Il romanzo a variazioni
di Simona Carretta
È uscito in queste ultime settimane il saggio di Simona Carretta Il romanzo a variazioni nella collana «Saggi letterari» di Mimesis Edizioni. A partire dall’esame delle possibilità del romanzo contemporaneo di impiegare strutture compositive solitamente associate alla musica, in particolare la variazione su tema, il saggio è un invito a riflettere sul valore estetico che nel romanzo assume la dimensione formale.
Il volume contiene capitoli su Bernhard, Huston, Ergal, Huxley, Jonke, Broch, Kiš, Proust, Robbe-Grillet, Pinget, Calvino e Kundera. Dalla parte dedicata a Danilo Kiš è estratto il brano qui proposto.
(…) Pubblicato qualche anno dopo Clessidra, Una tomba per Boris Davidovič affronta il medesimo tema dell’originalità in modo diverso e complementare. Mentre nella trilogia [composta da Giardino, cenere, Dolori precoci e Clessidra, n.d.r.] l’invenzione delle variazioni immaginarie intorno al padre è l’espediente che riscatta quest’ultimo dalla nullificazione a cui lo ridurrebbe la considerazione del solo dato reale (la morte ad Auschwitz), il personaggio di Boris Davidovič nasce dalla riflessione sulla difficoltà di mantenere integra la memoria di sé in un’epoca continuamente minacciata dalle distorsioni operate dalla Storia.
Come Enciclopedia dei morti, questa opera si presenta nella forma di una raccolta di novelle, ambientate al tempo dei lager sovietici. Apparentemente indipendenti e contraddistinte da personaggi diversi, come precisa il sottotitolo esse rappresentano in realtà «Sette capitoli di una stessa storia».
Sebbene Kiš non riprenda dalla musica il principio delle variazioni, l’intera concezione formale del suo romanzo è musicale. Come ha dichiarato una volta: « (…) ho bisogno non solo di un tema che mi ossessioni ma anche di un cambiamento di registro, musicalmente parlando di una continua alternanza di tempi, non solo da un libro all’altro, ma anche all’interno dello stesso libro, e persino dello stesso racconto».[1]
Musicale è la stessa attenzione che il romanziere serbo rivolge alla forma: una preoccupazione che definisce «caratteristica peculiare della letteratura moderna» e che nella sua opera si traduce nella ricerca di un’invenzione formale ogni volta regolata in funzione del tema. Il desiderio di soluzioni formali sempre nuove conduce Kiš ad adottare per Una tomba per Boris Davidovič come per Enciclopedia dei morti l’espediente della raccolta di novelle che, se basata su una precisa unità tematica, è in grado di imporsi come una creazione romanzesca particolare.
Kiš lo afferma in un saggio[2] pubblicato ugualmente nel 1976. La raccolta novellistica è una soluzione ideale per il romanzo se si basa sull’impiego delle variazioni, che permettendo di superare i «tradizionali raccordi necessari a una falsa continuità nel tempo»[3] collega le novelle riconducendole a una massima concentrazione tematica; così il romanziere «ripete episodi simili, moltiplica i dettagli (…), ricorre alle variazioni su uno stesso tema, al fine di presentare diverse situazioni e diversi aspetti della vita sotto un comune denominatore».[4]
Nella quinta novella di Una tomba per Boris Davidovič, che ispira il titolo della raccolta, l’elemento che lega il tema all’architettura formale dell’opera è chiaramente svelato. Dopo un’esistenza mirabolante trascorsa a sabotare gli apparati del potere, Boris Davidovič, alias Novskij, viene arrestato. Durante la prigionia subisce gli interrogatori di un inflessibile giudice istruttore, che intende estorcergli una falsa confessione, necessaria a far quadrare l’impianto di accuse architettato dalla giustizia rivoluzionaria.
