Soprattutto l’erranza: Stefano Scodanibbio, geografo degli strumenti

 

 

«E poi Lima ha fatto una dichiarazione misteriosa. Secondo lui i realvisceralisti contemporanei camminano all’indietro. Come all’indietro?, ho domandato. “Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta, verso l’ignoto.”» scriveva Bolaño ne I Detective Selvaggi, libro di appigli vertiginosi, montato per svolte e diserzioni come la vicenda di quegli uomini (“messicani perduti in Messico”) per la cui vita è ciò che ha da essere subitamente trangugiato. Smarrimenti e punti di non ritorno: una specie d’intimità con l’ignoto condivisa anche da Stefano Scodabbio, che molto amava Bolaño.

Non abbastanza per me è il titolo della raccolta di suoi scritti e taccuini recentemente pubblicata da Quodlibet, a sette anni dalla scomparsa di quello che è stato -allo stesso tempo- uno dei maggiori contrabbassisti dell’epoca moderna e colui che ha tracciato in ogni partitura il solco di una ostinata minoranza. Un libro simile ad un tumulto o ad una dottrina randagia che continuamente rimuta ogni cosa. Un libro scritto come glossa furibonda ad una stagione ugualmente furibonda (i taccuini vanno dal 1977 sino al 2011), e che si legge ora come un incantamento, ora come il seguito di una lunga insonnia.

Nell’introduzione, il filosofo Giorgio Agamben (che ha curato il volume insieme a Maresa Scodanibbio) fa riferimento a quello che i medievali chiamavano ductus: «non forma e sostanza, ma gesto e flusso.». Affrontare il libro richiede allora di calarsi in questo flusso, in un nugolo di traiettorie rotte, umori calcinati, viaggi e voragini, perché se Paracelso diceva che «fra le cose si sta come tra suoni di campana in una foresta di notte»,  Scodanibbio impiglia assieme musica e letteratura proprio per mutarle in lanterne da avanscoperta, e così afferrare la consonanza inedita, la regione delle materie dissomiglianti dove alloggiano guizzo e sedimentazione, divoramento e principio di continua rinascita: «scoprire la forma ogni volta, e non una volta per tutte.»

Una raccolta, questa, in cui s’incontrano -attraverso ritratti o improvvise illuminazioni- maestri e compagni di tragitto come Edoardo Sanguineti, Luigi (Gigi) Nono, Giacinto Scelsi (“il grande anonimo del ventesimo secolo”), Luciano Berio (Scodanibbio gli dedica le categorie calviniane di molteplicità, rapidità, esattezza), Iannis Xenakis e Karlheinz Stockhausen, la cui presenza a Macerata -in occasione della Rassegna di Nuova Musica, fondata da Scodanibbio nel 1983- viene così tratteggiata in un appunto:

«Stockhausen a Macerata. Con Mario Bartolotto chiacchierando intorno al teatro Lauro Rossi. “Noi due -io e te voglio dire- non siamo male, ma il genio è il genio.»

 

 

Una raccolta che -a partire dal titolo- vivifica i vuoti come sillabe feconde per restituire la vibrazione raggelata, la cartilagine tra cosa e cosa, l’ininterrotta circolazione di forze: quello che dell’esistenza, cioè, non può essere in alcun modo inventariato, e che transita -a strapiombo- tra appunto e appunto. Una forma di topologia sempre incarnata nell’esilio, in un luogo-reticolo: «Alloglotti della musica? (le moltitudini di Pessoa, i rizomi di Deleuze, je est un autre, ecc.) Necessità intima degli esili, della spersonalizzazione.»

Ne L’uomo senza qualità di Musil, Urlich descrive l’avventuriero come «una professione che trasforma la vita in una forma di eterno fidanzamento». Questo eterno fidanzamento mi sembra (almeno per ora) la definizione più adatta a colloquiare con la sostanza sovrabbondante del testo di Scodanibbio, con i suoi rivolgimenti attoniti e volatili, con il suo Messico – Terra di Nessundove che ha l’ampiezza di un’intera geografia dell’anima-. Soprattutto con il suo viaggio inconcludibile,  quel Voyage that Never Ends divenuto poi titolo del romanzo musicale lavorato da Scodanibbio in linee d’abbrivio -dal 1979 al 1997-, vera e propria circumnavigazione del contrabbasso che -forzandone le secolari oppilazioni- ha varato lo strumento sino al mattino di un’altra sonorità, colma di pensiero.

Una pensosità concertata però in leggerezza, poiché limpido non è il suono cacciato nella pece del tempo, ma il gesto che continuamente dissesta il telaio degli umori, la partitura lontana dalle pacificazioni (voyage interrupted), per cui la materia musicale è quanto non può essere immobilizzato in un’unica scrittura. Musica piuttosto come vastità triturata, resto a venire, cioè vita essa stessa:

«Un geografo degli strumenti? Oziare, viaggiare, scrivere. O si ha sempre vent’anni o è come non averli mai avuti. […] Dopo alcuni anni avrei dovuto consolidare, amministrare. […] Ho scelto invece l’erranza.»

 

[Il libro verrà presentato il 21 giugno all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, durante una giornata interamente dedicata all’opera di Stefano Scodanibbio.]

 

 

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano) e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha preso parte al progetto Civitonia (NERO Editions). Ha curato, per Argolibri, l'inchiesta letteraria La radice dell'inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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