, quante energie possono essere sprigionate da un confronto tra poli opposti.
Idee.
Mi sembra un’ottima idea Orsola. Già cosi avvenne, spontaneamente, in vari thread ai post di “dispatrio”. Ma se tu volessi farlo, i commenti-varianti traduttive potrebbero essere integrati in homepage progressivamente. E certo, cio’ varrebbe una nuova rubrica.
sarebbe cosa buona e giusta, cara Orsola
effeffe
Datemi un po’ di tempo per pensare a come organizzare il tutto.
E intanto si potrebbe fare una piccola lista di testi interessanti e inediti.
Io dico Anne Marie Albiach.
Redattori indiani battete un colpo voi pure…
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Mi piacerebbe proprio capire quante delle nostre poete o traduttrici di poesia hanno letto Albiach…