Attraverso lo scontro tra questi due personaggi, il lettore assiste alla contrapposizione di due diversi sistemi di giudizio: quello di Novskij, che in un mondo in cui è tramontata l’idea di destino coltiva l’illusione di non rovinare agli occhi dei posteri la sua «biografia», e quello di Fedjukin, il giudice istruttore, che biasima il rifiuto degli imputati a servire la ragion di stato come il frutto di un puro «egoismo sentimentale».[5]
Constatata l’insufficienza delle torture fisiche per indurre alla confessione Novskij, Fedjukin, già noto per il suo potere di ottenere le confessioni in base all’intuizione delle più recondite leggi della psicologia, che riesce ad applicare «senza neppure conoscerne l’esistenza», tenta una strategia diversa: decide di far condurre Novskij nei sotterranei del carcere – luogo che allude alla discesa negli antri più remoti della sua psiche. Qui farà entrare ogni sera un prigioniero diverso, che dovrà essere ucciso a sangue freddo davanti a Novskij, a meno che questi non prometta di arrendersi.
Compresa l’atrocità del bivio a cui Fedjukin lo ha condotto, Novskij si rende conto di essere in trappola: sa che le sole due alternative che gli si prospettano, quella di risparmiare la vita dei suoi compagni e così arrendersi a Fedjukin, o quella di difendere la sua innocenza ma permettere allora che altri vengano uccisi, finiranno inevitabilmente per danneggiare la coerenza della sua biografia.
Già la seconda sera l’intuizione che il macabro rituale potrà ripetersi ad infinitum è sufficiente a far sentire Novskij perduto. Ma, se il presagio della seconda volta o della prima ripetizione di un fenomeno è di per sé sufficiente a identificarlo, quindi a trasmettere l’idea della sua ineluttabilità, è proprio quando la serie delle ripetizioni si mostra inevitabile che entra in scena il caso, l’alterazione che perturba il susseguirsi dell’identico: la variazione. Quando viene condotto davanti a Novskij il secondo prigioniero, e dunque la scena del ricatto si appresta a essere ripetuta, l’inatteso si verifica:
A Novskij parve di aver già visto chissà dove quel giovane ritto davanti a lui. La pelle chiara cosparsa di lentiggini, il colorito malsano, i capelli folti e scuri, gli occhi un po’ strabici; probabilmente era uno che portava gli occhiali, e Novskij ebbe l’impressione di poter distinguere sulla sella del naso i segni recenti della montatura. L’idea che quel giovane in fondo somigliasse al lui stesso di un vent’anni prima gli sembrò assurda e cercò di scartarla, ma non poté non pensare per un attimo che quella somiglianza (nel caso fosse reale e deliberata) comportava qualche rischio per l’istruttoria di Fedjukin e in un certo qual senso poteva ritenersi un errore, una falla nella regia di Fedjukin stesso. Però anche quest’ultimo, dal canto suo, aveva probabilmente intuito che, se quella somiglianza era intenzionale e frutto di un’attenta selezione, il solo fatto di dover riflettere su di essa, sull’identità dei soggetti, avrebbe inevitabilmente portato Novskij a ravvisare anche una sostanziale differenza; quella somiglianza doveva solo dimostrare a Novskij che, agendo così, egli uccideva gente a lui simile, gente la cui biografia racchiudeva il seme potenziale di una futura biografia, coerente, compiuta, così simile alla sua, ma spezzata sul nascere, annientata, per così dire, ancora in stato embrionale (…).[6]
Non è un caso che l’intuizione che consente a Novskij di sciogliere il suo dilemma abbia luogo proprio durante la seconda volta: costituendo un primo termine di confronto, è la seconda manifestazione di un evento che lo rende intellegibile, che lo umanizza.
A Novskij sembra che il prigioniero selezionato per la seconda esecuzione gli assomigli. La differenza di età che lo separa da quest’ultimo – di circa vent’anni – è però sufficiente a fargli avvertire, insieme alla somiglianza, anche l’impressione di una distanza. Tuttavia, proprio questo è l’elemento che gli permette di riconoscere nel prigioniero un altro da sé.
Questo incontro offre a Novskij l’occasione di comprendere fino in fondo la sua filosofia del «niente per niente», elaborata durante i mesi trascorsi in cella di isolamento: se alla fine di tutto non vi è che la morte, allora che nessuna esistenza trascorra invano! Ed è così che Novskij prende la sua decisione: riconoscere nei compagni di cella il germe di una futura biografia in tutto simile alla sua eppure diversa. Ciò lo indurrà infine a salvarli, ossia a interrompere la catena delle uccisioni scendendo a patti con Fedjukin. Il confronto con i compagni lo porterà a indovinare nelle loro rispettive esistenze quel nucleo irripetibile che rende ogni esistenza degna di essere vissuta.
Nella logica interna alla novella ricopre un certo significato il fatto che la sola volta in cui il protagonista è chiamato con il vero nome – e non con il suo nome in codice –, a farlo sia proprio il prigioniero a cui tocca di ricordargli il se stesso di un tempo: «Boris Davidovič, non ceda a questi figli di cagna!». È solo specchiandosi nell’altro che egli può infine vedersi e uscire così dal suo isolamento.
Mentre il narratore bernhardiano del Soccombente ricava dalla differenza di indole e talento che lo separa dai personaggi di Wertheimer e di Gould l’intuizione della loro irriducibile affinità, Boris Davidovič nel confronto con il suo simile per eccellenza, ossia con l’altro se stesso più giovane, coglie la quintessenza della differenza: quel «seme potenziale» che distingue la biografia altrui dalla propria.
È grazie a questa scoperta che egli riesce finalmente a smettere di essere eternamente identico a se stesso e a diventare davvero originale. Si rende conto che il valore unico e prezioso di ogni esistenza dipende dal fatto che ciascuna rappresenta semplicemente una delle varie esistenze possibili; che, se l’identico può essere apprezzato solo in senso assoluto, la percezione di ciò che è originale non può che essere restituita da una visione relativa.
In questa intuizione sembra consistere la particolare morale attribuita da Kiš alle variazioni. Essa è provvista della medesima attendibilità discrezionale propria delle scoperte romanzesche e, oltre a motivare la novella dedicata al personaggio di Boris Davidovič – le cui numerose versioni, presentate sotto forma di congetture elaborate dalla polizia o di mascheramenti predisposti dallo stesso Boris Davidovič, non sono che ulteriori echi possibili della sua identità originale –, governa la struttura generale dell’opera. Il principio delle variazioni, presente nell’alternanza dei registri che spaziano dal narrativo al cronachistico, dal lirico al meditativo, collega tutte le sette novelle, i cui personaggi, che coincidono sempre con figure di ribelli, possono essere a loro volta intesi come variazioni di Boris Davidovič: protagonisti di Sette capitoli di una stessa storia.
La struttura unitaria dell’opera è evidenziata dalla rete di corrispondenze che collega le novelle e che comprende, ad esempio, la riproposizione di alcuni personaggi da una novella all’altra. La centralità di Boris Davidovič risulta ulteriormente rafforzata da una serie di richiami al personaggio, che cominciano ad apparire nella quarta novella, ma che figurano ugualmente nella sesta e nella settima. Tale maniera di introdurre il protagonista, se da una parte sembra avvicinare Una tomba per Boris Davidovič alla tradizione del romanzo moderno – ricorda, ad esempio, quella adottata da Tolstoj per il personaggio di Anna Karenina, che fa il suo ingresso nel romanzo solo un’ottantina di pagine dopo l’inizio –, dall’altra produce l’effetto di conferire al personaggio una sua realtà, contribuendo alla veridicità della narrazione.
È soprattutto Cani e libri, la sesta novella, a rivelare la matrice del libro. Unica a essere ambientata in un’epoca decisamente lontana da quella che fa da sfondo alle altre – la Francia del XIV secolo –, la storia dell’ebreo Baruch David Neuman, che cerca di ribellarsi alla conversione forzata e trova nel vescovo Jacques Fournier il suo più acerrimo antagonista, presenta corrispondenze speculari con quella di Boris Davidovič, dalla somiglianza dei nomi alla data in cui vengono arrestati: «lo stesso giorno del fatale mese di dicembre a distanza di sei secoli, 1330…1930».[7] Alla fine, è lo stesso narratore a riconoscere la similarità, che definisce «casuale e inattesa», tra le due novelle, interpretandola come una conferma della dottrina sull’andamento ciclico del tempo, che riformula con le parole di J.L. Borges: «Periodicamente il mondo viene distrutto dalle fiamme dalle quali era nato, per rinascere da capo e vivere la stessa storia (…)».[8]
La citazione del romanziere argentino non deve però trarre in inganno il lettore. Come spiega lo stesso Kiš, più che un libro borgesiano, Una tomba per Boris Davidovič ne rappresenta un perfetto «controlibro». Da Borges Kiš riprende l’impiego ironico del materiale documentario e la capacità di concentrare in pochi tratti il racconto di una vita intera. Tuttavia precisa che, se il personaggio tipico delle storie borgesiane assomiglia a un «filosofema», che esprime interrogativi metafisici al di fuori di ogni dimensione storica, «Una tomba per Boris Davidovič è invece basato proprio sulla storicità».[9]
A differenza dell’homo philosophicus e dell’homo religiosus, votati all’astrazione, l’uomo del romanzo è ogni volta rivelato dal contesto con cui si misura la sua esperienza, soggetto alle leggi del tempo e della Storia. Scrive Kiš: «L’uomo di Borges è uno yogi, i personaggi di Una tomba per Boris Davidovič sono i commissari (per riprendere la dicotomia di Koestler)».[10]
Mentre homo religiosus concepisce il mondo come un sistema composto da leggi immutabili, il romanziere lo organizza come una composizione che non si limita ad accogliere le ripetizioni, ma abbraccia il principio di uniformità allo stesso modo di quello della varietà. Fin dalle origini i rituali religiosi sono serviti a consacrare tutto ciò che nell’universo si ripete, ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Tradotto nel contesto del romanzo, si potrebbe affermare che il diavolo si nasconde nelle variazioni.
L’ontologia rivelata dalle variazioni di Una tomba per Boris Davidovič è quella di un mondo le cui corrispondenze segrete, riscontrabili anche a distanza di secoli, si presentano non sotto forma di ripetizioni, ma di coincidenze, per definizione eventi la cui apparizione «casuale e inattesa» è determinata dalla possibilità di riconoscere un’estrema somiglianza in un’estrema differenza, data dagli sfasamenti spazio-temporali che intervengono tra le novelle.
In Una tomba per Boris Davidovič lo sfondo temporale su cui si muovono i personaggi non è presentato come una semplice circostanza o un elemento scenografico. Mentre per i personaggi di Borges il tempo è una variabile irrilevante, dal momento che rispondono allo scopo di dimostrare un’idea, i personaggi di Kiš traggono dal tempo il loro peso specifico. Anche una distanza temporale di appena «vent’anni» permette loro di sviluppare nuove possibilità esistenziali: di liberare il rispettivo nucleo di originalità.
[1] Dichiarazione citata nell’intervista a Lela Zečković (De revisor, Amsterdam, marzo 1984), poi pubblicata con il titolo Cerco un posto al sole per il dubbio all’interno di D. Kiš, Homo Poeticus. Saggi e interviste, trad.it. di D. Badnjevič, Adelphi, Milano 2009, pp. 187-188.
[2] Testo incluso nella versione originale di Homo Poeticus con il titolo Romani na dlanu e in quella francese a cura di Pascale Delpech: Fayard, Paris 1993.
[3] Ivi, p. 108.
[4] Ivi, p. 111.
[5] D. Kiš, Una tomba per Boris Davidovič, cit., p. 112.
[6] Ivi p. 108.
[7] Ivi, p. 140.
[8] Ivi, p. 141.
[9] Cfr. D. Kiš, Čas anatomije, Nolit, Belgrado 1978. Scritto allo scopo di chiarire i malintesi sorti dalla ricezione di Una tomba per Boris Davidović, una parte di questo saggio, di cui manca la traduzione in italiano, è comunque confluita nella versione italiana della raccolta saggistica intitolata Homo Poeticus, cit., p. 340.
[10]Ib.
Il diavolo si nasconde nelle variazioni, pronto a smascherare la «falsa continuità del tempo»… Un brano denso e rivelatore, sia su Kiš che, più in profondità, su ciò che rende il romanzo il luogo di elezione per le inesauribili possibilità dell’esistenza. Affascinante anche la partita a scacchi che Kiš e Borges giocano dietro le quinte, con Koestler come maestro di cerimonie.